By Vatican News
Fabio Colagrande
L’Iraq insanguinato da oltre due mesi di rivolte popolari, che dal primo ottobre hanno causato almeno 420 morti e oltre 17mila feriti, vive ora una grave crisi politica. Domenica 1° dicembre il Parlamento ha accettato le dimissioni del governo guidato dal premier Adel Abdel Mahdi, che sperava così di calmare la rabbia delle piazze, ma violenti scontri tra polizia e dimostranti sono continuati da Baghdad ai maggiori centri urbani del Sud, come Nassiriya, Najaf, Kerbala, Kut e Bassora. I manifestanti considerano infatti tardiva e insufficiente la caduta del governo e chiedono le dimissioni dell’intera classe politica irachena per attuare un radicale cambiamento sociale ed economico. La sostituzione del premier era stata già auspicata dal grande ayatollah Ali Sistani, la più alta autorità sciita del Paese. Papa Francesco, domenica nel dopo Angelus, aveva invocato “pace e concordia” per l’Iraq affermando di avere “appreso con dolore che le manifestazioni di protesta dei giorni scorsi” avevano “ricevuto una dura reazione, che ha causato decine di vittime”. Sulle radici delle proteste popolari nel Paese, Radio Vaticana Italia ha intervistato Younis Tawfik, scrittore e giornalista iracheno, in Italia dal 1979.
La coscienza dei giovani e del popolo iracheno si è risvegliata finalmente dopo quasi 16 anni di sottomissione a regimi che non hanno fatto nulla per questo Paese, ma lo hanno anzi lasciato al suo destino, al degrado, pensando soltanto al loro benessere mentre la stragrande maggioranza del popolo iracheno vive nella miseria più assoluta. Le persone non trovano quasi il pane per mangiare, i giovani cercano patria, non sentono di avere una patria. Poi i laureati che non trovano lavoro, che fanno la fila davanti agli uffici di collocamento... Corruzione e clientelismo sono assoluti: se non sei iscritto a un partito, non riesci ad avere un lavoro. E così anche per quanto riguarda la sanità: i governanti non hanno costruito neanche un ospedale... Le scuole... Tutto quello che oggi esiste In Iraq risale a prima del 2003. Oggi questi giovani - i rivoltosi, ovviamente - sono accusati di appartenere al partito Ba’th e di essere una scia del regime di Saddam; ma in realtà spesso non sanno neanche chi fosse Saddam, sono nati dopo. Si sono ribellati perché si sono trovati senza patria.
Fabio Colagrande
L’Iraq insanguinato da oltre due mesi di rivolte popolari, che dal primo ottobre hanno causato almeno 420 morti e oltre 17mila feriti, vive ora una grave crisi politica. Domenica 1° dicembre il Parlamento ha accettato le dimissioni del governo guidato dal premier Adel Abdel Mahdi, che sperava così di calmare la rabbia delle piazze, ma violenti scontri tra polizia e dimostranti sono continuati da Baghdad ai maggiori centri urbani del Sud, come Nassiriya, Najaf, Kerbala, Kut e Bassora. I manifestanti considerano infatti tardiva e insufficiente la caduta del governo e chiedono le dimissioni dell’intera classe politica irachena per attuare un radicale cambiamento sociale ed economico. La sostituzione del premier era stata già auspicata dal grande ayatollah Ali Sistani, la più alta autorità sciita del Paese. Papa Francesco, domenica nel dopo Angelus, aveva invocato “pace e concordia” per l’Iraq affermando di avere “appreso con dolore che le manifestazioni di protesta dei giorni scorsi” avevano “ricevuto una dura reazione, che ha causato decine di vittime”. Sulle radici delle proteste popolari nel Paese, Radio Vaticana Italia ha intervistato Younis Tawfik, scrittore e giornalista iracheno, in Italia dal 1979.
La coscienza dei giovani e del popolo iracheno si è risvegliata finalmente dopo quasi 16 anni di sottomissione a regimi che non hanno fatto nulla per questo Paese, ma lo hanno anzi lasciato al suo destino, al degrado, pensando soltanto al loro benessere mentre la stragrande maggioranza del popolo iracheno vive nella miseria più assoluta. Le persone non trovano quasi il pane per mangiare, i giovani cercano patria, non sentono di avere una patria. Poi i laureati che non trovano lavoro, che fanno la fila davanti agli uffici di collocamento... Corruzione e clientelismo sono assoluti: se non sei iscritto a un partito, non riesci ad avere un lavoro. E così anche per quanto riguarda la sanità: i governanti non hanno costruito neanche un ospedale... Le scuole... Tutto quello che oggi esiste In Iraq risale a prima del 2003. Oggi questi giovani - i rivoltosi, ovviamente - sono accusati di appartenere al partito Ba’th e di essere una scia del regime di Saddam; ma in realtà spesso non sanno neanche chi fosse Saddam, sono nati dopo. Si sono ribellati perché si sono trovati senza patria.
Dopo le dimissioni del primo ministro, il parlamento domenica ha
approvato questo passaggio e ora spetta al Presidente Barham Salih
nominare un nuovo premier. Ma la rabbia della piazza non sembra essersi
placata...
No, anche perché ci sono stati massacri e la gente vuole
giustizia. Le dimissioni di Mahdi non risolvono nulla anche perché il
Parlamento resta lo stesso. Il prossimo premier lo sceglieranno
nuovamente tra di loro, per cui la gente sa che non cambierà niente.
Bisogna trovare un governo di transizione fatto di tecnocrati, che non
appartengono ai partiti, che portino avanti il Paese fino alle prossime
elezioni. È l’unico modo per poter calmare la piazza. Ma il problema
maggiore è che l’Iraq come la maggioranza dei Paesi arabi è costituita
da tribù e queste chiedono giustizia ma il loro modo di chiederla è
secondo lo stile “occhio per occhio”. Sono scesi nelle piazze con le
armi e questo purtroppo minaccia di far scoppiare una guerra civile.
Qual è il ruolo che stanno avendo i cristiani in questo momento così difficile per il Paese?
Volevo ringraziare ed elogiare la presa di posizione del
Patriarca e dei cristiani iracheni che sono scesi in piazza chiedendo
alla Madonna di proteggere i manifestanti in piazza Tahrir a Baghdad. E
questo è stato un gesto molto apprezzato dalla stragrande maggioranza
del popolo iracheno perché finalmente i cristiani hanno preso possesso
della loro terra natale e hanno partecipato attivamente per dare una
mano ai manifestanti in modo pacifico, dimostrando di essere veri
iracheni.
L’unica speranza per l’Iraq sembra essere dunque la strada verso nuove elezioni?
Questo risolverà una parte del problema perché comunque i
partiti che oggi sono al parlamento perderanno il loro potere e questo
potrà almeno cambiare qualcosa nella costituzione del prossimo governo.