«A Baghdad vivevano 750 mila cristiani, adesso si sono ridotti a 200 mila. A Bassora di famiglie ne sono rimaste appena 500. I cristiani in Iraq sono perseguitati. Perseguitati da chi ci uccide, da chi distrugge le nostre chiese, da chi ci ha rubato tutto, da chi non mette freno alla corruzione, da chi non riconosce i nostri diritti. Per questo chiediamo alla Chiesa universale di sostenere la nostra presenza in Iraq, la presenza secolare della nostra Chiesa, che è Chiesa dei martiri».
È l’appello lanciato da monsignor Louis Raphael I Sako, dal 2013 Patriarca di Babilonia dei Caldei, la comunità cristiana più numerosa dell’Iraq, in questa intervista esclusiva rilasciata al «nostro tempo» in occasione del convegno internazionale «Cristiani d’Oriente, dopo duemila anni una storia finita?» che si terrà a Torino, martedì 26 aprile, alle 17.30, nel Salone del Sermig (piazza Borgo Dora 61), per ricordare il 70mo anniversario della fondazione del giornale, voluto da mons. Carlo Chiavazza. Un appello seguito da una proposta molto concreta rivolta da mons. Sako alle diverse Conferenze episcopali d'Europa. «Venite a visitare il nostro Paese, i fedeli di tutto l’Iraq si sentirebbero meno soli e pieni di rinnovato coraggio e speranza».
Monsignor Sako, dalla cacciata dei cristiani da Mosul e dalla Piana di Ninive nell’estate del 2014 l’attenzione dei media si è concentrata su quei profughi che ancora vivono nel Kurdistan iracheno, eppure la comunità è presente anche a Baghdad e a Bassora. Ce ne vuole parlare?
Purtroppo i cristiani iracheni sono sempre di meno a causa del fenomeno della fuga verso l’estero, conseguenza della violenza di cui sono stati vittime. A Baghdad ne vivevano 750 mila che ora si sono ridotti a 200 mila, mentre a Bassora ci sono appena 500 famiglie. In queste due città attualmente non ci sono attacchi contro i cristiani, ma la mancanza di leggi favorisce le azioni di bande criminali che, grazie alla diffusa corruzione e falsificando i documenti, si stanno impadronendo dei negozi e delle case che in passato i cristiani sono stati costretti ad abbandonare. A tutto ciò si unisce il sempre più diffuso radicalismo islamico che, e questo capita anche nel Nord, sta diventando una cultura imperante.
Monsignor Sako, dalla cacciata dei cristiani da Mosul e dalla Piana di Ninive nell’estate del 2014 l’attenzione dei media si è concentrata su quei profughi che ancora vivono nel Kurdistan iracheno, eppure la comunità è presente anche a Baghdad e a Bassora. Ce ne vuole parlare?
Purtroppo i cristiani iracheni sono sempre di meno a causa del fenomeno della fuga verso l’estero, conseguenza della violenza di cui sono stati vittime. A Baghdad ne vivevano 750 mila che ora si sono ridotti a 200 mila, mentre a Bassora ci sono appena 500 famiglie. In queste due città attualmente non ci sono attacchi contro i cristiani, ma la mancanza di leggi favorisce le azioni di bande criminali che, grazie alla diffusa corruzione e falsificando i documenti, si stanno impadronendo dei negozi e delle case che in passato i cristiani sono stati costretti ad abbandonare. A tutto ciò si unisce il sempre più diffuso radicalismo islamico che, e questo capita anche nel Nord, sta diventando una cultura imperante.
Cosa intende per “cultura imperante”?
Significa che anche quando il Daesh (lo Stato islamico) sarà confitto, l’ideologia che lo guida rimarrà e continuerà a infettare il Paese. È proprio questa ideologia che bisogna combattere: devono farlo le autorità religiose islamiche, che devono preferire la diffusione di quei versetti del Corano che invitano alla tolleranza ed evitare di dare spazio a chi, tra essi, diffonde l’odio; e deve farlo il governo iracheno, che dovrebbe avere a cuore tutti i suoi cittadini.
Nella realtà, invece, che cosa succede?
La realtà è che nessuno fa nulla. Così, ad esempio, non sono stati banditi quei testi scolastici in cui si parla male dei giudei e dei cristiani; e nessuno ha punito chi, qualche settimana fa, ha messo in vendita delle scarpe sulla cui suola era incisa la Croce. Un'azione veramente offensiva nel mondo arabo, dove la suola della scarpa è considerata impura. Se a ciò aggiungiamo la difficoltà che i cristiani hanno in tutto il Paese di trovare lavoro rispetto ai musulmani, è chiaro che la situazione è davvero difficile.
Cosa può fare la Chiesa universale per aiutare i nostri fratelli cristiani?
Per prima cosa deve capire che sostenere la presenza cristiana in Iraq vuol dire sostenere la presenza stessa di Gesù, che nella nostra comunità è più che mai viva, e prova ne è che i cristiani iracheni non si sono convertiti, neanche quando sarebbe stato facile e conveniente. Molte volte a costo della loro stessa vita, perpetuando la tradizione secolare della nostra Chiesa, che è Chiesa dei martiri. Sostenere la comunità vuol dire aiutare i fedeli a rimanere nella propria terra, ma anche aiutare la Chiesa a funzionare meglio.
Cosa è necessario fare?
Per esempio, è indispensabile sanare e porre un freno al fenomeno dei sacerdoti che fuggono verso l’estero: come può un fedele essere invitato a resistere alle avversità, quando i sacerdoti fuggono? A Baghdad ci sono 32 parrocchie e 21 tra vescovi e sacerdoti, in Seminario solo 17 seminaristi. Chi è fuggito deve essere obbligato a tornare, la Congregazione per le Chiese orientali deve appoggiare di più e far rispettare le decisioni del Sinodo locale. Solo così la Chiesa in Iraq sarà più unita e più forte. E più forte sarà, più potrà aiutare i fedeli, non solo dal punto di vista materiale ma anche, e soprattutto, da quello spirituale. Il sacerdote, il vescovo, il patriarca, tutti dobbiamo essere modelli forti e giusti, in grado di dare fiducia e speranza a chi ha paura del futuro. Come comunità di esseri umani abbiamo bisogno di aiuto per sostenere chi non ha più nulla: lavoro, casa, soldi; come comunità cristiana abbiamo bisogno, però, anche della vicinanza spirituale. La società irachena musulmana, sciita, sunnita o curda che sia, è una società tribale; ma non è così per i cristiani, che in più sono disarmati e indifesi. Quando le delegazioni straniere vengono a farci visita, a vedere di persona la situazione in cui viviamo, ecco, quelli sono i momenti in cui la comunità riprende coraggio, non si sente sola e non è neanche percepita come tale.
Nel 2010 ci fu il Sinodo straordinario per il Medio Oriente e la proposta di indirlo, a Benedetto XVI, fu proprio sua. Il Sinodo, però, dal punto di vista pratico si risolse in poco o nulla. Adesso, e specialmente nell’ultimo periodo, le visite di vescovi o cardinali delle diverse Conferenze episcopali si sono moltiplicate: crede che rendere queste visite meno sporadiche e organizzate (non un singolo vescovo o cardinale, ma una delegazione) possa aiutare la causa dei cristiani d’Oriente, nel senso di diffondere la conoscenza della drammatica situazione in cui vivono?
Nel 2010 ci fu il Sinodo straordinario per il Medio Oriente e la proposta di indirlo, a Benedetto XVI, fu proprio sua. Il Sinodo, però, dal punto di vista pratico si risolse in poco o nulla. Adesso, e specialmente nell’ultimo periodo, le visite di vescovi o cardinali delle diverse Conferenze episcopali si sono moltiplicate: crede che rendere queste visite meno sporadiche e organizzate (non un singolo vescovo o cardinale, ma una delegazione) possa aiutare la causa dei cristiani d’Oriente, nel senso di diffondere la conoscenza della drammatica situazione in cui vivono?
Potrebbe essere un’idea, sì. Potrebbero venire in Iraq delegazioni di dieci o venti membri delle diverse Conferenze episcopali: nel Nord a visitare i profughi, certo, ma anche a Baghdad e a Bassora. Si potrebbero organizzare incontri con i rappresentanti del governo e con i capi religiosi islamici. Si potrebbe tenere una grande celebrazione religiosa. Non c’è da avere paura a venire a Baghdad o ad andare a Bassora, e in ogni caso stiamo parlando di vescovi, religiosi pronti a dare la vita per la fede, così come facciamo noi che viviamo qui. Non dimentichiamo che nella sola Baghdad vivono ben sette vescovi cattolici. I fedeli di tutto l’Iraq si sentirebbero meno soli e pieni di rinnovato coraggio e speranza.
I cristiani iracheni vogliono tornare nelle case, nei villaggi e nelle città da cui sono stati scacciati oppure sognano soltanto di fuggire all’estero?
Certo, qualcuno che vorrebbe fuggire c’è. Ma, ad esempio, durante gli incontri che il cardinale austriaco Cristoph Schönborn ha avuto con i profughi di Mosul e della Piana di Ninive a Pasqua, tutti gli hanno espresso il desiderio di tornare alle proprie case. La piana di Ninive sarà liberata prima o poi. Liberare la città di Mosul sarà invece più difficile: non solo ha 2 milioni di abitanti, ma è uniformemente sunnita. Una parte della popolazione sostiene il Daesh; l’altra parte, anche se non lo sostiene, non accetterà di essere liberata né da truppe a maggioranza sciita, né dai curdi, né da interventi esterni. Ho fiducia, comunque, che i cristiani torneranno almeno nella Piana di Ninive, una volta liberata. Potrebbero iniziare da Telleskof, un villaggio che non ha subito danni, dove prima del 2014 viveva una popolazione interamente cristiana di 14 mila persone, e che è già controllato dai peshmerga curdi. Certo, per ora, il Daesh è ancora troppo vicino, a soli 10 chilometri. Ma quando sarà scacciato da tutta la Piana, a Telleskof seguiranno gli altri villaggi.
Monsignor Sako, è giusto definire i cristiani iracheni dei «cristiani perseguitati»?
Certo, siamo perseguitati. Da chi ci ha ucciso; da chi ci ha rubato e continua a rubare tutto; da chi invita a non comprare le proprietà dei cristiani perché, quando non ci saranno più, quelle proprietà saranno a disposizione gratuitamente di chi le razzierà; da chi non mette freno alla dilagante corruzione; da chi apertamente ci chiama infedeli e non riconosce i nostri diritti di cittadini; da chi ci nega il lavoro perché non apparteniamo a questa o a quella tribù e perché professiamo, senza rinnegarla, la nostra religione; da chi distrugge le nostre chiese e brucia il nostro patrimonio culturale e di fede (ad esempio, i manoscritti antichissimi). Se tutto ciò vuol dire essere perseguitati, è chiaro che noi lo siamo.
Monsignor Sako, è giusto definire i cristiani iracheni dei «cristiani perseguitati»?
Certo, siamo perseguitati. Da chi ci ha ucciso; da chi ci ha rubato e continua a rubare tutto; da chi invita a non comprare le proprietà dei cristiani perché, quando non ci saranno più, quelle proprietà saranno a disposizione gratuitamente di chi le razzierà; da chi non mette freno alla dilagante corruzione; da chi apertamente ci chiama infedeli e non riconosce i nostri diritti di cittadini; da chi ci nega il lavoro perché non apparteniamo a questa o a quella tribù e perché professiamo, senza rinnegarla, la nostra religione; da chi distrugge le nostre chiese e brucia il nostro patrimonio culturale e di fede (ad esempio, i manoscritti antichissimi). Se tutto ciò vuol dire essere perseguitati, è chiaro che noi lo siamo.