By Arabpress
Di Nawzat Shamdeen. (Giornalista iracheno) in Niqash (24/09/2015)
Traduzione e sintesi di Chiara Cartia.
Traduzione e sintesi di Chiara Cartia.
È quasi certo che, come dichiarato dal patriarca Louis Sako, “per la prima volta nella storia dell’Iraq, a Mosul non ci sono più cristiani”. Ma che cosa li spingerebbe a voler tornare nella città che un tempo era casa loro?
Per centinaia di anni i cristiani hanno vissuto a Mosul, ma dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, in molti sono fuggiti. Così, secondo le stime di Maan Basim Ajaj, ex consigliere del governatore di Ninawa, di cui Mosul è capoluogo, sono passati ad essere da 525.000 prima del 2003 a 8.000 l’anno scorso.
Così, secondo le stime di Maan Basim Ajaj, ex consigliere del governatore di Ninawa, di cui Mosul è capoluogo, sono passati ad essere da 525.000 prima del 2003 a 8.000 l’anno scorso.
Così, secondo le stime di Maan Basim Ajaj, ex consigliere del governatore di Ninawa, di cui Mosul è capoluogo, sono passati ad essere da 525.000 prima del 2003 a 8.000 l’anno scorso.
Da quando poi Daesh (ISIS) ha conquistato Mosul e i suoi dintorni, quasi tutti hanno cercato di salvarsi scappando altrove. Se si chiede loro a che condizione tornerebbero a casa, la risposta è quasi sempre la stessa.
•Primo: la comunità internazionale dovrebbe garantire loro una protezione e vorrebbero avere a disposizione un’area protetta a Ninawa, lì dove hanno sempre vissuto insieme ad altre minoranze, quali gli yazidi e gli shabak.
•Secondo: poter creare un’entità amministrativa semi-indipendente.
•Terzo: ricevere un compenso per tutti i beni persi così da potersi ricostruire una vita senza penare troppo.
•Primo: la comunità internazionale dovrebbe garantire loro una protezione e vorrebbero avere a disposizione un’area protetta a Ninawa, lì dove hanno sempre vissuto insieme ad altre minoranze, quali gli yazidi e gli shabak.
•Secondo: poter creare un’entità amministrativa semi-indipendente.
•Terzo: ricevere un compenso per tutti i beni persi così da potersi ricostruire una vita senza penare troppo.
Queste condizioni sono state enunciate nel marzo del 2015 al Consiglio delle Nazioni Unite dal patriarca Sako.
“Di certo non vogliono il dispiegamento di truppe straniere a Ninawa o vicino alle chiese di Mosul”, spiega Anwar Hadaya, ex rappresentante dei cristiani nel consiglio provinciale di Ninawa. “Vorrebbero piuttosto che le Nazioni Unite adottassero delle risoluzioni che obblighino il governo federale, il governo regionale di Ninawa, nonché quello del Kurdistan iracheno, a tutelare quelle aree e a proteggerle dai conflitti”, continua Hadaya.
Molti cristiani non tornerebbero indietro perché gli estremisti hanno venduto tutti loro averi e ormai si sono ricostruiti una vita in Occidente. C’è chi sostiene che l’area non potrà mai essere liberata totalmente da Daesh perché molti membri del gruppo terrorista sono iracheni e quindi radicati nel territorio.
Anche se questa minoranza riuscisse a creare un’entità amministrativa indipendente, una volta ritornata a casa, sarebbe comunque esposta a un pericolo costante, e non solo politico.
Parlando con i cristiani che vivono attualmente in Kurdistan, protetti dai militari iracheni curdi, sembra che siano tutti confrontati a una scelta difficilissima. Alcuni vorrebbero tornare a Ninawa, altri desiderano solo partire alla volta dell’Occidente per assicurare un futuro migliore ai loro figli.
Una cosa è certa: i cristiani d’Iraq sono confusi, demoralizzati, e divisi tra il legame che hanno con la loro terra e la consapevolezza che un rimpatrio li esporrebbe a un rischio certo.