By Avvenire
Luca Geronico
Luca Geronico
Da Teleskof, nella Piana di Ninive, è fuggita il giorno prima
dell’arrivo dei diavoli neri del Daesh: era il 6 agosto del 2011. La
prima estate come profuga a Duhok, nel Kurdistan del Nord, è passata
nella tendopoli sorta spontaneamente davanti al sagrato della chiesa.
«Sono venuta in Libano nel novembre del 2011, raggiungendo alcuni miei parenti fuggiti poco prima dal Kurdistan», racconta Milad George, 34 anni, e tre figli ora di 11, 9 e 7 anni. Il Libano
come prima tappa dove presentare la domanda di protezione
internazionale alle Nazioni Unite in attesa che «un Paese ci accolga».
Il Libano, scelto come porto franco, anche perché più accogliente e
aperto degli altri Paesi e perché, come si ripetevano fra loro i membri
della diaspora caldea, con una forte comunità cristiana.
In
quattro anni di attesa, sono solo una decina le famiglie note a Milad
che hanno ottenuto il visto. Per gli altri una vita da sans papier: senza un permesso di soggiorno non è possibile un lavoro regolare.
«Mia marito era meccanico, ora ha trovato posto in un garage dove lava
le auto», spiega Milad nella sala d’attesa del dispensario Saint Antoine
della Fondazione internazionale Buon Pastore (socio Focsiv). I 400 dollari di stipendio se ne vanno tutti per l’affitto della casa.
La sopravvivenza, davvero dura, Milad con la sua famiglia la conquista
ogni giorno con lavori saltuari: «Ho provato a fare le pulizie in una
università, mi pagavano circa 200 dollari al mese, ma ho abbandonato
perché nessuno si occupava dei miei figli». Milad, con le lacrime agli
occhi, ti racconta del marito diabetico: «Quando ha delle crisi, allora
vado io a lavare le auto al suo posto». Un altro lavoro saltuario, dalle
5 e trenta del mattino fino alle 14, procura a Milad circa 13 dollari a
giornata.
Quando i figli sono a scuola. Ma anche questa è stata una conquista. «Alla scuola pubblica i bambini siriani malmenavano mio figlio.
L’ho ritirato e abbiamo pure deciso di cambiare quartiere dover
abitare», racconta. Poche parole, pronunciate sottovoce, per un tormento
chiamato emarginazione e razzismo.
Gli aiuti
umanitari delle grandi agenzie, spiegano tutti gli operatori sociali,
sono all’80 per cento per i profughi siriani. Così per gli iracheni, tutti i cristiani, l’estenuante attesa del visto è
in come un limbo: «Nessuno si occupa di loro, sono dimenticati da
tutti», anche dalla macchina degli aiuti umanitari. Senza diritti, senza
possibilità di un lavoro regolare e con i soli 170 dollari garantiti dalla carta rossa delle Nazioni Unite.
«Per curare mio marito in un ospedale qui in Libano si deve pagare», spiega Milad. Per questo le
medicine distribuite gratuitamente nel poliambulatorio, dentro i
container all’inizio del quartiere Roueisset, sono una benedizione. «Ma per fare esami medici particolari - spiega con gli occhi lucidi – non abbiamo i soldi».
Una volta al mese, una serie di incontri nel vicino centro sociale
sempre della Fondazione Buon pastore, serve a Milad, come al gruppo
delle altre 14 donne irachene, a conoscere dove poter ricevere cure, a
conoscere le leggi locali, e a discutere con le altre mamme
dell’educazione dei figli. «Di solito, sola nella mia casa, non esco
mai», confida Milad con un sorriso triste. Un sabato ogni quindici giorni la catechesi nella parrocchia più vicina, e la domenica la Messa:
«I miei figli mi dicono che vorrebbero tornare in Iraq: A Telleskof
c’era spazio per giocare», dice sorridendo Moilad. Anche Milad, se fosse
possbile, vorrebbe ogni tanto giocare a volley, come faceva quando da
ragazzina andava a scuola nel villaggio della Piana di Ninive.
C’è anche della fierezza, in questa sofferenza.