By Asia News
Molte famiglie cristiane non riescono a pagare l’affitto e “devono
abbandonare le case” per rientrare “nelle tende e nei caravan”. Il
lavoro “scarseggia” e quanti hanno avuto sinora un impiego, nella
maggior parte dei casi “non ricevono lo stipendio”; solo di recente
“almeno 250 compagnie sono fallite o hanno dovuto licenziare tutti i
dipendenti”. Intanto cresce la cosiddetta “discriminazione della
lingua”, perché a chi non parla curdo “vengono aumentati i prezzi delle
derrate e, negli ospedali, accade che siano rifiutate le cure”. Dalle
parole di p. Jalal Yako, rogazionista originario di Qaraqosh,
responsabile di uno dei campi profughi - un migliaio di persone, in
maggioranza cristiane ma con presenze musulmane - alla periferia di
Erbil, nel Kurdistan irakeno, emerge un quadro critico per i profughi di
Mosul e della piana di Ninive.
Da oltre un anno e mezzo le famiglie cristiane della regione hanno
dovuto abbandonare le loro case e i loro beni, per sfuggire alle
violenze delle milizie dello Stato islamico (SI). L’illusione di poter
presto rientrare nelle abitazioni da cui sono fuggiti, ha lasciato
spazio all’esigenza di trovare una sistemazione nella regione curda;
tuttavia, oggi la crisi economica determinata dal calo dei proventi del
petrolio e il costo della vita stanno rendendo sempre più precaria la
realtà quotidiana.
“All’indifferenza per il Medio oriente - racconta il sacerdote ad AsiaNews -
per questa parte del mondo in cui si consumano drammi e conflitti, la
nostra gente risponde con la fede, con l’attaccamento alla terra, con il
desiderio di partecipare in massa alle funzioni della Quaresima. Ma è
evidente un sentimento di sfiducia e disillusione”. La maggior parte dei
profughi, o almeno quanti non sono fuggiti all’estero, “non sembra più
disposta a credere di poter tornare un giorno nelle proprie case. Quanti
sono riusciti a trovare sistemazione in un alloggio, oggi non riescono a
pagare gli affitti perché non ci sono più soldi”. “Molti hanno perso il
lavoro - spiega p. Jalal - e anche quanti hanno un impiego da tempo non
ricevono il salario. Ultimamente ho sentito che 250 compagnie sono
fallite, i cantieri restano a metà, incompiuti”.
Per i profughi al problema della casa e del lavoro si aggiunge anche
quello della lingua: “Se non sei del posto, se non parli curdo ma arabo -
sottolinea il sacerdote - faticano ad accettarti. Vi è una
discriminazione della lingua che si traduce in un aumento dei prezzi,
nel rifiuto di cure mediche e questo finisce per colpire anche i
cristiani. Anche nel mio campo, Asthi Uno, che ospita famiglie di
Qaraqosh, Mosul, Bartella, il sentimento prevalente è quello della
stanchezza”.
A lenire il sentimento di sfiducia e abbandono vi è la fede, il
desiderio di vivere le celebrazioni e i riti della Quaresima in una
prospettiva di comunità. “Celebriamo messe tutti i giorni, le persone
affollano le chiese - racconta p. Jalal - e osservano con devozione il
digiuno del venerdì, giorno in cui partecipano anche alla Via Crucis
all’aperto. E poi recitiamo l’Angelus tutti i giorni. Di recente, grazie
all’aiuto di una parrocchia italiana, abbiamo costruito un campanile
per richiamare la comunità alle funzioni e dare un segno visibile della
nostra presenza, testimoniando la nostra fede”.
“Fra le altre iniziative di queste settimane - racconta il sacerdote -
c’è anche quella di far passare in processione tra le famiglie la
statua della Vergine, per far sentire la presenza di Maria in mezzo a
Noi. È una riproduzione della Madonna di Fatima, che abbiamo ricevuto da
una parrocchia francese, alla periferia di Parigi. La gente fa
lunghe code per pregare davanti alla statua e donazioni come questa,
così come la campana dall’Italia, sono un bel gesto di comunione fra
chiese, un modo per non farci sentire trascurati e dimenticati”.
Il sacerdote non risparmia accuse ai governi occidentali, che
fomentano guerre e si mostrano indifferenti alla presenza e alla
permanenza di tutti i popoli, di tutte le etnie, di tutte le minoranze
che nella storia hanno reso ricca la regione mediorientale. “Anche solo
la presenza cristiana - spiega - è un mosaico che abbellisce questa
zona, dobbiamo valorizzare la presenza di queste culture e non imporre
le divisioni su basi etniche, confessionali, identitarie”. Certo,
aggiunge, il valore della convivenza è stato minato dalle violenze degli
ultimi mesi, “da vicini di casa che hanno approfittato dell’arrivo
dello Stato islamico per depredare le case cristiane di beni e averi.
Spesso - aggiunge - sono stati proprio i nostri vicini, musulmani, i
primi a rivoltarsi contro di noi”.
Nonostante le difficoltà e le sofferenze, fra i cristiani resta
sempre saldo il valore del perdono, della riconciliazione, che assumono
un significato maggiore in questo Anno della Misericordia indetto da
papa Francesco: “I cristiani, anche se hanno subito un male, un torto,
un’offesa - spiega il sacerdote - non cercano vendetta, non uccidono,
non impugnano le armi. Anche se il dolore è grande, il perdono resta
sempre un valore così come è grande il desiderio di testimoniare la
fede”. L’esempio è una bambina di nome Miriam, di dieci anni, che vive
nel campo profughi di p. Jalal e che ricorda a tutti “che il perdono è
la cosa più grande. In mezzo a queste sofferenze e difficoltà è una vera
testimone della gioia, canta, sorride, e ripete a tutti che vuole fare
dono della sua vita per gli altri. È una bambina molto forte - conclude -
e non smette mai di ricordarci che bisogna essere sempre capaci di
perdonare, perché questo è uno degli insegnamenti più belli dell’essere
cristiano”.