By La Nuova Bussola Quotidiana
Gianandrea Gaiani
Gianandrea Gaiani
Quando i cristiani nell’agosto del 2014 sono fuggiti dal villaggio di
Bartalla, uno dei tanti che si susseguono nella Piana di Ninive, in
Iraq, l’allora 14enne Ibrahim Matti e sua madre Jandark Nasi non sono
riusciti a fuggire. Non avevano un’automobile e confidavano che un
parente sarebbe tornato a prenderli come promesso. Non pensavano che gli
uomini dello Stato islamico li avrebbero catturati prima e portati in
una prigione a Mosul. È qui che sono rimasti da allora fino a poche
settimane fa, quando l’avanzata dell’esercito nella capitale irachena
del Califfato gli ha permesso di scappare. Bartalla dista appena 23
chilometri da Mosul e dal giorno dell’invasione dei jihadisti mancano
all’appello un centinaio di cristiani. La speranza è che una volta
ripresa Mosul escano tutti da qualche prigione come Matti e Nasi, ma per
ora sono pochissimi ad essersi rivelati ancora vivi. «Siamo molto
felici di riabbracciarli», ha dichiarato al Christian Science Monitor padre Ammar Siman, sacerdote di Bartalla. «Ovviamente hanno bisogno di essere aiutati. Hanno sofferto molto».
All’arrivo dell’Isis Matti e Nasi hanno cercato di fuggire a Erbil
ma sono stati bloccati a un check-point e spediti in una prigione di
Mosul, «piena di sciiti e cristiani». Tutti venivano picchiati ed è qui
che per la prima volta un jihadista ha ordinato al 14enne di recitare la
professione di fede islamica. Ma lui ha risposto: «Non c’è altro Dio al
di fuori di Gesù». Il terrorista islamico, infuriato, è allora uscito
dalla sua cella, entrando in quella a fianco, dove tenevano gli sciiti,
considerati non musulmani ma eretici. Racconta Matti: «Ha chiesto a un
uomo di convertirsi all’islam, quello ha rifiutato e gli ha sparato in
testa. Poi mi hanno portato nella sua cella, mi hanno mostrato il corpo e
mi hanno detto che se non mi fossi convertito sarei anch’io finito
così. Ero terrorizzato».
Alla fine entrambi sono stati costretti a pronunciare
la professione di fede islamica. «Ma non veniva dal cuore», si
giustifica Matti, «io credo fortemente in Gesù ma ero sotto minaccia e
sotto pressione. Quando dici qualcosa che non viene dal tuo cuore, non
può essere creduta». La finta conversione non ha in alcun modo reso la
vita più facile ai due. Siccome non riuscivano a «memorizzare le
preghiere islamiche» venivano picchiati ogni giorno e torturati con
degli aghi. Anche dopo che sono stati fatti uscire dal carcere, ogni
volta che Matti decideva di non recarsi in moschea al venerdì, veniva
subito trovato, picchiato e minacciato: «Se manchi ancora una volta sei
morto». A Mosul il ragazzino ha anche assistito ad esecuzioni e
lapidazioni.
Altri cristiani che hanno raggiunto Erbil come loro
nelle ultime settimane hanno parlato di aver subìto le stesse violenze e
torture. Soprattutto, però, i jihadisti li hanno obbligati a togliersi
le croci dal collo, a calpestare le immagini di Gesù e Maria, a
profanare la propria coscienza. E se gli esempi di coraggio e martirio
non mancano, anzi abbondano, non tutti hanno avuto la stessa forza.
Durante i due anni di prigionia Nasi non ha «mai smesso di pregare Maria e Gesù
nel mio cuore e piangere. Pregavo per la salvezza di mio figlio, il mio
dono di Dio». E poche settimane fa l’avanzata dell’esercito iracheno ha
permesso loro di scappare. Matti non può «ancora credere di esserne
uscito vivo». Una delle prime cose che hanno fatto, una volta portati a
Erbil, è stato chiedere a un sacerdote la gravità di quello che avevano
compiuto: recitare la professione di fede islamica sotto minaccia di
morte. Ma nessuno li ha accusati. «Due preti sono venuti a visitarci e
ci hanno detto di non preoccuparci», racconta Nasi, sollevata. Ricorda
anche le parole esatte: «Ci hanno detto: “Voi non avete più niente da
temere ora. Noi siamo il vostro popolo, noi siamo la vostra famiglia”».
Padre Siman non ha dubbi: «Riceveranno solo amore da Dio e dalla Chiesa.
Sono stati obbligati ad accettare qualcosa in cui non credevano.
Dovremmo accusarli forse? No». Per tanti altri sono state organizzate
nuove cerimonie di battesimo.
Matti e Nasi ora vivono in un piccola stanza di un centro per sfollati a Erbil
gestito dalla Chiesa. L’unico ornamento sono i rosari che pendono sui
loro letti. Per quanto salvi, non possono dimenticare il trauma vissuto e
sono giunti a una scelta tragica e sofferta. «Abbiamo passato due anni
terribili sotto l’Isis», spiega Matti. «Non vogliamo tornare indietro. E
non vogliamo neanche restare in Iraq. Vogliamo solo andarcene, per
lasciarci alle spalle tutto questo dolore».
Their town now liberated, Iraqi Christians talk of life under ISI
Their town now liberated, Iraqi Christians talk of life under ISI