"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

19 dicembre 2012

Dopo Delly. Luci e ombre sul futuro dei caldei

by Gianni Valente

Le dimissioni del cardinale Emmanuel Delly dall'ufficio di Patriarca di Babilonia dei caldei aprono scenari nuovi per la Chiesa cattolica d'Oriente più penalizzata dalle convulsioni mediorientali degli ultimi anni

Roma
Nel dicembre 2003, a Roma, l'allora 76enne Emmanuel Delly - ordinato sacerdote nel 1952 nel Pontificio Collegio Urbano di Propaganda fide - era stato eletto come Patriarca “di transizione”, dopo che una precedente assemblea elettorale del sinodo caldeo convocata a Baghdad era finita nel nulla. Lì si erano contrapposti – senza ottenere i due terzi dei voti necessari all’elezione - il gesuita Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo, e Sarhad Jammo, vescovo di San Diego in California, uomo forte della ricca diaspora irachena in Usa. Nel corso della disputa elettorale non erano mancati i colpi bassi, come le accuse indegne di connivenza col partito Baath rivolte contro il siriano Audo.  Al sinodo elettorale di Roma, la Congregazione dele Chiese orientali – guidata allora dal cardinale Ignace Moussa I Daoud, già patriarca siro-cattolico – aveva espresso l’auspicio che fosse scelto come Patriarca un vescovo residente in Iraq e non all’estero. Lasciando intendere che, davanti a una nuova situazione di stallo, il Papa avrebbe avocato a sé la scelta. La soluzione di compromesso aveva “richiamato” in servizio Delly, il vescovo ausiliare ormai emerito di Baghdad, che un anno prima per raggiunta età pensionabile aveva rinunciato al proprio ufficio assunto trent’anni prima, già sotto il Patriarca caldeo Paul II Cheikho, mantenendolo nel tempo del Patriarca Bidawid.
 Il Patriarcato di Delly è coinciso con uno dei periodi più difficili della storia recente delle comunità cristiane irachene, facili vittime degli estremismi scatenati nel regolamento di conti tra sunniti e sciiti. Sono stati gli anni dell’occupazione a guida statunitense, degli attentati alle chiese, dei rapimenti, delle operazioni di “pulizia confessionale” subite dai quartieri cristiani di Baghdad e di Mossul, della fuga di massa verso la Siria, il Libano e i Paesi occidentali. In alcuni casi è riapparsa anche la turpe tassa della “al-jezia” imposta da bande criminali alle famiglie cristiane come pedaggio per non essere massacrate o cacciate dalle proprie case. Il seminario a Baghdad è stato trasferito a nord per motivi di sicurezza. Lo stesso è accaduto al Babel College, la Pontificia Facoltà di Filosofia e Teologia, trasformata in una caserma statunitense senza il consenso del Patriarcato. «Gruppi iracheni cristiani – scriveva il politologo analista statunitense Glenn Clancy già nell’aprile 2004 -   hanno definito le politiche dell’amministrazione Bush in Iraq come una “perfida cospirazione”. È probabile che questa perfidia condurrà all’estinzione di una delle più antiche nazioni cristiane nel mondo nella sua stessa terra madre».
La Chiesa caldea non si è estinta. Ma da alcuni dei vescovi iracheni, la leadership del Patriarca non è stata giudicata all’altezza di una situazione così complicata e dolorosa. Nel giugno 2007 i 5 vescovi caldei del Nord sono arrivati a disertare un'assemblea del sinodo, e un mese dopo hanno pubblicato un comunicato per spiegare il loro boicottaggio e denunciare la «condizione insana» in cui appariva relegata ai loro occhi tutta la vita pastorale e la vivacità apostolica delle comunità caldee. «Le nostre diocesi» scrivevano tra l’altro i vescovi sottoscrittori dell’appello «sono piccole e si basano sull’improvvisazione. Miopi considerazioni personalistiche portano alla scelta di persone indegne per ruoli importanti, indebolendo la sua unità, testimonianza, attività pastorale e istituzioni». Nel comunicato veniva richiamata l'alta spiritualità, la buona reputazione, la solida cultura e apertura che devono connotare i candidati all'episcopato. E si respingevano i ricorrenti progetti di concentrare le comunità cristiane irachene sotto il “safe heaven” della Piana di Niniveh, «perchè tutto l'Irak è la nostra Patria e noi dobbiamo vivere insieme con i nostri concittadini in pace ed armonia».
 Se da un lato i piani di ghettizzazione sistematica nella Piana di Niniveh non si sono finora realizzati, negli ultimi anni si è registrato un consistente trasferimento delle comunità e delle centrali pastorali caldee prima dislocate nei grossi centri urbani come Baghdad e Bàssora fin nelle aree settentrionali del Kurdistan iracheno, relativamente più tranquille. Così ora la Chiesa caldea deve fare i conti anche con il braccio di ferro politico-militare in atto tra il governo centrale e le istanze centrifughe dell'amministrazione autonoma regionale del Kurdistan. Non mancano segnali di vivacità e di perdurante fedeltà alle proprie tradizioni, come l'inizio dei lavori per costruire una università cattolica a Ankawa, nei sobborghi di Erbil - dove già era stato ricollocato il Babel College – o il rifiuto opposto da molti politici assiri e caldei davanti alle proposte ventilate di istituire milizie armate confessionali a difesa delle rispettive comunità etniche e religiose. Nei pronunciamenti ufficiali, i leader politici delle diverse parti in lotta riconoscono e apprezzano l'apporto costruttivo e stabilizzante che le comunità cristiane possono offrire alla tormentata e incerta tenuta politica e sociale del Paese. Qualche giorno fa lo stesso premier sciita Al Maliki ha intimato ai Paesi dell'Unione europea di non favorire l'emigrazione dei cristiani iracheni, e ha raccontato di aver chiesto a Benedetto XVI un intervento per esortare e aiutare le Chiese autoctone irachene a rimanere radicate nelle terre in cui sono nate dalla predicazione apostolica.
Di tutto questo dovrà tener conto il nuovo Patriarca, coniugando rinnovata sensibilità pastorale e uno sguardo attento a cogliere tutti i fattori che si muovono in uno  scenario regionale incerto e fluido. Sulla scelta peseranno diverse varianti: il ruolo giocato dai vescovi più vicini a Delly, dal vescovo Jammo e dalle comunità della diaspora, dove molti si autoproclamano paladini dell'identità culturale e liturgica caldea; le iniziative dell'iperattivo arcivescovo di Kirkuk Louis Sako e dei vescovi più giovani come Bashar Warda, titolare della sede “in ascesa” di Erbil; i consensi che potranno ancora essere raccolti dal siriano Audo, che anche come presidente di Caritas Siria condivide giorno per giorno la tragedia vissuta dal suo popolo.