"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

7 marzo 2016

L'Iraq travolto da Is, crisi politica ed economica

By Radiovaticana
Roberta Gisotti
 
Un nuovo sanguinoso attentato di matrice jihadista - oltre 60 morti  e decine i feriti - ieri nella città di Hilla, un centinaio di chilometri a sud di Baghdad, riporta l’Iraq in primo piano nell’infuocato scenario mediorientale e asiatico, dove massima attenzione è posta, anche giustamente, sulla Siria. Roberta Gisotti ha intervistato Paolo Maggiolini, analista dell’Ispi-Istituto per gli studi di politica internazionale:
 Dott. Maggiolini, possiamo dire che l’Iraq è un po’ dimenticata dalle diplomazie internazionali rispetto alla Siria?
Io credo che dal punto di vista della comunità internazionale l’attenzione sull’Iraq in realtà ci sia. È in corso da mesi l’operazione per espellere il cosiddetto Stato islamico dal territorio iracheno. Sappiamo che nel novembre 2015 è stata liberata Sinjar, dando avvio a questa operazione per tagliare le linee di rifornimento a Mossul e quindi alle varie postazioni dello Stato islamico in Iraq. Si è poi proseguito nel corso dei mesi fino anche a liberare la città di Ramadi nel febbraio scorso. In questo momento, si sta discutendo quale sarà la strategia migliore e le varie operazioni necessarie per arrivare poi alla sede di Mossul e alla liberazione della città, tutt’altro che semplice. È anche per questo che bisognerà mantenere l’attenzione sul Paese. Dall’altra parte, quello che abbiamo visto ieri, e che poi in realtà è parte di altri fatti terroristici che si sono susseguiti nell’ultimo periodo, è probabilmente la reazione dello Stato islamico che cerca di distrarre un po’ le forze e impedire questa concentrazione contro le postazioni più strategiche.
L’Iraq oggi è un Paese travolto dalla lotta all’Is, dalle difficoltà economiche e dalla crisi politica…
Sicuramente. Il problema si pone su molti livelli. Da un certo punto di vista, l’Is stesso ha potuto svilupparsi all’interno dell’Iraq insinuandosi nelle varie pieghe e fratture del Paese. Quindi, l’operazione militare in sé ha un significato politico molto forte riguardo a come verranno gestite la presenza e l’attività delle milizie sciite, a chi effettivamente verrà coinvolto nella liberazione dei territori, con quale patto politico si prometterà o si riuscirà ad avere questo supporto. Dall’altra parte, il rapporto tra il governo centrale e l’Unione del Kurdistan rimane sempre problematico. E su questa linea c’è tutta la questione effettiva di come vengono ripartiti i fondi e le finanze dello Stato centrale. Quindi, in realtà la situazione è tutt’altro che semplice e la questione militare non risolve semplicemente il problema che è prettamente politico, come è all’origine di questa crisi.
 Uno scenario completamente aperto. Gli interrogativi sono ancora tutti lì, da avere una risposta…
Lo scenario è aperto. Purtroppo, ci porta a come si intende definire e mantenere lo Stato iracheno, quindi il rapporto tra le sue diverse anime ed interessi tra il governo centrale e le varie istanze locali. È chiaramente all’interno di questo contesto che anche la presenza jihadista si è potuta inserire, ha beneficiato delle fratture e delle incomprensioni. Quindi, una volta risolta la questione militare – non facile perché chiaramente riprendere Mossul è complesso anche in termini di costi, che questa operazione richiederà – c’è anche tutta la questione politica che già adesso vediamo, che ben si conosce e che chiaramente impiegherà le energie più importanti.