"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

15 dicembre 2016

Le armi dei cristiani contro l’Isis

Daniela Lombardi

Per difendere la propria famiglia, la propria casa, la propria terra, hanno deciso che non è più tempo di “porgere l’altra guancia”. Ci sono cristiani, in Iraq, che per riappropriarsi delle loro città o semplicemente sorvegliarle, tutelare i propri cari e i propri beni, conservare la fede senza doversi convertire all’Islam estremista imposto dal Daesh, imbracciano il fucile e combattono.
A Manila, come ad Erbil, si presentano a chiedere un addestramento qualificato, come quello fornito dai nostri militari italiani che insegnano le nozioni teoriche e pratiche più importanti ai Peshmerga curdi e alla branca della polizia militarizzata della quale molti cristiani fanno parte, gli Zeravani.
Accanto ai “colleghi” curdi, che combattono l’Isis per inseguire un sogno di futura indipendenza e di riconoscimento delle loro terre, si gettano nel fango durante la simulazione di un’esplosione, imparano a riconoscere gli ordigni improvvisati, ad usare al meglio le armi.
“Qui ad Erbil abbiamo tanti cristiani che entrano tra gli Zeravani e, occasionalmente, li addestriamo anche a Manila. Sono molto motivati, hanno troppo da perdere e non intendono arrendersi”, spiega uno dei militari italiani impegnati nella missione “Inherent resolve”, che in Iraq fornisce il training ai Peshmerga per rendere la loro battaglia contro l’esercito delle “bandiere nere” sempre più efficace.
Molti cristiani hanno già pagato il loro tributo di sangue come combattenti, lasciando dietro di sé vedove e orfani, ma nella convinzione di dar loro un futuro migliore. E, comunque, preferendo morire in battaglia piuttosto che lasciandosi martirizzare senza battere ciglio o sentirsi costretti a pronunciare la formula di adesione all’Islam per non essere uccisi. Si dichiarano sicuri che se a difendere la cristianità non pensano i cristiani stessi, non ci penserà nessuno.
“Non ci fidiamo più di nessuna delle parti in campo. Nella guerra contro il Daesh tutti tutelano i propri interessi. Il governo i suoi. Sciiti e sunniti sono in contrapposizione anche quando fingono di abbracciare la stessa causa contro l’Isis, i curdi sperano che, una volta cacciate le bandiere nere, potranno richiedere terre e indipendenza in cambio del lavoro fatto. Noi cristiani, che siamo una netta minoranza e che vogliamo vivere solo in pace la nostra fede, non interessiamo. La Chiesa ci aiuta come può, ma certo non ha lo strumento della lotta armata da offrirci”, dice senza mezzi termini un ragazzo la cui croce, tenuta al collo con orgoglio, brilla nel sole del primo pomeriggio. Con la forza e la tenacia dei combattenti hanno deciso di opporsi allo scoraggiamento che ha colto molti dei loro amici e parenti, rassegnati a vivere nei campi profughi, nella consapevolezza che tornare alla vita pre-Isis sarà estremamente complicato e, in alcuni casi, impossibile. 
“L’ideologia dei terroristi resisterà a lungo, anche quando li cacceranno dalle nostre città. Ma noi non ci arrendiamo, non ci faremo togliere tutto senza muovere un dito. Può sembrare una contraddizione rispetto a quanto insegna il Vangelo, ma con le armi proteggiamo anche la nostra fede, la libertà di professarla senza che nessuno possa impedircelo. Contro l’odio cieco del Daesh per tutto ciò che siamo e per i nostri simboli, del resto, non sappiamo più cosa fare. La preghiera non basta. Continuiamo ad usare anche quella, ma vogliamo impegnarci in prima persona, portando sempre con  noi la croce che ci rappresenta e morendo indossandola”, dice uno dei ragazzi pronti all’addestramento. Una linea di pensiero diversa da quella “tradizionale” , ma che rivela tutta la sua importanza nel contesto iracheno, nel quale i cristiani si sentono sempre più isolati. 
 Un ambiente descritto alla perfezione dal parroco di Ankawa, fra Ammanoel Hloo
“La situazione dei cristiani in Iraq è disastrosa su tutti i piani. Politico, economico,sociale. L’isis nei prossimi mesi probabilmente verrà sconfitto dal punto di vista militare, o almeno lo speriamo. Ma l’ideologia che lo alimenta non morirà facilmente. La società resterà in pericolo e i cristiani più di tutti. La maggior parte dei cristiani rifiuta l’idea di rimanere qui e tenta di fuggire all’estero. C’è troppa paura di tornare a vivere ciò che si sta già vivendo. Le forze politiche attuali non sanno più guidare questo paese, i servizi sono inefficienti per la corruzione dilagante, i tre quarti della popolazione vivono in povertà. L’Iraq è un campo di contraddizioni e di battaglie tra tanti paesi. Turchia, Iran, Paesi del Golfo. In tutto ciò è logico che ognuno cerchi di pensare a se stesso e i cristiani sono una delle parti più deboli”.  
E’ per questo, dunque, che non può sorprendere se qualcuno tra loro decide di prepararsi nel migliore dei modi a difendersi anche con le armi.