By Tempi
Rodolfo Casadei
Louis Raphaël Sako, patriarca dei caldei, la confessione maggioritaria fra i cristiani iracheni, ha recentemente visitato l’Iraq settentrionale insieme all’arcivescovo di Vienna Cristoph Schönborn. Ci ha rilasciato la seguente intervista.
Patriarca Sako, nei suoi ultimi interventi lei ha ribadito più volte la necessità dell’unità politica dei cristiani iracheni, che alle ultime elezioni si sono presentati in ben 9 liste diverse. Lei crede che il suo appello sarà ascoltato? Se le altre Chiese non ascolteranno, i caldei faranno in modo di concentrarsi tutti in un’unica lista, almeno quelli che avranno l’approvazione della gerarchia?
Il 2 aprile terremo un incontro a Baghdad con gli altri patriarchi e alcuni laici impegnati in politica per portare avanti la mia proposta. Non sarà facile realizzarla, perché alcuni partiti e uomini politici cristiani sono legati ai partiti maggiori iracheni. Ma io non vedo altra soluzione in questo momento: dobbiamo avere lo stesso programma e avere tutti lo stesso discorso se vogliamo incidere. Se non tutti accetteranno, almeno noi caldei, che siamo la confessione cristiana più numerosa, creeremo una nostra formazione unitaria.Il Congresso degli Stati Uniti prima e poi il Dipartimento di Stato hanno stabilito che le azioni del Daesh sia contro gli yazidi che contro i cristiani rappresentano un genocidio, come già si era espresso anche il Parlamento europeo. Come valuta questo sviluppo? Sono un po’ preoccupato che questa dichiarazione possa essere strumentalizzata per scopi non chiari, cioè per giustificare interventi militari o per chiedere denaro da parte di alcuni. C’è una persecuzione contro i cristiani che ha costretto tantissimi a fuggire dalle loro case e città. La distruzione della memoria cristiana in Iraq, cioè di chiese e monumenti, è una forma di genocidio, anche se le nostre perdite di vite umane non sono paragonabili a quelle inflitte agli yazidi. Ma ora sarebbe importante chiarire quali sono le conseguenze giuridiche della dichiarazione di genocidio, quali diritti possono essere invocati a partire da essa.
Il 2 aprile terremo un incontro a Baghdad con gli altri patriarchi e alcuni laici impegnati in politica per portare avanti la mia proposta. Non sarà facile realizzarla, perché alcuni partiti e uomini politici cristiani sono legati ai partiti maggiori iracheni. Ma io non vedo altra soluzione in questo momento: dobbiamo avere lo stesso programma e avere tutti lo stesso discorso se vogliamo incidere. Se non tutti accetteranno, almeno noi caldei, che siamo la confessione cristiana più numerosa, creeremo una nostra formazione unitaria.Il Congresso degli Stati Uniti prima e poi il Dipartimento di Stato hanno stabilito che le azioni del Daesh sia contro gli yazidi che contro i cristiani rappresentano un genocidio, come già si era espresso anche il Parlamento europeo. Come valuta questo sviluppo? Sono un po’ preoccupato che questa dichiarazione possa essere strumentalizzata per scopi non chiari, cioè per giustificare interventi militari o per chiedere denaro da parte di alcuni. C’è una persecuzione contro i cristiani che ha costretto tantissimi a fuggire dalle loro case e città. La distruzione della memoria cristiana in Iraq, cioè di chiese e monumenti, è una forma di genocidio, anche se le nostre perdite di vite umane non sono paragonabili a quelle inflitte agli yazidi. Ma ora sarebbe importante chiarire quali sono le conseguenze giuridiche della dichiarazione di genocidio, quali diritti possono essere invocati a partire da essa.
In passato lei e altri patriarchi avete chiesto che la comunità internazionale si faccia carico del buon diritto delle minoranze religiose irachene, espulse dalle loro case e territori dal Daesh, se necessario con un’operazione di polizia internazionale. Adesso che il genocidio è qualificato come tale dal Congresso americano e dal Parlamento europeo, lei spera in un intervento militare internazionale? L’Isis sarà sconfitta, io adesso mi pongo già il problema del dopo. Date la cultura e la mentalità che dominano in questa parte del mondo, è facile prevedere un ciclo di vendette. E i cristiani dubitano di poter tornare nelle loro case dopo la loro liberazione, perché è venuto meno il rapporto di fiducia con molti dei loro vicini musulmani, che si sono uniti all’Isis e hanno razziato e occupato le loro proprietà. Dunque non basta sconfiggere militarmente il Daesh, bisogna anche che la comunità internazionale offra garanzie a lungo termine. E ancora più importante, va sconfitta l’ideologia, il modo di pensare da cui è nata l’Isis, che esiste a livello mondiale. Se tutti i musulmani non cambiano mentalità, non accettano il pluralismo di fedi religiose ed etnie, sarà difficile far rispettare i diritti di tutti. Bisogna arrivare alla separazione fra Stato e religione in tutti i paesi, fondare i regimi politici sui diritti di cittadinanza.
Lei ha espresso recentemente la sua contrarietà nei riguardi delle milizie cristiane che si sono costituite in alcune zone del paese. Da dove nasce la sua contrarietà? La storia ci insegna che le milizie cristiane isolate e identificate diventano un bersaglio. Io sono contrario perché voglio proteggere la vita di questi volontari: meglio che siano integrati nell’esercito nazionale o in quello dei peshmerga. Che senso ha fare milizie di 2-300 uomini con poche armi? Adesso sono diventate sei, tre dipendenti dagli sciiti e tre dai curdi! Non hanno certo la forza per liberare le località cristiane e per proteggerle. Inoltre, io sono contrario alla cultura settaria che si insinua in queste iniziative. Dunque sì a difendersi con le armi, ma integrati nelle forze armate ufficiali.
Nel febbraio scorso lei ha rifiutato di partecipare alla Conferenza nazionale sulla protezione della coesistenza pacifica e la lotta contro il terrorismo e l’estremismo organizzata dal Parlamento iracheno. Perché? Perché siamo stanchi delle parole gentili, vogliamo i fatti. Niente è stato fatto per sgomberare le case dei cristiani acquistate con la frode e l’intimidazione da parte delle milizie a Baghdad, e niente è stato fatto per modificare la legge che impone la conversione all’islam dei minorenni figli di genitori di un’altra religione, se anche uno solo dei due si converte all’islam. Il mio gesto ha avuto una certa eco, adesso tutti i politici nei loro discorsi dedicano sempre un passaggio ai diritti dei cristiani, che devono essere protetti. E a Pasqua tutti i partiti ci hanno mandato gli auguri. Ma i fatti ancora mancano.
In Europa è in atto un forte scontro nell’opinione pubblica e fra le forze politiche fra chi vuole accogliere tutti i profughi dall’Oriente che bussano alla porta del nostro continente e chi vuole respingerli. Cosa pensa lei di questa situazione? Anzitutto bisogna riconoscere che noi siamo vittime delle politiche sbagliate dell’Occidente, che hanno cambiato i regimi dittatoriali con altri regimi peggiori di quelli precedenti. In secondo luogo, bisogna che l’Europa filtri beni questa ondata di profughi, perché possono esserci fra loro estremisti e gente che non ha diritto di asilo. Ma soprattutto sarebbe meglio aiutarci tutti a rimanere qui: se si fanno le riforme politiche, se si fa giustizia, le persone non hanno bisogno di fuggire. Noi pastori delle Chiese d’Oriente siamo fermamente convinti che i cristiani hanno una missione qui in Oriente, devono rendere testimonianza qui, devono restare ed essere un segno per tutti gli altri. Anche la Chiesa caldea ora è Chiesa in diaspora, con centinaia di migliaia di fedeli sparsi nel mondo. Ma fra 100 anni la Chiesa della diaspora sarà scomparsa, sarà stata assimilata: già le seconde generazioni non parlano più aramaico ma solo inglese. Se ce ne andiamo da qui, per noi è finita.Quando lei venne a parlare a Milano nel novembre 2014 disse che sarebbe stato bello se i cristiani italiani avessero organizzato una manifestazione pubblica a favore dei cristiani perseguitati in Oriente. In questo anno e mezzo sono state organizzate Messe e alcune piccole preghiere del Rosario in piazza in un paio di città italiane. Nessuna manifestazione pubblica di profilo civile. Si sente deluso oppure no?Sono lieto della solidarietà spirituale, ma ci vuole anche la solidarietà politica. Bisogna fare pressione sui vostri politici perché aiutino seriamente i nostri paesi, rendano giustizia agli innocenti, facciano rispettare i diritti umani non a parole, ma nei fatti. E bisogna rivolgersi anche ai leader dei paesi musulmani. Svolgere un’azione di formazione degli uni e degli altri: anche questo è un compito dei cristiani.
Dopo questi due anni di dure prove, come giudica le virtù delle comunità cristiane: fede, speranza e carità sono cresciute oppure sono diminuite? L’unica forza di questa gente è la sua fede. E persino la speranza non è morta: chiedono sempre “Quando torneremo a casa?”. Io non posso dare loro una risposta, il governo nemmeno: il futuro è nelle mani di Dio. I nostri cristiani hanno tanta pazienza anche perché guardano gli altri profughi, che sono in condizioni peggiori di loro: 4 milioni di musulmani e decine di migliaia di yazidi sono sfollati interni, vivono sotto le tende e le loro località sono state completamente distrutte. Verso questi fratelli nell’umanità abbiamo esercitato, per quello che potevamo, la carità: io ho visitato per sei volte i profughi musulmani di Ramadi, e ho portato loro aiuti, come hanno fatto altri vescovi in altre regioni del paese. Un loro imam mi ha detto: «Noi lo sappiamo che di voi non dobbiamo avere paura, perché il vostro è un Dio di amore». È giusto che noi pensiamo anche agli altri, perché Cristo non è venuto solamente per i cristiani.