By Asia News
Il 24 aprile è “la data simbolica” che segnerà l’inizio dei lavori di
“ricostruzione” di case e chiese dei villaggi e delle cittadine della
piana di Ninive, devastate in questi anni dai miliziani dello Stato
islamico (SI). È quanto racconta ad AsiaNews don Paolo Thabit Mekko,
41enne sacerdote caldeo di Mosul, secondo cui è “importante” iniziare i
lavori e realizzarli “rapidamente” per impedire la fuga di altre
famiglie cristiane dalla regione.
Secondo una prima valutazione confermata dal sacerdote, per sistemare
“oltre 12mila case” distrutte o danneggiate in modo più o meno grave;
serviranno “almeno 200 milioni di dollari”, aggiunge, anche se la cifra
potrebbe aumentare in futuro.
“Abbiamo i documenti - spiega don Paolo - che attestano i danni e i
fabbisogni per la ricostruzione. Sono dati riferiti alle devastazioni
occorse in ciascun villaggio”. In ogni località, prosegue, “vi è un
ufficio per la ricostruzione e ogni villaggio riceve dei fondi. Il
denaro ricevuto viene distribuito in percentuale secondo il fabbisogno”.
Don Paolo è responsabile del campo profughi “Occhi di Erbil”, alla
periferia della capitale del Kurdistan irakeno, dove nel tempo hanno
trovato rifugio centinaia di migliaia di cristiani (insieme a musulmani e
yazidi) in seguito all’ascesa dello SI. La struttura ospita ancora oggi
140 famiglie, circa 700 persone in tutto, con 46 mini-appartamenti e
un’area per la raccolta e la distribuzione di aiuti. A questo si sono
aggiunti un asilo nido per i più piccoli, oltre che una scuola materna e
una secondaria. Molti di questi profughi arrivano proprio da Karamles,
dove la domenica delle Palme si è celebrata la prima messa nella chiesa devastata dai jihadisti di Daesh [acronimo arabo per lo SI].
Ancora oggi a Erbil e nel Kurdistan irakeno vivino migliaia di
famiglie di sfollati, fino a 14mila (pari a 90mila persone) secondo
alcune fonti. La gran parte di queste famiglie, circa 4/5 dipendono
dagli aiuti per la sopravvivenza quotidiana, per questo diventa ancora
più urgente il lavoro di ricostruzione e il rientro degli sfollati.
In occasione della Settimana Santa lo stesso don Paolo aveva lanciato
un appello alle parrocchie e ai fedeli sparsi nel mondo, perché
ciascuna comunità cristiana “adotti”
la sistemazione o la ricostruzione di un’abitazione della piana di
Ninive. “Per maggio abbiamo in programma la pubblicazione della stima
dei lavori - afferma il sacerdote caldeo - con i fondi attualmente a
disposizione”.
Il 24 aprile, il giorno seguente la festa di san Giorgio, viene
presentato come “data simbolica di inizio dei lavori di ricostruzione”.
In quell’occasione, racconta don Paolo, “celebreremo una messa proprio
nella chiesa di san Giorgio a Karamles. In questo momento, grazie al
contributo di alcuni volontari, stiamo ultimando i lavori di pulizia del
luogo di culto, come fatto in precedenza per la chiesa di Mar Addai,
per poter celebrare la funzione eucaristica insieme alla comunità”.
La ricostruzione riguarderà alcuni fra i più importanti centri
cristiani della piana: Qaraqosh, Bartella, Karamles, a lungo nelle mani
delle milizie jihadiste che all’intero hanno compiuto orrori e
devastazioni. “Abbiamo chiesto aiuto anche agli stessi sfollati -
prosegue il sacerdote - rivolgendoci a muratori, idraulici, geometri,
elettricisti. L’opera di ciascuno sarà essenziale per la rinascita di
questa terra”. Inoltre, partecipando ai lavori “gli stessi sfollati
potranno beneficiare di uno stipendio per poter sostenere i bisogni
delle rispettive famiglie”.
Ad oggi il patriarcato caldeo ha messo a disposizione un fondo, cui
si aggiungeranno [questa la speranza di don Paolo] donazioni e
contributi di fondazioni, enti e associazioni che partecipano ai lavori.
“Saranno i profughi stessi a mettersi in gioco per la ricostruzione -
aggiunge - e questo è elemento di doppia soddisfazione. La piana sta
cambiando volto dopo l’Isis, ci vorrà del tempo per ricostruire ma
bisogna fare in fretta. Molto dipenderà dai soldi che arriveranno, ma il
tempo stringe; l’inizio dei lavori è un messaggio importante per i
profughi della piana, è un invito a rimanere per ricostruire, quando
ancora oggi molti pensano alla fuga, all’esodo, all’estero”. “È
importante restare qui - conclude don Paolo - come cristiani e come
comunità irakena. Siamo il popolo che parla ancora la lingua di Gesù, se
andiamo via tutto sarà cancellato. La zona ormai è quasi del tutto
messa in sicurezza, in alcuni terreni si nascondono ancora mine ma i
lavori procedono. Bisogna proseguire senza sosta e con un rinnovato
entusiasmo”.