La piena cittadinanza per tutti gli iracheni, anziché uno statuto speciale per i cristiani come minoranza da proteggere. Con questo auspicio il patriarca di Babilonia dei Caldei si è rivolto ieri, venerdì, alla stampa in occasione di una visita di due giorni in Francia destinata innanzitutto a manifestare solidarietà ai membri della diaspora caldea presenti in gran parte a Sarcelles, alla periferia di Parigi. «Ci vuole una politica più aperta, anche a livello di cittadinanza, il regime deve mantenere gli stessi diritti per tutti gli iracheni e cancellare le leggi settarie», ha affermato Louis Raphaël i Sako. Per esempio, la difesa di tutti gli iracheni, siano loro musulmani, yazidi o cristiani, deve essere garantita dall’esercito nazionale, e non spetta affatto alle forze armate straniere.
Secondo il patriarca caldeo,
le piccole milizie locali formate sulla base dell’appartenenza etnico religiosa
sono più che altro bersagli per i fondamentalisti islamici, e svolgere
un'operazione isolata non ha senso.
Qualche settimana prima, Sako si era già espresso su questo tema in occasione di un forum sul futuro dell’Iraq svoltosi a Sulaymaniyah, all’estremo est del paese, rilevando quanto fosse necessaria una chiara distinzione tra politica e religione. La sfida principale degli iracheni, aveva affermato il patriarca, è quella di «costruire uno stato di diritto, una democrazia nazionale, moderna, un paese basato sul principio della cittadinanza e non su rapporti di forza predefiniti tra maggioranze e minoranze determinate a seconda dell’etnia o della religione». Quando Mosul verrà completamente riconquistata e le milizie islamiste mandate via, aveva ribadito Sako, gli iracheni dovranno ricomporre il tessuto politico, sociale e religioso che è stato lacerato dalla guerra. «C’è un futuro per tutti, secondo me questo richiede uno stato moderno e civile, che non abbia niente a che vedere con la religione», ha detto ieri Sako, aggiungendo che «del resto, tanti politici in Iraq auspicano una separazione tra religione e stato, senza la quale non ci sarà né futuro né progresso».
Il ritorno dei cristiani nella pianura di Ninive è stato un altro tema affrontato a Parigi. L’entusiasmo da loro espresso subito dopo la liberazione dei villaggi si è attenuato pian piano con il tempo, tanto che molti preferiscono rimanere nel Kurdistan. «Anche se non obblighiamo nessuno a tornare sul posto o a rimanerci — ha dichiarato Sako — non bisogna dimenticare che si tratta della nostra terra promessa, dove viviamo da 2000 anni, con una storia, delle tradizioni secolari». Secondo il patriarca, la creazione al più presto di una provincia o di una regione autonoma per i cristiani — soluzione caldeggiata da una parte dei fedeli — non sarebbe però la via migliore per garantire protezione e incolumità.
Per ridare fiducia ai cristiani e incoraggiarli a tornare nelle loro case, il capo della Chiesa caldea si affida anche alla presenza di osservatori dell'Unione europea e delle Nazioni unite con il compito di garantire una iniziale situazione di sicurezza. Tuttavia, ritiene «irrealistica» una presenza duratura di caschi blu richiesta da alcuni settori cristiani. Comunque sia, occorre soprattutto fare affidamento sull’amicizia con i musulmani, ribadisce Sako, perché «per noi è più importante il sostegno spirituale e umano». Cosa c’è da aspettarsi concretamente da parte dei musulmani iracheni? Essi, spiega il patriarca, devono accogliere i cristiani rispettandoli così come sono, in quanto cittadini e non come dhimmi, cioè come non musulmani a cui è concessa una certa libertà di culto. «Il mondo è cambiato, certi testi, e in particolare alcuni provvedimenti sugli ebrei e i cristiani non hanno più senso, oramai non rappresentiamo più un pericolo per i musulmani», ha aggiunto, prima di sottolineare un dato incoraggiante per la convivenza tra religioni nella piana di Ninive: all’università di Mosul, prima della conquista della città da parte del cosiddetto stato islamico, un terzo degli studenti erano cristiani.
Qualche settimana prima, Sako si era già espresso su questo tema in occasione di un forum sul futuro dell’Iraq svoltosi a Sulaymaniyah, all’estremo est del paese, rilevando quanto fosse necessaria una chiara distinzione tra politica e religione. La sfida principale degli iracheni, aveva affermato il patriarca, è quella di «costruire uno stato di diritto, una democrazia nazionale, moderna, un paese basato sul principio della cittadinanza e non su rapporti di forza predefiniti tra maggioranze e minoranze determinate a seconda dell’etnia o della religione». Quando Mosul verrà completamente riconquistata e le milizie islamiste mandate via, aveva ribadito Sako, gli iracheni dovranno ricomporre il tessuto politico, sociale e religioso che è stato lacerato dalla guerra. «C’è un futuro per tutti, secondo me questo richiede uno stato moderno e civile, che non abbia niente a che vedere con la religione», ha detto ieri Sako, aggiungendo che «del resto, tanti politici in Iraq auspicano una separazione tra religione e stato, senza la quale non ci sarà né futuro né progresso».
Il ritorno dei cristiani nella pianura di Ninive è stato un altro tema affrontato a Parigi. L’entusiasmo da loro espresso subito dopo la liberazione dei villaggi si è attenuato pian piano con il tempo, tanto che molti preferiscono rimanere nel Kurdistan. «Anche se non obblighiamo nessuno a tornare sul posto o a rimanerci — ha dichiarato Sako — non bisogna dimenticare che si tratta della nostra terra promessa, dove viviamo da 2000 anni, con una storia, delle tradizioni secolari». Secondo il patriarca, la creazione al più presto di una provincia o di una regione autonoma per i cristiani — soluzione caldeggiata da una parte dei fedeli — non sarebbe però la via migliore per garantire protezione e incolumità.
Per ridare fiducia ai cristiani e incoraggiarli a tornare nelle loro case, il capo della Chiesa caldea si affida anche alla presenza di osservatori dell'Unione europea e delle Nazioni unite con il compito di garantire una iniziale situazione di sicurezza. Tuttavia, ritiene «irrealistica» una presenza duratura di caschi blu richiesta da alcuni settori cristiani. Comunque sia, occorre soprattutto fare affidamento sull’amicizia con i musulmani, ribadisce Sako, perché «per noi è più importante il sostegno spirituale e umano». Cosa c’è da aspettarsi concretamente da parte dei musulmani iracheni? Essi, spiega il patriarca, devono accogliere i cristiani rispettandoli così come sono, in quanto cittadini e non come dhimmi, cioè come non musulmani a cui è concessa una certa libertà di culto. «Il mondo è cambiato, certi testi, e in particolare alcuni provvedimenti sugli ebrei e i cristiani non hanno più senso, oramai non rappresentiamo più un pericolo per i musulmani», ha aggiunto, prima di sottolineare un dato incoraggiante per la convivenza tra religioni nella piana di Ninive: all’università di Mosul, prima della conquista della città da parte del cosiddetto stato islamico, un terzo degli studenti erano cristiani.