«Martedì 17 ottobre, a Qaraqosh, nella Piana di Ninive (Iraq), dopo 
settimane di lavori compiuti da un’impresa locale, abbiamo riaperto la 
nostra scuola elementare, che era stata saccheggiata e danneggiata dai 
jihadisti dell’Isis.  Abbiamo accolto 400 bambini tornati qui con le 
loro famiglie. A breve – grazie al decisivo aiuto della Fondazione Avsi 
(che ci segue da tempo) – riapriremo anche l’asilo, che era stato 
bruciato». Sono le parole di suor Silvia Batras, domenicana irachena. 
Originaria di Alqosh, 36 anni, oggi vive a Erbil, nel Kurdistan 
iracheno: guida la comunità domenicana locale, insegna catechismo ed è 
vicepreside della scuola costruita per i profughi cristiani. Da Erbil 
segue il ritorno delle proprie consorelle nella Piana di Ninive, dove si
 reca spesso. A Vatican Insider
 racconta la fuga dei cristiani dopo l’invasione dell’Isis, i patimenti 
da loro vissuti, la speranza che li sostiene, la liberazione. Racconta 
vite passate attraverso il fuoco della tribolazione. E rimaste 
aggrappate al Signore. 
Torniamo all’estate del 2014: lei quando fuggì dalla Piana di Ninive? 
«Venerdì 1 agosto 2014, con l’avanzata delle milizie dell’Isis, le mie sette consorelle
 ed io lasciammo il convento di Tilkef per rifugiarci ad Alqosh presso 
un’altra nostra comunità. Il giorno 6 iniziò a circolare la voce che 
l’Isis stava arrivando: le mie consorelle partirono in giornata; io 
rimasi per aiutare i miei familiari che vivevano in città: alle 23 
decidemmo di scappare anche noi, insieme a migliaia di altri cristiani. E
 cominciammo a camminare: ricordo la paura, la rabbia, il dolore, 
l’affanno, il pianto dei bambini. Il mattino seguente eravamo in 
Kurdistan, salvi. Nei giorni successivi ci dissero che i cristiani 
fuggiti dalla Piana di Ninive erano circa 150mila: fu un vero esodo. Non
 dimenticherò mai quella notte: prego sempre il Signore che nessuno 
debba mai sperimentare ciò che abbiamo vissuto noi».  
Quali pensieri agitavano la sua mente quella notte? 
«Ero impaurita. Tutte le donne, in particolare, temevano di fare la 
fine delle yazide: rapite, violentate e vendute. Ero anche arrabbiata 
con il Signore perché non capivo cosa stesse accadendo, mi sembrava di 
essere finita in mezzo al mare su una barca squassata dalla tempesta. 
Poi, con il tempo, prestando soccorso ai profughi, ho compreso che Gesù è
 sempre stato sulla nostra barca, proprio come era sulla barca dei Suoi 
discepoli quando scoppiò la tempesta (Lc 8,22-25; Mc 4,35-41; Mt 8,18.23-27). Lui non ci ha mai abbandonato».  
Quanti cristiani, approssimativamente, sono tornati a vivere nella Piana di Ninive sino ad oggi?  
«Difficile dirlo, i numeri variano di settimana in settimana e non 
esistono dati ufficiali: penso comunque un buon numero. La Fondazione 
Pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre” (che di recente ha varato un 
importante progetto per sostenere il ritorno dei cristiani), citando 
fonti del Comitato per la Ricostruzione di Ninive, stima abbiano fatto 
rientro nelle loro case circa 3mila famiglie, ossia approssimativamente 
15mila persone. Noi suore domenicane, obbedendo alla richiesta della 
Chiesa che voleva fossimo presenti per sostenere queste famiglie, ci 
siamo stabilite, per il momento, in due centri: tre suore vivono a 
Telskuf, dieci a Qaraqosh. Verso Natale, dopo aver finito di sistemare 
la casa, tre andranno a Bartella. Purtroppo, nessun villaggio della 
Piana è stato risparmiato dalla furia dell’Isis. Nei mesi scorsi, dopo 
la liberazione nell’ottobre del 2016, abbiamo potuto vedere ciò che 
l’Isis aveva fatto: uno scempio disumano». 
Può descriverlo? 
«La maggior parte delle case sono state saccheggiate o bruciate o 
lesionate dalle bombe, ci sono aree minate, le chiese sono state 
distrutte, i conventi dati alle fiamme, i cimiteri profanati. Quando le 
mie consorelle, dopo la liberazione, sono andate per la prima volta a 
Qaraqosh hanno trovato la scuola e il convento danneggiati: i miliziani 
dell’Isis avevano rubato o incendiato ogni cosa, anche i libri della 
biblioteca. Dopo una settimana le mie consorelle sono tornate perché 
volevano portare alcuni libri: hanno visto il convento quasi 
completamente distrutto: qualcuno, giorni prima, aveva portato lì 
un’auto imbottita di esplosivo e l’aveva fatta saltare in aria». 
Quali attività svolgono attualmente le sue consorelle?  
«A Qaraqosh lavorano nella scuola e nell’asilo. A Telskuf sono 
impegnate nell’asilo, frequentato da 70 bambini, e stanno finendo di 
sistemare il convento. Una di loro insegna nella scuola pubblica. In 
questi due centri inoltre affiancano i sacerdoti nell’attività pastorale
 facendo catechismo e sono sempre a disposizione di quanti cercano 
consolazione, sostegno, incoraggiamento». 
Qual è la situazione adesso nei centri della Piana di Ninive? 
«Si continuano a ricostruire o riparare le case e le chiese 
danneggiate, sono stati aperti diversi negozi, anche qualche 
ristorantino. In quindici scuole sono già riprese le lezioni. La vita, 
lentamente e faticosamente, sta ricominciando. Tuttavia resta moltissimo
 da fare. So che diverse famiglie originarie della Piana ora emigrate 
all’estero hanno offerto – per un anno a titolo gratuito – le loro case 
ancora in buono stato alle famiglie le cui abitazioni sono state 
danneggiate. Inoltre, dopo la liberazione, la Chiesa – che in Kurdistan 
ha pagato ai profughi la metà dell’affitto –  si è subito resa 
disponibile a finanziare parte delle spese sostenute dalle famiglie per 
la ricostruzione delle abitazioni. Il senso della comunità non è andato 
perduto: le persone si aiutano, si sostengono reciprocamente».  
Qual è il desiderio più grande delle famiglie tornate nelle loro cittadine? 
«Desiderano la pace, sperano di vivere in tranquillità e di far 
crescere i loro figli in un ambiente sereno: tutti preghiamo che le armi
 tacciano definitivamente. L’opera di ricostruzione richiederà molto 
tempo: dovremo avere pazienza. Noi suore domenicane desideriamo 
continuare a portare la carezza di Gesù a queste persone che hanno molto
 sofferto: a volte basta poco per infondere coraggio, risollevare gli 
animi: un sorriso, una parola gentile, uno sguardo di comprensione». 
Le efferatezze compiute 
dall’Isis, la fuga precipitosa dalle loro case quali segni hanno 
lasciato nei bambini che frequentano le vostre scuole? 
«Avevamo appena aperto la scuola a Erbil quando un giorno scoppiò un 
forte temporale; tuonava: i bambini si spaventarono moltissimo, 
cominciarono a gridare che l’Isis stava arrivando e che dovevano 
fuggire. Nonostante siano passati tre anni, sono ancora spaventati. E 
purtroppo sono aggressivi, litigano spesso, si picchiano: noi insegnanti
 cerchiamo in tutti modi di calmarli, di farli sentire al sicuro, 
protetti, ma non è facile perché la loro vita è stata stravolta».   
La fede dei cristiani della Piana di Ninive è stata duramente messa alla prova in questo difficilissimo passaggio della storia. 
«L’Isis, durante l’invasione della Piana, costringeva i cristiani a 
scegliere tra una di queste tre opzioni: convertirsi all’Islam, pagare 
una tassa (la jizya) o 
lasciare la propria città. Dopo aver raggiunto il Kurdistan, molte 
persone – che avevano preferito fuggire piuttosto che rinnegare Gesù – 
hanno cominciato a domandarsi perché il Signore le avesse abbandonate, 
perché avesse permesso il male. La loro fede ha vacillato. È umano: una 
simile domanda affiora sempre sulle labbra di chi patisce soprusi, 
violenze, ingiustizie. Ricordo in particolare una mamma che non si dava 
pace: i miliziani dell’Isis avevano rapito la sua bambina di tre anni e 
con gli occhi colmi di lacrime continuava a chiedere perché Dio lo 
avesse permesso. Molte altre persone, invece, sin dall’arrivo in 
Kurdistan, hanno sostenuto con forza e convinzione che il Signore non ci
 aveva abbandonato, che se non fosse stato al nostro fianco saremmo 
morti. Tutte queste persone hanno continuato a confidare in Lui, certe 
della Sua vicinanza. E sono state quindi capaci di aiutare chi aveva 
iniziato a sentirsi abbandonato dal Signore». 
Avete avuto qualche notizia della bambina rapita? 
«Sì, è stata liberata quest’anno dai soldati dell’esercito iracheno. 
Purtroppo la piccola ha dimenticato quasi tutto della sua precedente 
vita in famiglia (ad esempio, non parla più l’aramaico ma solo l’arabo),
 tuttavia con l’amore e le cure dei genitori si riprenderà». 
In questi anni i cristiani della Piana di Ninive hanno sentito la vicinanza, il sostegno della Chiesa? 
«Sì, molto. Questo è stato un dono grande che il Signore ci ha fatto,
 del quale non finiremo di ringraziare. Non ci siamo sentiti 
abbandonati: la Chiesa si è presa cura di tutti noi con la preghiera e 
con opere e raccolte fondi realizzate da associazioni umanitarie e 
singole comunità. Vorrei menzionare in particolare l’aiuto (una 
benedizione!) profuso in Kurdistan dalla Chiesa locale, che sin 
dall’inizio ha aperto i propri edifici per accogliere i profughi e ha 
garantito molti servizi offrendo cibo e altri beni di prima necessità, e
 il sostegno grande che ci è stato offerto in questi anni dalla 
Fondazione Pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre”: ad esempio, nel 
2014, pochi mesi dopo la fuga dei cristiani dalla Piana, ha fornito loro
 case prefabbricate, a Erbil ha aperto una clinica e anche un asilo e 
una scuola dove lavoriamo noi domenicane. Tutti gli aiuti ricevuti hanno
 mitigato i molti disagi e le privazioni che le famiglie hanno vissuto e
 ancora vivono in Kurdistan». 
Quale dono pensa stiano offrendo i cristiani della Piana di Ninive alle comunità cristiane del mondo? 
«Penso portino in dono il coraggio di stringersi al Signore qualunque
 cosa accada e la convinzione salda che Lui ci è sempre vicino. 
Racconterò un episodio: durante il primo anno di permanenza a Erbil 
organizzammo un incontro dedicato alla Parola di Dio con i giovani: un 
ragazzo volle leggere a tutti l’ultimo versetto del Vangelo di Matteo 
nel quale Gesù afferma: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino 
alla fine del mondo” (Mt 28,20). Poi disse che queste parole, per lui, 
erano vere, che Gesù stava mantenendo la promessa, era davvero con noi 
tutti giorni e lo sarebbe stato sempre. Gli altri ragazzi annuirono. 
Questa è la nostra fede».