By Tempi
Rodolfo Casadei
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L’altro giorno in metropolitana ho visto un manifesto della campagna
dell’Unicef per i bambini profughi e migranti iniziata in novembre sotto
il titolo “Indigniamoci!”. Propone una petizione al governo italiano.
Per Natale il titolo dell’appello è diventato: “Il 25 dicembre è un buon
giorno per indignarsi”. Messi da parte biglietti d’auguri e pigotte,
l’Unicef ha scelto un approccio militante e accigliato al Natale, un po’
come fanno i Radicali con le loro periodiche marce per l’amnistia e la
giustizia la mattina del 25 dicembre (ma quest’anno niente).
Siamo decisamente lontani dallo spirito natalizio, e non mi riferisco
alla retorica dei buoni sentimenti: quella va benissimo toglierla di
mezzo. Ma dimenticare che Natale è tempo dell’attesa di un bene che
arriva da fuori di noi, che non è opera delle nostre mani, e che si
scopre essere la nostra salvezza: ecco, questo è il senso del Natale che
l’attivismo etico ed umanitario dell’Unicef ignora. Il fatto è, però,
che anche il mio Natale coincide, in buona parte, con sentimenti di
indignazione. Oltre che di tristezza e di nostalgia. La nostalgia si
sposa bene con lo spirito natalizio (memoria di un bene passato e attesa
di un bene che sta per prendere forma vanno d’accordo), ma indignazione
e tristezza no. Allora perché mi sento tanto Unicef?
Un anno fa di questi tempi mi trovavo a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, per condividere il Natale degli sfollati cristiani e yazidi scacciati dalle loro case nella piana di Ninive dall’Isis nel corso di quella estate. Questo spiega bene la nostalgia: è intuitivo. Ho fatto una delle esperienze più commoventi della vita: essere accolto e ricevere benefici da persone materialmente più povere di me. Ho fruito della gratuità dei poveri. Sono stato ospite la notte di Natale in uno spartano monolocale prefabbricato identico a quelli che venivano riservati ai terremotati italiani degli anni Ottanta. Ho dormito spalla a spalla coi maschi della famiglia di Talal, un artigiano cristiano di Mosul fuggito nel mese di luglio con la moglie e i cinque figli quando la vita si è fatta troppo grama per loro. Trasformato il pavimento in un dormitorio collettivo di materassi incellofanati, io ero l’unico al quale era consentito pernottare in un letto sollevato da terra.
Un anno fa di questi tempi mi trovavo a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, per condividere il Natale degli sfollati cristiani e yazidi scacciati dalle loro case nella piana di Ninive dall’Isis nel corso di quella estate. Questo spiega bene la nostalgia: è intuitivo. Ho fatto una delle esperienze più commoventi della vita: essere accolto e ricevere benefici da persone materialmente più povere di me. Ho fruito della gratuità dei poveri. Sono stato ospite la notte di Natale in uno spartano monolocale prefabbricato identico a quelli che venivano riservati ai terremotati italiani degli anni Ottanta. Ho dormito spalla a spalla coi maschi della famiglia di Talal, un artigiano cristiano di Mosul fuggito nel mese di luglio con la moglie e i cinque figli quando la vita si è fatta troppo grama per loro. Trasformato il pavimento in un dormitorio collettivo di materassi incellofanati, io ero l’unico al quale era consentito pernottare in un letto sollevato da terra.
Notte fresca ma non gelida: le spesse coperte fecero il loro lavoro.
La mattina dopo Eileen, la sposa di Talal, ci ha onorati di una delizia
di colazione a base di tè, marmellate e formaggi, apparsi come per
incanto sull’unico tavolo pieghevole a disposizione. Le capriole di
Milad, il piccolo riccioluto della famiglia, la tredicenne Aideen che
silenziosa pettinava ininterrottamente i lunghissimi capelli. Gli amici
che si affacciavano sulla soglia a fare gli auguri. Fuori un cielo
grigio ma senza pioggia, le donne che lanciavano secchiate d’acqua e
sapone sulla gettata di cemento che reggeva le baracche e teneva lontano
il fango ma non la polvere. Il tanfo delle latrine collettive,
pulitissime ma spurgate troppo di rado. Talal che passava un braccio
attorno alle spalle di Samir, un ragazzone obeso e triste, i piedi nudi
infilati dentro a sandali incongrui per la stagione, e lo consolava
sottovoce.
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Era Natale e lui non aveva ricevuto nemmeno un regalo, per questo si
copriva il volto – che immaginavo rigato di lacrime – con la mano
sinistra. Cosa gli diceva Talal per rincuorarlo? Forse che sarebbero
venuti giorni migliori; senz’altro che il suo destino era identico a
quello di tutti i bambini e ragazzi del campo. Io non ho visto neanche
un giocattolo passare di mano quel mattino di Natale, i bambini ridevano
facendosi trasportare di qua e di là su carrettini di legno dagli
adulti, ma le loro mani erano tutte identicamente vuote come quelle
grassocce di Samir. Solo qualche banconota da pochi dinari appariva
quando tornavano alla loro baracca dopo aver visitato quella di uno
zio. Il pranzo fu suntuoso nella sua semplicità: riso bollito, fagioli
in salsa di pomodoro, uova sode e patate lesse, cetrioli bolliti in
salsa rossa, verdure e pane arabo. E quella frase con cui Talal rispose
alla mia domanda su dove sperava di celebrare il Natale del 2015, una di
quelle che restano incise per sempre nell’anima: «Non lo so. So solo
una cosa: io e la mia famiglia siamo nel cuore di Dio».
Cos’è allora che mi indigna, cos’è che rattrista il mio Natale? Il
pensiero che un anno dopo Talal e la sua famiglia sono ancora lì, allo
Sport Center di Erbil trasformato in campo profughi. E che quando infine
giungerà la notizia che non vivono più nella baracca cinque metri per
tre, sarà probabilmente perché sono emigrati all’estero come molti loro
parenti. In America o in Australia, da dove non torneranno più. Come
decine di migliaia di altri cristiani che, in un flusso non impetuoso ma
costante e apparentemente inarrestabile, stanno abbandonando l’Iraq
perché non sperano più di tornare padroni delle case che sono stati
costretti a lasciare e di viverci con dignità e in condizioni di
sicurezza. I loro vescovi e patriarchi hanno invocato, fin dall’agosto
2014, un intervento di polizia internazionale sotto egida Onu per far
rispettare il loro buon diritto alla proprietà e alla sicurezza, che lo
Stato iracheno si è dimostrato incapace di assicurare. Invano.
Nessuno li ha ascoltati e le Chiese occidentali non si sono fatte
megafono del loro appello. Queste ultime hanno raccolto e inviato aiuti
umanitari, promosso programmi di cooperazione, organizzato
occasionalmente giornate di preghiera, ma sul fronte politico non hanno
mosso un dito. Niente manifestazioni pubbliche a sostegno dei diritti
umani dei cristiani iracheni e siriani, nessun incoraggiamento all’uso
legittimo della forza su rigorose basi di diritto internazionale in
Iraq, nessuna battaglia per l’abrogazione almeno parziale delle sanzioni
imposte alla Siria dai paesi occidentali. Il risultato di questo
approccio è che per un po’ i cristiani resistono, vivono ammucchiati in
bilocali affittati a peso d’oro nelle città del Kurdistan o a Baghdad
coi soldi degli aiuti delle Chiese, consumano cibo e medicine della
stessa origine nei prefabbricati dei campi profughi e dentro ai
supermercati in costruzione. Poi imboccano la strada senza ritorno
dell’emigrazione. E la stessa cosa fanno i cristiani siriani, vittime di
rapimenti e sequestri di massa e di bombardamenti mirati delle loro
chiese, motivati da odio confessionale.
Mi rattrista e mi indigna, da parte delle nostre comunità cristiane,
la rimozione di tutta questa sofferenza, l’ignoranza delle conseguenze
umane e religiose della disgregazione e della diaspora delle comunità
caldee, siriache, melkite, ecc., l’insensibilità e l’indifferenza verso
il persistere di una grande ingiustizia alla quale nessuno pone rimedio.
Sì, la Chiesa italiana nelle sue articolazioni – parrocchie,
associazioni, movimenti – sta aiutando generosamente i fratelli nella
fede sofferenti del Vicino Oriente e gli altri esseri umani vittime
della violenza della guerra e del terrorismo. Ma a quando una
riflessione e una presa di coscienza relativamente alle cause di quello
che è accaduto e che continua ad accadere? A quando iniziative pubbliche
di pressione e sollecitazione del potere politico, nazionale e
internazionale? E che fine ha fatto la rivolta morale che al tempo
dell’occupazione anglo-americana dell’Iraq aveva rivestito i seminari
diocesani e gli edifici parrocchiali di bandiere coi colori della pace?
Mi rattrista e mi indigna la facilità con cui le nostre comunità
rimuovono il senso di colpa per le condizioni in cui si trovano a vivere
i nostri fratelli nella fede e depotenziano la compassione.
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Ci commuoviamo di fronte ai filmati delle bambine cristiane irachene
che perdonano gli aguzzini dell’Isis, o per i collegamenti in skype coi
sacerdoti che resistono sotto i bombardamenti in Siria, ma senza provare
dolore per i loro patimenti e per le innumerevoli tentazioni alle quali
il disagio materiale e psicologico espongono le persone, senza che
dentro ribolla la ribellione per l’ingiustizia che si squaderna sotto i
nostri occhi. La testimonianza dei cristiani perseguitati (perdono dei
nemici, solidarietà verso i bisognosi, sopportazione delle avversità,
accettazione della volontà di Dio) ci rassicura e ci consola, il fatto
di lodarla e propagandarla e di raccogliere per loro un po’ di aiuti ci
fa sentire a posto e ci fa sentire buoni. Scusate se vi disturbo, ma
vorrei farvi presente che la notte di Natale di un anno fa in un campo
profughi cristiano di Ankawa (Erbil) certamente io sono stato accolto
meglio di quanto sia stato accolto Gesù bambino a Betlemme; però quella
notte sentivo anche i canti sguaiati degli ubriachi, giovanotti
cristiani disperati che quella sera erano andati in città a bere grappa
per attutire la disperazione; mi faceva compagnia un giovane professore
di inglese che fumava compulsivamente e diceva: «Questo paese ti porta
via tutto, prima le proprietà e poi la dignità, da qui voglio
andarmene»; e due giorni dopo a Baqofa, sulla linea del fronte con
l’Isis, ho videoripreso giovani e padri di famiglia cristiani armati
fino ai denti auto-organizzati in una milizia chiamata Dwekh Nawsha, che
avevano trascorso il Natale di pattuglia in un lembo della pianura
anziché a casa con le famiglie. Perché quando lo Stato di diritto muore e
le istituzioni si disgregano, hai soltanto tre possibilità: o ti
sottometti all’aggressore, o emigri, o ti organizzi per difenderti da
solo. Con tutte le conseguenze sociali, morali e psicologiche del caso.
Ma cosa pretendi, mi direte, noi non siamo nelle condizioni di andare
a combattere l’Isis armi alla mano, giusto o sbagliato che sia, o di
esercitare una pressione efficace e decisiva sulle scelte di politica
estera nazionale e su quelle delle grandi potenze. Lo so, lo capisco.
Capisco persino che il governo italiano che non ha mandato i nostri
soldati a riconquistare la piana di Ninive rubata ai cristiani e agli
yazidi dai razziatori jihadisti, adesso li mandi nella stessissima zona a
morire per proteggere la diga i cui lavori sono stati appaltati a una
ditta italiana (ma a voi nemmeno questo vi scandalizza?). Quel che
chiedo, è semplicemente di non ridurre il dramma dei cristiani
perseguitati a una narrazione rassicurante. Di non soffocare
completamente il senso di colpa che io proverò più del solito durante la
settimana di Natale, e che vorrei condividere con altri. Faccio a tutti
gli auguri, ma li faccio con le parole del sacerdote di Desio:
«Io auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli, mai più tranquilli»
(don Luigi Giussani, Rimini 1985).