By Il Sismografo blogspot
Damiano Serpi
8 aprile 2017
Erano i primi giorni di marzo del 2003. Un forte vento di guerra spirava sul Medio Oriente. Galvanizzati da quella che sembrava essere stata una veloce e proficua passeggiata contro i Talebani in Afghanistan, gli americani, ancora colpiti al cuore per gli attentati del’11 settembre 2001, volevano questa volta chiudere per sempre i conti in sospeso con Saddam Hussein, il dittatore poliedrico dell’Iraq che, da amico e alleato dell’Occidente durante i quasi 10 anni di guerra con l’Iran, ora era considerato solo un pericoloso ingombro di cui sbarazzarsi in fretta. Il mondo intero guardava attonito e ansioso a ciò che la Casa Bianca avrebbe deciso di fare. Nessun altro al di fuori di quell’uomo diventato ora Presidente della più grande superpotenza al mondo aveva in mano le redini del mondo. A lui e solo a lui spettava l’ultima parola. L’opinione pubblica, così come tutti coloro che si stavano appassionando alla vicenda, si era divisa in due parti. Da un lato chi incitava alla guerra, all’azione militare, all’invasione con truppe da superficie di quella storica terra che noi tutti abbiamo studiato a scuola da bambini per essere stata, così naturalmente inserita tra il fiume Tigri e l’Eufrate, culla di una delle più antiche civiltà del mondo. Gli slogan erano sempre gli stessi, eliminare una minaccia e portare la democrazia dove non c’era. Dall’altro chi, invece, non riusciva a cogliere i vantaggi di quell’operazione militare così ardentemente paventata dall’amministrazione statunitense e mostrava riluttanza ad assecondare una seconda richiesta di intervento militare a poco più di un anno da quella, richiesta e ottenuta, per l’Afghanistan. L’intervento armato e l’invasione di ciò che allora era il paese afghano si potevano comprendere. L’ordine di dirottare 4 aerei per farli poi schiantare sulle Torri Gemelle di New York, sul Pentagono a Washington e, cosa poi non riuscita solo per un caso, sulla Casa Bianca, era arrivato da lì. I Talebani, al potere ormai da anni, avevano dato a quel tanto temibile Osama Bin Laden e alla sua Al Qaeda quel supporto necessario affinché si commettesse quel crimine ignobile. Questo si sapeva in quel momento e questo bastò perché gli Stati Uniti, presentata al mondo la pistola fumante di ciò che era stato ordito contro di loro causando la morte di quasi 3000 civili inermi, potessero ottenere la loro “giusta” riparazione.
Ma l’Iraq era un’altra storia. Nonostante si cercò a fondo, nessun legame con gli attentati dell’11 settembre era stato scovato per giustificare un intervento armato. L’Iraq non era l’Afghanistan. Erano diversi gli equilibri politici, l’area geografica, le implicazioni geopolitiche, la storia passata, la presenza dei ricchi giacimenti di “oro nero” e la tipologia di intervento da attuare. Per giustificare una concreta azione militare che, stavolta, avesse come obiettivo quello di eliminare il dittatore iracheno e togliergli ogni potere, si cercò ogni pretesto fino a trovarne uno potenzialmente detonante. Il possesso di armi chimiche di massa e l’uso che lo stesso dittatore ne fece decenni prima contro i curdi. La realtà vera dell’operazione era semplicemente quella di voler chiudere una volta per tutte con Saddam Hussein i conti in sospeso da oltre 12 anni, da quando, nel 1991, il presidente Bush padre decise di non arrivare sino a Bagdad per esautorare dal potere colui che aveva invaso illegittimamente il Kuwait e, per questo, era stato punito dalla comunità internazionale con quella che alla storia è passata come “Prima Guerra del Golfo”.
Tutto il mondo era stato posto davanti ad un fatto, credere o no che l’Iraq detenesse armi chimiche di distruzione di massa e quindi intervenire perché quella circoscritta minaccia venisse neutralizzata per sempre. Pian piano l’idea a base dell’intervento militare passò dal essere motivata con l’esigenza di eliminare per sempre quell’ipotetico arsenale chimico in mano agli iracheni alla necessità di affrancare il mondo dalla presenza di un sanguinario dittatore ormai ingovernabile perché diventato troppo imprevedibile. Alla fine fu chiaro che a prevalere non poté che essere questa seconda esigenza, dato che con l’invasione, e con l’immancabile senno di poi, si dimostrò una volte per tutte, e in modo inequivocabile, al mondo intero che l’Iraq non possedeva alcun tipo di arma biologica o chimica e, conseguentemente, che le prove portate, anche in sede Onu, dagli Stati Uniti sulla presenza dentro il territorio iracheno di arsenali di tale specie, erano solo false informazioni.
Tuttavia a marzo del 2003 questo non si poteva sapere. La guerra di invasione sembrava a tanti la scelta migliore, l’unica strada da percorrere se si voleva sgrassare il mondo da ciò che poteva rappresentare una minaccia per la sicurezza e per la pace. Poi era davvero troppo vicino l’esempio dell’Afghanistan, dove il repentino ritiro sistematico dei Talebani da città e villaggi era stato interpretato come una vittoria definitiva di chi era più forte e non, come poi si dovette tristemente verificare sul campo e ammettere pubblicamente, solo come una geniale manovra strategica per evitare di essere annientati. Molti nutrivano dubbi sull’apertura di questo nuovo fronte di guerra iracheno, molti altri avrebbero voluto solo un maggior coinvolgimento delle Nazioni Unite al posto di scelte unilaterali che potevano rappresentare, e lo sono poi stati, ingombranti precedenti alla mercé di tutti.
Chi non aveva alcun dubbio sull’inutilità e sulla sicura pericolosità di una azione militare così ideata, partorita e messa in opera era Giovanni Paolo Secondo, il pontefice polacco che aveva vissuto sulle sua pelle la Seconda Guerra Mondiale, il cupo periodo dell’anti semitismo in Europa e la Guerra Fredda da oltre cortina. Wojtyla non voleva arrendersi alla logica della guerra, non voleva abdicare allo sforzo di trovare la pace attraverso il dialogo e l’impegno delle diplomazie. A Wojtyla non era mai andato a genio il concetto di voler esportare la democrazia a suon di cannoni e, proprio a causa di ciò, molti commentatori superficiali, o forse troppo schierati, iniziarono ad accusarlo di essere esageratamente filo islamico. Fu per questa sua “testardaggine” nel ricercare sempre e comunque il dialogo che, all’ormai ultimo minuto utile, Giovanni Paolo Secondo decise di giocare l’ultima carta da gioco in suo possesso. Scrisse di suo pugno una lettera personale e riservata al Presidente George W. Bush. Scelse come ambasciatore di quel suo ultimo accorato messaggio il cardinale Pio Laghi, un uomo della diplomazia vaticana, uno dei decani più illustri dell’arte diplomatica, un conoscitore ben ferrato degli Stati Uniti e anche un uomo molto vicino alla famiglia Bush.
Il cardinale Laghi non raccontò mai a nessuno quale fu il reale contenuto di quella speciale lettera né la Santa Sede ne ha mai ufficializzato il testo. Con ogni probabilità l’unica persona al mondo che ancora oggi ne conosce precisamente le parole, tanto da conservarla gelosamente tra le sue carte più importanti, è solo lo stesso ex Presidente Bush. Comunque, al mondo intero Pio Laghi riassunse in tre semplici punti ciò che il Papa e, la Santa Sede, avevano in animo di evidenziare a colui che stava per prendere l’importante decisione di invadere militarmente l’Iraq senza attendere il consenso internazionale in sede ONU. Il pontefice non era preoccupato solo perché la guerra, ogni guerra, porta morte, dolore e distruzione. Questa volta il successore di Pietro era andato ben oltre l’affermazione di “Mai più guerra” che tante volte lo stesso Wojtyla aveva gridato da Piazza San Pietro durante l’Angelus domenicale. Forse ispirato dal Signore, forse assistito dallo Spirito Santo o, per chi non crede a questo, semplicemente avendo più intuito di tutti gli altri e una veduta più lunga, Giovanni Paolo Secondo implorava di fermarsi perché la decisione di invadere l’Iraq avrebbe comportato per anni e anni ulteriori gravi e lancinanti sofferenze, profonde destabilizzazioni e avrebbe aperto nuovi capitoli di afflizione per l’umanità intera.
Furono cinque le premonizioni che il Papa mise in evidenza in modo così preciso da apparire oggi delle vere e proprie profezie. Le prime tre riguardavano essenzialmente ciò che quell’intervento militare avrebbe causato alle parti belligeranti. La prima paventava l’alto numero di vittime che quell’azione militare avrebbe causato ad entrambe le parti. Così è stato veramente, l’intera operazione ha provocato la morte e il ferimento di decine di migliaia di soldati americani e di oltre duecentomila iracheni tra militari e civili inermi. La seconda evidenziava come l’invasione sarebbe potuta sfociare facilmente in una lunga guerra civile fratricida in una nazione dagli equilibri sociali, religiosi e etnici potenzialmente esplosivi. Questo si verificò sin da subito dopo l’invasione militare con una guerra civile tra sciiti, sunniti e curdi durata quasi 10 anni e che, ancora oggi, cova minacciosamente sotto le ceneri. La terza avvertiva gli USA che intervenendo militarmente sul suolo iracheno avrebbero trovato all’inizio grande facilità a farlo ma, in seguito, avrebbero solo faticato ad uscirne. Anche questo si verificò puntualmente e solo dopo quasi due lustri l’ultimo soldato statunitense poté lasciare l’Iraq, salvo tornarci qualche anno dopo a causa della pressante minaccia di un’Isis arrivata ad occupare persino la città irachena di Mosul.
Le ultime due premonizioni riguardavano invece aspetti più generali. La prima evidenziava la preoccupazione del pontefice che un intervento armato di quella portata, con una prolungata invasione dell’Iraq con truppe straniere, non avrebbe potuto che condurre ad una ulteriore destabilizzazione violenta di un Medio Oriente già troppo sconquassato. Come non poter affermare, col senno di poi, che questa ponderata preoccupazione di Giovanni Paolo Secondo non si è poi tradotta effettivamente in quella destabilizzazione totale del Medio Oriente che è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti noi in questi ultimi mesi e anni. La seconda, forse quella più intimamente profetica perché riguardante gli aspetti di fede, faceva notare che l’intervento militare non avrebbe fatto altro che alimentare quei fondamentalismi già massicciamente presenti nell’area con la conseguenza, quasi naturale, che il tutto andasse ad aggravare e rendere ancora più profondo quel solco tra Islam e Cristianesimo che era l’arma principale di un integralismo fondamentalista in perenne ascesa.
Anche quest’ultima previsione si è puntualmente verificata. Ciò che San Giovanni Paolo Secondo voleva a tutti i costi far notare e sottoporre all’attenzione di chi doveva prendere quella centrale decisione di usare le armi per compiere un’azione militare al di fuori da ogni schema Onu, non è altro che quello a cui stiamo assistendo ogni giorno da ormai oltre un decennio. L’aumento del fondamentalismo, la nascita dello Stato Islamico, le persecuzioni contro i cristiani, l’odio verso l’occidente, l’uso del terrorismo in ogni angolo del pianeta, la difficoltà di portare avanti quel dialogo tra l’Islam moderato e il mondo cristiano sono solo alcune delle nefaste conseguenze che Wojtyla aveva già chiare nella sua mente quando implorava di non dar corso all’uso delle armi.
Tutto ciò che Giovanni Paolo Secondo cercò di dire per dissuadere il Presidente Bush dal prendere quella iniziativa militare si è poi puntualmente verificato, ogni cosa. Ci son voluti quasi 15 anni per capirlo e per avere il coraggio di ammetterlo, tuttavia oggi è chiaro e non può che essere ribadito con forza.
Il cardinale Laghi fallì la missione affidatagli. Non per sua colpa, ma perché la decisione che il Papa voleva a tutti i costi scongiurare era già stata presa da tempo. Tutto lo indicava, ma, come spesso accade, certe cose al momento non si riescono a percepire nonostante se ne possano individuare tutti i segnali. La chiesa di Roma fece tutto quello che poteva fare, senza risparmiarsi, tuttavia non le fu dato credito. Il cardinal Laghi fu accolto con freddezza, quasi con imperioso distacco, dagli stessi collaboratori del Presidente che, a più riprese, vollero a momenti interrogarlo in anticipo su quanto avesse da riferire al presidente. Il dialogo tra l’inviato pontificio e il capo della Casa Bianca fu cordiale ma troppo formale in quel continuo voler precisare i distinguo e i punti di vista irremovibili. Persino il tentativo della Casa Bianca di impedire al cardinale di rilasciare alla stampa dichiarazioni immediatamente dopo l’incontro con il Presidente era sintomatico della volontà di non consentire nulla che potesse interferire con ciò che era stato già stabilito. Le parole di Bush, quel suo affermare con tutta tranquillità davanti ai dubbi concreti di un Papa di essere convito che ciò che stava per fare “era la volontà di Dio”, dimostravano chiaramente che la decisione era già stata presa. Quel prendere dalle mani del cardinale la lettera personale di un Papa e poggiarla sul tavolo in mezzo ad altre carte, senza neanche sentirsi in dovere di aprirla e leggerla per dare una risposta a chi era venuto da Roma per attendere una risposta da riportare alla sorgente, erano chiari segnali della mancanza di volontà di riaprire un dialogo su quell’argomento.
Ora tutti voi che leggete vi chiederete perché si è voluta ricordare la storia di qualcosa che è successo ben 14 anni fa. Semplicemente perché quanto sta avvenendo oggi nel mondo è molto simile a quanto successe quel 5 marzo 2003, solo che noi tutti non ce ne ricordiamo o, forse più semplicemente, facciamo finta di non ricordarcene. Sono cambiati gli attori, gli uomini in carne ed ossa, tuttavia i problemi, le situazioni, le sofferenze e il cieco richiamo delle armi e della guerra ancora ci accompagnano nella nostra vita quotidiana come se fossero l’unica costante che non riusciamo a scrollarci di dosso. Ciò che è successo 14 anni fa riguardava il futuro dell’Iraq guidata da un sanguinoso dittatore. Ciò che succede oggi riguarda il futuro di una Siria guidata da un altro sanguinoso dittatore. Tuttavia l’area è sempre la stessa, quel Medio Oriente che da oltre 100 anni è terreno di inaudite violenze e di scontri sanguinosi. Estremismi, lotte di religione, guerre di potere, bramosia di vendetta e vanità personali erano allora elementi di scelta peculiari per chi ha poi deciso di fare ciò che ha fatto così come, purtroppo, sembrano anche oggi essere gli stessi elementi che possono influire disastrosamente su chi ha il potere in mano. Quel potere di decidere tra la vita e la morte, tra la guerra e la pace, tra il dialogo e il sordo sibilo dei missili, tra il fare un disastroso passo in avanti o un provvidenziale passo indietro. È vero, oggi si usano i droni telecomandati, le bombe intelligenti e gli scudi spaziali direttamente comandati dai satelliti militari. Tuttavia i nostri occhi, nonostante tutta questa splendida tecnologia prestate all’arte della guerra, si stanno terribilmente assuefanno a vedere ancora una volta bambini che muoiono sotto le bombe, civili inermi che rantolano per essere stati esposti ad attacchi chimici, ospedali distrutti da bombardamenti senza regole, città assediate, atti terroristici di inaudita e barbara violenza, aumento esponenziale dell’odio e della sete di vendetta.
Cosa è cambiato in realtà da ciò che Papa Giovanni Paolo Secondo, oggi Santo, cercava di dirci ? Nulla, ancora dobbiamo capire quel suo gridare “Mai più la guerra”, quel suo dirci, come un nonno premuroso con il più caro dei suoi nipoti, “Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta, per questo ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto questa esperienza : Mai più guerra”. Perché quelle parole profetiche di San Giovanni Paolo Secondo non sono state ascoltate ? Perché non si è ascoltata la voce di chi aveva conosciuto davvero ciò che la guerra significa ? Perché non provare, almeno per una volta, a invertire davvero la spirale di violenza senza dover sempre ricorrere alle armi e sempre meno al dialogo ? Meditiamo su questo e su quanto Papa Francesco ci dice ogni giorno di un mondo dove, senza essere dichiarata, ogni giorno si combatte una “terza guerra mondiale a pezzi”. Facciamolo ognuno per quello che può e che pensa di dover fare. Facciamolo noi per primi, senza aspettare che debbano farlo i politici, i potenti del mondo o i capi militari. Facciamolo proprio partendo dal nostro rapporto di vicinato, dal nostro essere prossimi agli altri, dal nostro comportamento quotidiano in casa, a scuola, per strada, in parrocchia o al lavoro. Facciamolo nella prossima settimana, la Settimana Santa, quando ripercorreremo, da fedeli, la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo.
Damiano Serpi
8 aprile 2017
Erano i primi giorni di marzo del 2003. Un forte vento di guerra spirava sul Medio Oriente. Galvanizzati da quella che sembrava essere stata una veloce e proficua passeggiata contro i Talebani in Afghanistan, gli americani, ancora colpiti al cuore per gli attentati del’11 settembre 2001, volevano questa volta chiudere per sempre i conti in sospeso con Saddam Hussein, il dittatore poliedrico dell’Iraq che, da amico e alleato dell’Occidente durante i quasi 10 anni di guerra con l’Iran, ora era considerato solo un pericoloso ingombro di cui sbarazzarsi in fretta. Il mondo intero guardava attonito e ansioso a ciò che la Casa Bianca avrebbe deciso di fare. Nessun altro al di fuori di quell’uomo diventato ora Presidente della più grande superpotenza al mondo aveva in mano le redini del mondo. A lui e solo a lui spettava l’ultima parola. L’opinione pubblica, così come tutti coloro che si stavano appassionando alla vicenda, si era divisa in due parti. Da un lato chi incitava alla guerra, all’azione militare, all’invasione con truppe da superficie di quella storica terra che noi tutti abbiamo studiato a scuola da bambini per essere stata, così naturalmente inserita tra il fiume Tigri e l’Eufrate, culla di una delle più antiche civiltà del mondo. Gli slogan erano sempre gli stessi, eliminare una minaccia e portare la democrazia dove non c’era. Dall’altro chi, invece, non riusciva a cogliere i vantaggi di quell’operazione militare così ardentemente paventata dall’amministrazione statunitense e mostrava riluttanza ad assecondare una seconda richiesta di intervento militare a poco più di un anno da quella, richiesta e ottenuta, per l’Afghanistan. L’intervento armato e l’invasione di ciò che allora era il paese afghano si potevano comprendere. L’ordine di dirottare 4 aerei per farli poi schiantare sulle Torri Gemelle di New York, sul Pentagono a Washington e, cosa poi non riuscita solo per un caso, sulla Casa Bianca, era arrivato da lì. I Talebani, al potere ormai da anni, avevano dato a quel tanto temibile Osama Bin Laden e alla sua Al Qaeda quel supporto necessario affinché si commettesse quel crimine ignobile. Questo si sapeva in quel momento e questo bastò perché gli Stati Uniti, presentata al mondo la pistola fumante di ciò che era stato ordito contro di loro causando la morte di quasi 3000 civili inermi, potessero ottenere la loro “giusta” riparazione.
Ma l’Iraq era un’altra storia. Nonostante si cercò a fondo, nessun legame con gli attentati dell’11 settembre era stato scovato per giustificare un intervento armato. L’Iraq non era l’Afghanistan. Erano diversi gli equilibri politici, l’area geografica, le implicazioni geopolitiche, la storia passata, la presenza dei ricchi giacimenti di “oro nero” e la tipologia di intervento da attuare. Per giustificare una concreta azione militare che, stavolta, avesse come obiettivo quello di eliminare il dittatore iracheno e togliergli ogni potere, si cercò ogni pretesto fino a trovarne uno potenzialmente detonante. Il possesso di armi chimiche di massa e l’uso che lo stesso dittatore ne fece decenni prima contro i curdi. La realtà vera dell’operazione era semplicemente quella di voler chiudere una volta per tutte con Saddam Hussein i conti in sospeso da oltre 12 anni, da quando, nel 1991, il presidente Bush padre decise di non arrivare sino a Bagdad per esautorare dal potere colui che aveva invaso illegittimamente il Kuwait e, per questo, era stato punito dalla comunità internazionale con quella che alla storia è passata come “Prima Guerra del Golfo”.
Tutto il mondo era stato posto davanti ad un fatto, credere o no che l’Iraq detenesse armi chimiche di distruzione di massa e quindi intervenire perché quella circoscritta minaccia venisse neutralizzata per sempre. Pian piano l’idea a base dell’intervento militare passò dal essere motivata con l’esigenza di eliminare per sempre quell’ipotetico arsenale chimico in mano agli iracheni alla necessità di affrancare il mondo dalla presenza di un sanguinario dittatore ormai ingovernabile perché diventato troppo imprevedibile. Alla fine fu chiaro che a prevalere non poté che essere questa seconda esigenza, dato che con l’invasione, e con l’immancabile senno di poi, si dimostrò una volte per tutte, e in modo inequivocabile, al mondo intero che l’Iraq non possedeva alcun tipo di arma biologica o chimica e, conseguentemente, che le prove portate, anche in sede Onu, dagli Stati Uniti sulla presenza dentro il territorio iracheno di arsenali di tale specie, erano solo false informazioni.
Tuttavia a marzo del 2003 questo non si poteva sapere. La guerra di invasione sembrava a tanti la scelta migliore, l’unica strada da percorrere se si voleva sgrassare il mondo da ciò che poteva rappresentare una minaccia per la sicurezza e per la pace. Poi era davvero troppo vicino l’esempio dell’Afghanistan, dove il repentino ritiro sistematico dei Talebani da città e villaggi era stato interpretato come una vittoria definitiva di chi era più forte e non, come poi si dovette tristemente verificare sul campo e ammettere pubblicamente, solo come una geniale manovra strategica per evitare di essere annientati. Molti nutrivano dubbi sull’apertura di questo nuovo fronte di guerra iracheno, molti altri avrebbero voluto solo un maggior coinvolgimento delle Nazioni Unite al posto di scelte unilaterali che potevano rappresentare, e lo sono poi stati, ingombranti precedenti alla mercé di tutti.
Chi non aveva alcun dubbio sull’inutilità e sulla sicura pericolosità di una azione militare così ideata, partorita e messa in opera era Giovanni Paolo Secondo, il pontefice polacco che aveva vissuto sulle sua pelle la Seconda Guerra Mondiale, il cupo periodo dell’anti semitismo in Europa e la Guerra Fredda da oltre cortina. Wojtyla non voleva arrendersi alla logica della guerra, non voleva abdicare allo sforzo di trovare la pace attraverso il dialogo e l’impegno delle diplomazie. A Wojtyla non era mai andato a genio il concetto di voler esportare la democrazia a suon di cannoni e, proprio a causa di ciò, molti commentatori superficiali, o forse troppo schierati, iniziarono ad accusarlo di essere esageratamente filo islamico. Fu per questa sua “testardaggine” nel ricercare sempre e comunque il dialogo che, all’ormai ultimo minuto utile, Giovanni Paolo Secondo decise di giocare l’ultima carta da gioco in suo possesso. Scrisse di suo pugno una lettera personale e riservata al Presidente George W. Bush. Scelse come ambasciatore di quel suo ultimo accorato messaggio il cardinale Pio Laghi, un uomo della diplomazia vaticana, uno dei decani più illustri dell’arte diplomatica, un conoscitore ben ferrato degli Stati Uniti e anche un uomo molto vicino alla famiglia Bush.
Il cardinale Laghi non raccontò mai a nessuno quale fu il reale contenuto di quella speciale lettera né la Santa Sede ne ha mai ufficializzato il testo. Con ogni probabilità l’unica persona al mondo che ancora oggi ne conosce precisamente le parole, tanto da conservarla gelosamente tra le sue carte più importanti, è solo lo stesso ex Presidente Bush. Comunque, al mondo intero Pio Laghi riassunse in tre semplici punti ciò che il Papa e, la Santa Sede, avevano in animo di evidenziare a colui che stava per prendere l’importante decisione di invadere militarmente l’Iraq senza attendere il consenso internazionale in sede ONU. Il pontefice non era preoccupato solo perché la guerra, ogni guerra, porta morte, dolore e distruzione. Questa volta il successore di Pietro era andato ben oltre l’affermazione di “Mai più guerra” che tante volte lo stesso Wojtyla aveva gridato da Piazza San Pietro durante l’Angelus domenicale. Forse ispirato dal Signore, forse assistito dallo Spirito Santo o, per chi non crede a questo, semplicemente avendo più intuito di tutti gli altri e una veduta più lunga, Giovanni Paolo Secondo implorava di fermarsi perché la decisione di invadere l’Iraq avrebbe comportato per anni e anni ulteriori gravi e lancinanti sofferenze, profonde destabilizzazioni e avrebbe aperto nuovi capitoli di afflizione per l’umanità intera.
Furono cinque le premonizioni che il Papa mise in evidenza in modo così preciso da apparire oggi delle vere e proprie profezie. Le prime tre riguardavano essenzialmente ciò che quell’intervento militare avrebbe causato alle parti belligeranti. La prima paventava l’alto numero di vittime che quell’azione militare avrebbe causato ad entrambe le parti. Così è stato veramente, l’intera operazione ha provocato la morte e il ferimento di decine di migliaia di soldati americani e di oltre duecentomila iracheni tra militari e civili inermi. La seconda evidenziava come l’invasione sarebbe potuta sfociare facilmente in una lunga guerra civile fratricida in una nazione dagli equilibri sociali, religiosi e etnici potenzialmente esplosivi. Questo si verificò sin da subito dopo l’invasione militare con una guerra civile tra sciiti, sunniti e curdi durata quasi 10 anni e che, ancora oggi, cova minacciosamente sotto le ceneri. La terza avvertiva gli USA che intervenendo militarmente sul suolo iracheno avrebbero trovato all’inizio grande facilità a farlo ma, in seguito, avrebbero solo faticato ad uscirne. Anche questo si verificò puntualmente e solo dopo quasi due lustri l’ultimo soldato statunitense poté lasciare l’Iraq, salvo tornarci qualche anno dopo a causa della pressante minaccia di un’Isis arrivata ad occupare persino la città irachena di Mosul.
Le ultime due premonizioni riguardavano invece aspetti più generali. La prima evidenziava la preoccupazione del pontefice che un intervento armato di quella portata, con una prolungata invasione dell’Iraq con truppe straniere, non avrebbe potuto che condurre ad una ulteriore destabilizzazione violenta di un Medio Oriente già troppo sconquassato. Come non poter affermare, col senno di poi, che questa ponderata preoccupazione di Giovanni Paolo Secondo non si è poi tradotta effettivamente in quella destabilizzazione totale del Medio Oriente che è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti noi in questi ultimi mesi e anni. La seconda, forse quella più intimamente profetica perché riguardante gli aspetti di fede, faceva notare che l’intervento militare non avrebbe fatto altro che alimentare quei fondamentalismi già massicciamente presenti nell’area con la conseguenza, quasi naturale, che il tutto andasse ad aggravare e rendere ancora più profondo quel solco tra Islam e Cristianesimo che era l’arma principale di un integralismo fondamentalista in perenne ascesa.
Anche quest’ultima previsione si è puntualmente verificata. Ciò che San Giovanni Paolo Secondo voleva a tutti i costi far notare e sottoporre all’attenzione di chi doveva prendere quella centrale decisione di usare le armi per compiere un’azione militare al di fuori da ogni schema Onu, non è altro che quello a cui stiamo assistendo ogni giorno da ormai oltre un decennio. L’aumento del fondamentalismo, la nascita dello Stato Islamico, le persecuzioni contro i cristiani, l’odio verso l’occidente, l’uso del terrorismo in ogni angolo del pianeta, la difficoltà di portare avanti quel dialogo tra l’Islam moderato e il mondo cristiano sono solo alcune delle nefaste conseguenze che Wojtyla aveva già chiare nella sua mente quando implorava di non dar corso all’uso delle armi.
Tutto ciò che Giovanni Paolo Secondo cercò di dire per dissuadere il Presidente Bush dal prendere quella iniziativa militare si è poi puntualmente verificato, ogni cosa. Ci son voluti quasi 15 anni per capirlo e per avere il coraggio di ammetterlo, tuttavia oggi è chiaro e non può che essere ribadito con forza.
Il cardinale Laghi fallì la missione affidatagli. Non per sua colpa, ma perché la decisione che il Papa voleva a tutti i costi scongiurare era già stata presa da tempo. Tutto lo indicava, ma, come spesso accade, certe cose al momento non si riescono a percepire nonostante se ne possano individuare tutti i segnali. La chiesa di Roma fece tutto quello che poteva fare, senza risparmiarsi, tuttavia non le fu dato credito. Il cardinal Laghi fu accolto con freddezza, quasi con imperioso distacco, dagli stessi collaboratori del Presidente che, a più riprese, vollero a momenti interrogarlo in anticipo su quanto avesse da riferire al presidente. Il dialogo tra l’inviato pontificio e il capo della Casa Bianca fu cordiale ma troppo formale in quel continuo voler precisare i distinguo e i punti di vista irremovibili. Persino il tentativo della Casa Bianca di impedire al cardinale di rilasciare alla stampa dichiarazioni immediatamente dopo l’incontro con il Presidente era sintomatico della volontà di non consentire nulla che potesse interferire con ciò che era stato già stabilito. Le parole di Bush, quel suo affermare con tutta tranquillità davanti ai dubbi concreti di un Papa di essere convito che ciò che stava per fare “era la volontà di Dio”, dimostravano chiaramente che la decisione era già stata presa. Quel prendere dalle mani del cardinale la lettera personale di un Papa e poggiarla sul tavolo in mezzo ad altre carte, senza neanche sentirsi in dovere di aprirla e leggerla per dare una risposta a chi era venuto da Roma per attendere una risposta da riportare alla sorgente, erano chiari segnali della mancanza di volontà di riaprire un dialogo su quell’argomento.
Ora tutti voi che leggete vi chiederete perché si è voluta ricordare la storia di qualcosa che è successo ben 14 anni fa. Semplicemente perché quanto sta avvenendo oggi nel mondo è molto simile a quanto successe quel 5 marzo 2003, solo che noi tutti non ce ne ricordiamo o, forse più semplicemente, facciamo finta di non ricordarcene. Sono cambiati gli attori, gli uomini in carne ed ossa, tuttavia i problemi, le situazioni, le sofferenze e il cieco richiamo delle armi e della guerra ancora ci accompagnano nella nostra vita quotidiana come se fossero l’unica costante che non riusciamo a scrollarci di dosso. Ciò che è successo 14 anni fa riguardava il futuro dell’Iraq guidata da un sanguinoso dittatore. Ciò che succede oggi riguarda il futuro di una Siria guidata da un altro sanguinoso dittatore. Tuttavia l’area è sempre la stessa, quel Medio Oriente che da oltre 100 anni è terreno di inaudite violenze e di scontri sanguinosi. Estremismi, lotte di religione, guerre di potere, bramosia di vendetta e vanità personali erano allora elementi di scelta peculiari per chi ha poi deciso di fare ciò che ha fatto così come, purtroppo, sembrano anche oggi essere gli stessi elementi che possono influire disastrosamente su chi ha il potere in mano. Quel potere di decidere tra la vita e la morte, tra la guerra e la pace, tra il dialogo e il sordo sibilo dei missili, tra il fare un disastroso passo in avanti o un provvidenziale passo indietro. È vero, oggi si usano i droni telecomandati, le bombe intelligenti e gli scudi spaziali direttamente comandati dai satelliti militari. Tuttavia i nostri occhi, nonostante tutta questa splendida tecnologia prestate all’arte della guerra, si stanno terribilmente assuefanno a vedere ancora una volta bambini che muoiono sotto le bombe, civili inermi che rantolano per essere stati esposti ad attacchi chimici, ospedali distrutti da bombardamenti senza regole, città assediate, atti terroristici di inaudita e barbara violenza, aumento esponenziale dell’odio e della sete di vendetta.
Cosa è cambiato in realtà da ciò che Papa Giovanni Paolo Secondo, oggi Santo, cercava di dirci ? Nulla, ancora dobbiamo capire quel suo gridare “Mai più la guerra”, quel suo dirci, come un nonno premuroso con il più caro dei suoi nipoti, “Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta, per questo ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto questa esperienza : Mai più guerra”. Perché quelle parole profetiche di San Giovanni Paolo Secondo non sono state ascoltate ? Perché non si è ascoltata la voce di chi aveva conosciuto davvero ciò che la guerra significa ? Perché non provare, almeno per una volta, a invertire davvero la spirale di violenza senza dover sempre ricorrere alle armi e sempre meno al dialogo ? Meditiamo su questo e su quanto Papa Francesco ci dice ogni giorno di un mondo dove, senza essere dichiarata, ogni giorno si combatte una “terza guerra mondiale a pezzi”. Facciamolo ognuno per quello che può e che pensa di dover fare. Facciamolo noi per primi, senza aspettare che debbano farlo i politici, i potenti del mondo o i capi militari. Facciamolo proprio partendo dal nostro rapporto di vicinato, dal nostro essere prossimi agli altri, dal nostro comportamento quotidiano in casa, a scuola, per strada, in parrocchia o al lavoro. Facciamolo nella prossima settimana, la Settimana Santa, quando ripercorreremo, da fedeli, la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo.