Andrea Nicastro
10 gennaio 2021
Nel marzo 2021 Papa Francesco vorrebbe andare in Iraq. L’intesa politica c’è e sarebbe la prima volta per un pontefice. Alla vigilia dell’invasione americana, ci aveva provato Giovanni Paolo II.
«Fu mio padre, Tarek Aziz, ministro degli Esteri di Saddam Hussein, ad invitare Sua Santità. Era stato in Vaticano nel 2000 e tutto sarebbe andato liscio se non fossero arrivate pressioni dall’estero per convincere Giovanni Paolo ad annullare il progetto. Evidentemente, già tre anni prima della guerra, stavano preparando l’attacco a Bagdad».
Oggi Ziad Tarek Aziz è un tranquillo ingegnere civile di 53 anni, lontano dalla politica e ormai in esilio dal “suo” Iraq.
Vive in Giordania e lavora negli Emirati, ma la vicenda del padre l’ha segnato. Tarek Aziz, cristiano, era il volto presentabile della dittatura. Morì in carcere anni dopo essersi consegnato agli americani. Il figlio Ziad passò mesi di latitanza con lui. «Mio padre si era convinto che l’invasione fosse stata decisa non per abbattere il regime o portare la democrazia, come dicevano, ma per distruggere l’Iraq. Eravamo troppo ricchi di acqua, cervelli e petrolio per non dare fastidio» dice ora il figlio. «Di cristiani non ce ne sono quasi più»
«Spero che papa Francesco vada finalmente in Iraq, ma si accorgerà che di cristiani non ce ne sono quasi più. Non so se l’intenzione fosse quella di distruggere il Paese, ma di sicuro ci sono riusciti».
In tema di Iraq, le riviste geopolitiche dibattono su due questioni. La prima è praticamente risolta, la seconda no. Quasi tutti ormai giudicano un errore l’invasione Usa del 2003: non ha portato democrazia, ma solo violenza e fanatismo religioso. Più incertezza, invece, sulla definizione di Iraq come Stato fallito. Quando i governi di Bagdad non tengono a freno le milizie, quando la guerra civile tra sunniti e sciiti miete decine di vittime al giorno, quando i fanatici dello Stato islamico conquistano Mosul, la capitale del Nord, senza incontrare resistenza da parte dell’esercito, allora l’idea che l’Iraq sia svaporato diventa forte. Negli anni, invece, in cui il prezzo del petrolio risale e finanzia un poco di ricostruzione, le volte in cui si aprono le urne elettorali o le SWAT irachene battono l’Isis, allora, prevale l’idea che l’Iraq resti ancora in piedi coraggioso ed eroico proprio come il film Mosul finanziato da Abu Dhabi e americani per Netflix.
Tammuin addio
A tre mesi della vista papale la lancetta dell’ottimismo continua ad oscillare. Prima di Natale sul centro di Bagdad sono caduti diversi missili. Le statistiche dicono che ogni giorno almeno un terrorista dell’Isis è arrestato o ucciso, eppure gli attentati non si fermano. La situazione economica è disastrosa. Il crollo dei prezzi petroliferi ha azzoppato le entrate, il dinaro è maturo per una svalutazione del 50%. Gli stipendi pubblici arrivano con mesi di ritardo. Per la prima volta Bagdad progetta di far pagare le tasse invece di distribuire dividendi petroliferi. È scomparsa anche la “tammuin”, la scatola di cibo che permetteva a tutti di mangiare gratis. La popolazione sfiora i 40 milioni, più del doppio degli Anni ‘80, ma le infrastrutture da allora sono solo peggiorate. Nel 2019 manifestazioni in stile “primavera araba” hanno accusato i partiti perché corrotti, legati agli interessi iraniani e incapaci di portare luce elettrica, lavoro, ospedali. Chi restava a casa, chi contestava i contestatori, li accusa di essere manovrati dagli Stati Uniti per limitare l’influenza di Teheran. «Papa Francesco, però, vuole esserci», assicura via Zoom da Bagdad il cardinale Louis Raphaël I Sako.
«Il momento è propizio: gli attentati nelle città sono diminuiti e anche la situazione politica, con le elezioni fissate per giugno, è stabile a sufficienza ».
Il Paese giovane
Da Ramadi, al nord di Bagdad, cuore dell’Iraq sunnita, risponde lo sceicco Jaber Al-Jabri. «Anch’io ho una piccola parte di merito per il viaggio papale. Ci ho lavorato come parlamentare assieme alla Comunità di Sant’Egidio sin dal 2016. Il Papa troverà un Paese di giovani. Il 60% ha meno di 30 anni e non ricorda neppure Saddam. Vivono di Internet e social network come nel resto del mondo. Se solo il prezzo del petrolio risalisse, avremmo la chance per ripartire».
È cattolico, invece, Rahed Sami che risponde appena fuori dalla chiesa di Sayidat al-Nejat, Nostra Signora della Salvezza, nel quartiere di Karrade, al centro della capitale. «Dieci anni fa i terroristi di Al Qaeda uccisero quasi 60 fedeli in questa chiesa. Se il Papa facesse un giro nel quartiere capirebbe cos’è successo a questo Paese».
All’epoca di quell’attentato, l’Iraq pareva sul punto di dividersi in tre parti: l’oriente curdo, il nord sunnita e il sud sciita. Musulmani contro musulmani e musulmani contro tutti gli altri: cristiani, yazidi, curdi, turcomanni.
«L’Iran ha finanziato gli sciiti» sostiene Ziad Tarek Aziz
«l’Arabia Saudita i sunniti, gli Usa i curdi e nessuno i cristiani. Per questo siamo scappati in Australia, Germania, Gran Bretagna, Giordania, Stati Uniti, Canada».
Più religiosi che fedeli
La comunità cristiana è al lumicino. Erano 1,5 milioni ai tempi di Saddam, ora ne sono rimasti forse 500 mila.
«Mi sembra che ci siano più religiosi che fedeli» sorride amara sorella Yole, una suora siriana arrivata per rinforzare l’offerta di asili cattolici.
Per il cardinale Sako è un cruccio quotidiano: «Con l’arrivo degli americani si è sviluppato il settarismo: sciita, sunnita, arabo, cristiano, curdo, di questa o quella tribù. Con Saddam, l’Iraq era un Paese quasi laico, adesso la religione è diventata un ombrello per corruzione e violenza. Bisogna tornare al patriottismo. Le diverse “appartenenze” devono sciogliersi nel concetto di cittadinanza ».
I marciapiedi di Karrade * sono pieni di ambulanti. Vendono magliette, cavi per cellulari, popcorn, caramelle. Fuori dai ristoranti i lustrascarpe chiedono due dollari al paio. Alì Wahed Mohamed tiene un banco di frutta che era del nonno. È sciita, ma punta il dito contro Teheran.
«I partiti filoiraniani manovrano sui dazi e danno il via libera ai prodotti iraniani, più economici e industrializzati. I nostri contadini, abituati alle sovvenzioni di Saddam, sono finiti fuori mercato e i giovani disoccupati».
Il traffico asfittico è l’ideale per gli attentati. In via Karrade Dakhel *, moltissimi giornalisti e politici sono stati colpiti. «L’ultimo due anni fa» racconta sempre al telefono Said Alì, cameriere al Caffè Abu Halub. «Solo Allah mi ha risparmiato. Eppure i clienti hanno continuato a venire, inshallah, la vita non si è fermata». Chinare la testa Al Ponte del 14 luglio finisce Karradi. Al di là è Green Zone. Era il quartiere delle ambasciate e del potere di Saddam, è diventato un fortino per gli occupanti stranieri e poi per lo stesso governo iracheno. Le carceri delle torture del dittatore non hanno mai chiuso neppure in piena “democrazia” filoamericana.
«Gli Usa» spiega il cardinale «hanno cacciato una classe dirigente senza formarne un’altra. L’Iraq vive da 17 anni nell’anarchia con la gente che, per paura della violenza, torna alle certezze primarie della famiglia, della tribù, nella comunità religiosa. Ne è emerso un Paese dove lo Stato è fragile e a dettar legge sono le milizie. Persino i deputati cristiani devono affiliarsi a qualche partito sciita o sunnita per farsi proteggere da chi è armato. Filoiraniani, filoturchi, filosauditi sono infiltrati nell’amministrazione pubblica. Questo ministero appartiene a uno e quello all’altro. Per qualunque diritto devi chinare la testa e pagare».
Le «tasse» imposte dalle milizie
Le milizie chiedono tangenti per ogni appalto, ogni documento. È una tassazione segreta che non solo paralizza i progetti e costa miliardi, ma dà sempre più forza ai paramilitari. «L’Iraq è troppo debole per difendersi» dice Al Jabri, il capo tribù di Ramadi. Da anni, gli americani minacciano di lasciare il Paese, il Parlamento iracheno ha votato una mozione per espellerli, ma i marines sono sempre lì. Non se ne vanno perché stanno combattendo l’Iran sul suolo iracheno. I droni Usa hanno ucciso nel gennaio 2020 il generale iraniano Soleimani proprio all’aeroporto di Bagdad, i miliziani sciiti hanno risposto martellando da allora tutti i giorni le basi Usa. Piccoli attacchi, ma continui, sufficienti a spaventare i potenziali investitori stranieri. Una guerra sotterranea, meno appariscente degli attentati dell’Isis, ma capace di dissanguare l’Iraq con la disoccupazione e l’emigrazione.
Il Papa lo sa e, secondo il cardinale, «pregherà per il dialogo tra le religioni, per la pace e il rispetto da parte di tutti, in Siria, Iran, Iraq, Usa. Siamo fratelli non dobbiamo combatterci».
«Fu mio padre, Tarek Aziz, ministro degli Esteri di Saddam Hussein, ad invitare Sua Santità. Era stato in Vaticano nel 2000 e tutto sarebbe andato liscio se non fossero arrivate pressioni dall’estero per convincere Giovanni Paolo ad annullare il progetto. Evidentemente, già tre anni prima della guerra, stavano preparando l’attacco a Bagdad».
Oggi Ziad Tarek Aziz è un tranquillo ingegnere civile di 53 anni, lontano dalla politica e ormai in esilio dal “suo” Iraq.
Vive in Giordania e lavora negli Emirati, ma la vicenda del padre l’ha segnato. Tarek Aziz, cristiano, era il volto presentabile della dittatura. Morì in carcere anni dopo essersi consegnato agli americani. Il figlio Ziad passò mesi di latitanza con lui. «Mio padre si era convinto che l’invasione fosse stata decisa non per abbattere il regime o portare la democrazia, come dicevano, ma per distruggere l’Iraq. Eravamo troppo ricchi di acqua, cervelli e petrolio per non dare fastidio» dice ora il figlio. «Di cristiani non ce ne sono quasi più»
«Spero che papa Francesco vada finalmente in Iraq, ma si accorgerà che di cristiani non ce ne sono quasi più. Non so se l’intenzione fosse quella di distruggere il Paese, ma di sicuro ci sono riusciti».
In tema di Iraq, le riviste geopolitiche dibattono su due questioni. La prima è praticamente risolta, la seconda no. Quasi tutti ormai giudicano un errore l’invasione Usa del 2003: non ha portato democrazia, ma solo violenza e fanatismo religioso. Più incertezza, invece, sulla definizione di Iraq come Stato fallito. Quando i governi di Bagdad non tengono a freno le milizie, quando la guerra civile tra sunniti e sciiti miete decine di vittime al giorno, quando i fanatici dello Stato islamico conquistano Mosul, la capitale del Nord, senza incontrare resistenza da parte dell’esercito, allora l’idea che l’Iraq sia svaporato diventa forte. Negli anni, invece, in cui il prezzo del petrolio risale e finanzia un poco di ricostruzione, le volte in cui si aprono le urne elettorali o le SWAT irachene battono l’Isis, allora, prevale l’idea che l’Iraq resti ancora in piedi coraggioso ed eroico proprio come il film Mosul finanziato da Abu Dhabi e americani per Netflix.
Tammuin addio
A tre mesi della vista papale la lancetta dell’ottimismo continua ad oscillare. Prima di Natale sul centro di Bagdad sono caduti diversi missili. Le statistiche dicono che ogni giorno almeno un terrorista dell’Isis è arrestato o ucciso, eppure gli attentati non si fermano. La situazione economica è disastrosa. Il crollo dei prezzi petroliferi ha azzoppato le entrate, il dinaro è maturo per una svalutazione del 50%. Gli stipendi pubblici arrivano con mesi di ritardo. Per la prima volta Bagdad progetta di far pagare le tasse invece di distribuire dividendi petroliferi. È scomparsa anche la “tammuin”, la scatola di cibo che permetteva a tutti di mangiare gratis. La popolazione sfiora i 40 milioni, più del doppio degli Anni ‘80, ma le infrastrutture da allora sono solo peggiorate. Nel 2019 manifestazioni in stile “primavera araba” hanno accusato i partiti perché corrotti, legati agli interessi iraniani e incapaci di portare luce elettrica, lavoro, ospedali. Chi restava a casa, chi contestava i contestatori, li accusa di essere manovrati dagli Stati Uniti per limitare l’influenza di Teheran. «Papa Francesco, però, vuole esserci», assicura via Zoom da Bagdad il cardinale Louis Raphaël I Sako.
«Il momento è propizio: gli attentati nelle città sono diminuiti e anche la situazione politica, con le elezioni fissate per giugno, è stabile a sufficienza ».
Il Paese giovane
Da Ramadi, al nord di Bagdad, cuore dell’Iraq sunnita, risponde lo sceicco Jaber Al-Jabri. «Anch’io ho una piccola parte di merito per il viaggio papale. Ci ho lavorato come parlamentare assieme alla Comunità di Sant’Egidio sin dal 2016. Il Papa troverà un Paese di giovani. Il 60% ha meno di 30 anni e non ricorda neppure Saddam. Vivono di Internet e social network come nel resto del mondo. Se solo il prezzo del petrolio risalisse, avremmo la chance per ripartire».
È cattolico, invece, Rahed Sami che risponde appena fuori dalla chiesa di Sayidat al-Nejat, Nostra Signora della Salvezza, nel quartiere di Karrade, al centro della capitale. «Dieci anni fa i terroristi di Al Qaeda uccisero quasi 60 fedeli in questa chiesa. Se il Papa facesse un giro nel quartiere capirebbe cos’è successo a questo Paese».
All’epoca di quell’attentato, l’Iraq pareva sul punto di dividersi in tre parti: l’oriente curdo, il nord sunnita e il sud sciita. Musulmani contro musulmani e musulmani contro tutti gli altri: cristiani, yazidi, curdi, turcomanni.
«L’Iran ha finanziato gli sciiti» sostiene Ziad Tarek Aziz
«l’Arabia Saudita i sunniti, gli Usa i curdi e nessuno i cristiani. Per questo siamo scappati in Australia, Germania, Gran Bretagna, Giordania, Stati Uniti, Canada».
Più religiosi che fedeli
La comunità cristiana è al lumicino. Erano 1,5 milioni ai tempi di Saddam, ora ne sono rimasti forse 500 mila.
«Mi sembra che ci siano più religiosi che fedeli» sorride amara sorella Yole, una suora siriana arrivata per rinforzare l’offerta di asili cattolici.
Per il cardinale Sako è un cruccio quotidiano: «Con l’arrivo degli americani si è sviluppato il settarismo: sciita, sunnita, arabo, cristiano, curdo, di questa o quella tribù. Con Saddam, l’Iraq era un Paese quasi laico, adesso la religione è diventata un ombrello per corruzione e violenza. Bisogna tornare al patriottismo. Le diverse “appartenenze” devono sciogliersi nel concetto di cittadinanza ».
I marciapiedi di Karrade * sono pieni di ambulanti. Vendono magliette, cavi per cellulari, popcorn, caramelle. Fuori dai ristoranti i lustrascarpe chiedono due dollari al paio. Alì Wahed Mohamed tiene un banco di frutta che era del nonno. È sciita, ma punta il dito contro Teheran.
«I partiti filoiraniani manovrano sui dazi e danno il via libera ai prodotti iraniani, più economici e industrializzati. I nostri contadini, abituati alle sovvenzioni di Saddam, sono finiti fuori mercato e i giovani disoccupati».
Il traffico asfittico è l’ideale per gli attentati. In via Karrade Dakhel *, moltissimi giornalisti e politici sono stati colpiti. «L’ultimo due anni fa» racconta sempre al telefono Said Alì, cameriere al Caffè Abu Halub. «Solo Allah mi ha risparmiato. Eppure i clienti hanno continuato a venire, inshallah, la vita non si è fermata». Chinare la testa Al Ponte del 14 luglio finisce Karradi. Al di là è Green Zone. Era il quartiere delle ambasciate e del potere di Saddam, è diventato un fortino per gli occupanti stranieri e poi per lo stesso governo iracheno. Le carceri delle torture del dittatore non hanno mai chiuso neppure in piena “democrazia” filoamericana.
«Gli Usa» spiega il cardinale «hanno cacciato una classe dirigente senza formarne un’altra. L’Iraq vive da 17 anni nell’anarchia con la gente che, per paura della violenza, torna alle certezze primarie della famiglia, della tribù, nella comunità religiosa. Ne è emerso un Paese dove lo Stato è fragile e a dettar legge sono le milizie. Persino i deputati cristiani devono affiliarsi a qualche partito sciita o sunnita per farsi proteggere da chi è armato. Filoiraniani, filoturchi, filosauditi sono infiltrati nell’amministrazione pubblica. Questo ministero appartiene a uno e quello all’altro. Per qualunque diritto devi chinare la testa e pagare».
Le «tasse» imposte dalle milizie
Le milizie chiedono tangenti per ogni appalto, ogni documento. È una tassazione segreta che non solo paralizza i progetti e costa miliardi, ma dà sempre più forza ai paramilitari. «L’Iraq è troppo debole per difendersi» dice Al Jabri, il capo tribù di Ramadi. Da anni, gli americani minacciano di lasciare il Paese, il Parlamento iracheno ha votato una mozione per espellerli, ma i marines sono sempre lì. Non se ne vanno perché stanno combattendo l’Iran sul suolo iracheno. I droni Usa hanno ucciso nel gennaio 2020 il generale iraniano Soleimani proprio all’aeroporto di Bagdad, i miliziani sciiti hanno risposto martellando da allora tutti i giorni le basi Usa. Piccoli attacchi, ma continui, sufficienti a spaventare i potenziali investitori stranieri. Una guerra sotterranea, meno appariscente degli attentati dell’Isis, ma capace di dissanguare l’Iraq con la disoccupazione e l’emigrazione.
Il Papa lo sa e, secondo il cardinale, «pregherà per il dialogo tra le religioni, per la pace e il rispetto da parte di tutti, in Siria, Iran, Iraq, Usa. Siamo fratelli non dobbiamo combatterci».