By Radiovaticana
Fuga di massa dall’Iraq, violenze nel Medio Oriente, una Chiesa che vuole essere madre e sorella di chi chiede speranza. Sono molti e delicati i temi che da oggi al 29 ottobre prossimo si accinge ad affrontare la Chiesa caldea. Un segno delle gravi difficoltà che la riguardano viene dalla sede dell’assemblea sinodale, in precedenza convocata per lo scorso 22 settembre ad Ankawa, il sobborgo di Erbil abitato in maggioranza da cristiani, dove sono ospitati anche buona parte dei profughi della Piana di Ninive fuggiti davanti all’avanzata dei jihadisti del cosiddetto Stato islamico. Il Sinodo è stato rinviato e spostato a Roma, dove sono giunti i vescovi della diaspora, provenienti dagli Stati Uniti, dal Canada e dall'Australia. Paolo Ondarza ha intervistato il Patriarca Louis Raphael I Sako, di Babilonia dei Caldei, presente al Sinodo sulla famiglia:
Abbiamo tanti soggetti da studiare, la nostra situazione in Iraq, in Siria, è una situazione precaria: come affrontare le sfide delle famiglie sfollate nel Kurdistan o anche nei Paesi vicini, l’esodo di massa – la gente va via, perché non vede una soluzione all’orizzonte – poi come riorganizzare la nostra Chiesa. In genere, infatti, durante le crisi, la Chiesa deve essere dinamica, forte, per dare speranza alla gente, soprattutto lì. La Chiesa, dunque, deve essere un segno di speranza per i cristiani, ma anche per i musulmani. I preti devono seguire una formazione permanente, sia quelli all’interno dell’Iraq sia quelli che servono fuori. Noi, purtroppo, abbiamo vissuto il dramma della fuga dei preti e dei monaci. Abbiamo anche bisogno di un aggiornamento della liturgia.
Nello specifico, per quanto riguarda l’Iraq chiaramente grande attenzione sarà data ai tanti cristiani, come diceva, che sono fuggiti. Pensiamo ai profughi della Piana di Ninive, che sono appunto in fuga di fronte all’avanzata del Daesh, del sedicente Stato Islamico. Come la Chiesa si pone di fronte a questa minaccia? Quali suggerimenti, quali possibili soluzioni, lei si augura possano uscire da questo Sinodo?
Prima di tutto, noi, come vescovi e preti sul posto, dobbiamo essere molto presenti tra loro, in mezzo a loro, così che non sentano di essere stati lasciati soli. Abbiamo anche chiesto la solidarietà della Chiesa universale. Io ho fatto un appello alle Conferenze episcopali occidentali, soprattutto americane, perché facciano pressione sul loro governo per cercare una vera e duratura soluzione pacifica per questi Paesi. Questo è molto importante. Invece di accogliere questi rifugiati, sarebbe meglio aiutarli a rimanere nel loro Paese, vivendo in pace e nella dignità. Ma c’è anche l’emergenza, il bisogno di aiutare queste famiglie. Noi ora non siamo capaci di rispondere ai loro bisogni. Abbiamo molto aiutato, ma adesso abbiamo bisogno dell’aiuto delle nostre Chiese nel mondo. Anche le agenzie di carità – Aiuto alla Chiesa che soffre, la Caritas, l’Oeuvre d'Orient, Misereor, Missio, la Conferenza episcopale italiana – ci hanno aiutato molto. Noi dunque siamo grati, ma aspettiamo anche un aiuto morale e spirituale, politico e anche economico.
La questione del Medio Oriente, dei cristiani in Iraq, è stata anche presente qui al Sinodo dei vescovi sulla famiglia, che si chiude mentre si apre il vostro della Chiesa caldea…
Sì, certo. I problemi, infatti, non sono gli stessi per noi. Non c’è matrimonio civile, divorzio… Pochi i casi di annullamento. La famiglia è molto unita e vive in comunità. Le sfide di queste famiglie sono la persecuzione, le migrazioni, il fondamentalismo, l’essere emarginati da questa mentalità musulmana che non accetta l’altro. E noi dobbiamo fare qualcosa per loro.
Fuga di massa dall’Iraq, violenze nel Medio Oriente, una Chiesa che vuole essere madre e sorella di chi chiede speranza. Sono molti e delicati i temi che da oggi al 29 ottobre prossimo si accinge ad affrontare la Chiesa caldea. Un segno delle gravi difficoltà che la riguardano viene dalla sede dell’assemblea sinodale, in precedenza convocata per lo scorso 22 settembre ad Ankawa, il sobborgo di Erbil abitato in maggioranza da cristiani, dove sono ospitati anche buona parte dei profughi della Piana di Ninive fuggiti davanti all’avanzata dei jihadisti del cosiddetto Stato islamico. Il Sinodo è stato rinviato e spostato a Roma, dove sono giunti i vescovi della diaspora, provenienti dagli Stati Uniti, dal Canada e dall'Australia. Paolo Ondarza ha intervistato il Patriarca Louis Raphael I Sako, di Babilonia dei Caldei, presente al Sinodo sulla famiglia:
Abbiamo tanti soggetti da studiare, la nostra situazione in Iraq, in Siria, è una situazione precaria: come affrontare le sfide delle famiglie sfollate nel Kurdistan o anche nei Paesi vicini, l’esodo di massa – la gente va via, perché non vede una soluzione all’orizzonte – poi come riorganizzare la nostra Chiesa. In genere, infatti, durante le crisi, la Chiesa deve essere dinamica, forte, per dare speranza alla gente, soprattutto lì. La Chiesa, dunque, deve essere un segno di speranza per i cristiani, ma anche per i musulmani. I preti devono seguire una formazione permanente, sia quelli all’interno dell’Iraq sia quelli che servono fuori. Noi, purtroppo, abbiamo vissuto il dramma della fuga dei preti e dei monaci. Abbiamo anche bisogno di un aggiornamento della liturgia.
Nello specifico, per quanto riguarda l’Iraq chiaramente grande attenzione sarà data ai tanti cristiani, come diceva, che sono fuggiti. Pensiamo ai profughi della Piana di Ninive, che sono appunto in fuga di fronte all’avanzata del Daesh, del sedicente Stato Islamico. Come la Chiesa si pone di fronte a questa minaccia? Quali suggerimenti, quali possibili soluzioni, lei si augura possano uscire da questo Sinodo?
Prima di tutto, noi, come vescovi e preti sul posto, dobbiamo essere molto presenti tra loro, in mezzo a loro, così che non sentano di essere stati lasciati soli. Abbiamo anche chiesto la solidarietà della Chiesa universale. Io ho fatto un appello alle Conferenze episcopali occidentali, soprattutto americane, perché facciano pressione sul loro governo per cercare una vera e duratura soluzione pacifica per questi Paesi. Questo è molto importante. Invece di accogliere questi rifugiati, sarebbe meglio aiutarli a rimanere nel loro Paese, vivendo in pace e nella dignità. Ma c’è anche l’emergenza, il bisogno di aiutare queste famiglie. Noi ora non siamo capaci di rispondere ai loro bisogni. Abbiamo molto aiutato, ma adesso abbiamo bisogno dell’aiuto delle nostre Chiese nel mondo. Anche le agenzie di carità – Aiuto alla Chiesa che soffre, la Caritas, l’Oeuvre d'Orient, Misereor, Missio, la Conferenza episcopale italiana – ci hanno aiutato molto. Noi dunque siamo grati, ma aspettiamo anche un aiuto morale e spirituale, politico e anche economico.
La questione del Medio Oriente, dei cristiani in Iraq, è stata anche presente qui al Sinodo dei vescovi sulla famiglia, che si chiude mentre si apre il vostro della Chiesa caldea…
Sì, certo. I problemi, infatti, non sono gli stessi per noi. Non c’è matrimonio civile, divorzio… Pochi i casi di annullamento. La famiglia è molto unita e vive in comunità. Le sfide di queste famiglie sono la persecuzione, le migrazioni, il fondamentalismo, l’essere emarginati da questa mentalità musulmana che non accetta l’altro. E noi dobbiamo fare qualcosa per loro.