By SIR
Daniele Rocchi
“Per lottare contro un cancro, operare è una delle prime cose da fare. Ma poi viene il tempo della cura e della riabilitazione. Lo stesso potrebbe valere nel caso dell’Iraq. L’opzione militare è necessaria ma non deve andare da sola. Essa deve essere accompagnata dal dialogo, dalla riconciliazione politica, dalla pacificazione delle comunità coinvolte. Da sole le armi non bastano”.
Lo Stato islamico nelle parole dell’arcivescovo caldeo di Erbil, monsignor Bashar Matti Warda, che da quel 2 agosto del 2014, quando i primi profughi in fuga da Mosul, per sfuggire alla furia dei miliziani dell’Isis, “bussarono alle porte dell’episcopio”, si adopera per la loro accoglienza. La storia drammatica di quei giorni riferisce che in 24 ore 120mila persone arrivarono nella capitale del Kurdistan iracheno. Una vera e propria emergenza umanitaria che continua, come racconta oggi l’arcivescovo, che si trova in Italia su invito di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs). La domanda dei rifugiati, oggi come allora, è sempre la stessa: “Quando finisce questa tragedia e possiamo tornare alle nostre case, chiese e luoghi?”. Difficile prevederlo. “Il problema - ammette mons. Warda - è che non ci sono interlocutori. Nello Stato islamico non ne esistono, non c’è nessuno che possa o voglia negoziare, e questo va considerato. Nonostante ciò, l’opzione militare resta solo una parte del pacchetto politico di soluzioni del problema”. Che intanto resta sul terreno e ha i volti di decine di migliaia di rifugiati. Per loro l’opera dell’arcivescovo non si è mai interrotta.
Daniele Rocchi
“Per lottare contro un cancro, operare è una delle prime cose da fare. Ma poi viene il tempo della cura e della riabilitazione. Lo stesso potrebbe valere nel caso dell’Iraq. L’opzione militare è necessaria ma non deve andare da sola. Essa deve essere accompagnata dal dialogo, dalla riconciliazione politica, dalla pacificazione delle comunità coinvolte. Da sole le armi non bastano”.
Lo Stato islamico nelle parole dell’arcivescovo caldeo di Erbil, monsignor Bashar Matti Warda, che da quel 2 agosto del 2014, quando i primi profughi in fuga da Mosul, per sfuggire alla furia dei miliziani dell’Isis, “bussarono alle porte dell’episcopio”, si adopera per la loro accoglienza. La storia drammatica di quei giorni riferisce che in 24 ore 120mila persone arrivarono nella capitale del Kurdistan iracheno. Una vera e propria emergenza umanitaria che continua, come racconta oggi l’arcivescovo, che si trova in Italia su invito di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs). La domanda dei rifugiati, oggi come allora, è sempre la stessa: “Quando finisce questa tragedia e possiamo tornare alle nostre case, chiese e luoghi?”. Difficile prevederlo. “Il problema - ammette mons. Warda - è che non ci sono interlocutori. Nello Stato islamico non ne esistono, non c’è nessuno che possa o voglia negoziare, e questo va considerato. Nonostante ciò, l’opzione militare resta solo una parte del pacchetto politico di soluzioni del problema”. Che intanto resta sul terreno e ha i volti di decine di migliaia di rifugiati. Per loro l’opera dell’arcivescovo non si è mai interrotta.
Portare sollievo alle famiglie.
“Cerchiamo di portare sollievo materiale a questi rifugiati, a queste
famiglie che ormai non hanno più nulla. Vivono di carità, quando meno di
un anno fa, vivevano nelle loro case, sostenendosi da sole”.
“Tredicimila famiglie” costrette a fuggire a Erbil dai loro villaggi
solo perché “hanno scelto di rimanere cristiane”. “In questi mesi siamo
riusciti a liberare strutture e scuole pubbliche che subito dopo
l’ondata di rifugiati della scorsa estate erano servite come luoghi di
immediata accoglienza. Ora molti alloggiano nei 680 caravan di cui siamo
dotati, suddivisi in tre campi mentre un quarto è in corso di
allestimento dentro la zona cristiana di Ankawa, con altri 1000 caravan.
Abbiamo anche un programma con il governo di Erbil, per fornire venti
appartamenti a gruppi familiari composti dai dodici ai 14 membri. La
Chiesa pagherà per loro l’affitto mensile mentre le spese di acqua e
elettricità saranno pagate dalle famiglie stesse”. Un modo per motivare i
membri familiari così che riprendano fiducia e speranza. “Abbiamo
infatti visto - spiega l’arcivescovo caldeo - che una volta passati ad
abitare in una casa le persone sono più motivate a trovare un lavoro e a
darsi da fare per migliorare la loro condizione e ritrovare dignità”.
Sin dall’inizio della sua missione, mons. Warda ha potuto contare anche
sull’aiuto dei tre vescovi di Mosul che dopo la caduta della città nelle
mani dell’Isis si sono prodigati per le loro comunità e poi anche sul
sostegno delle Caritas, di associazioni come Aiuto alla Chiesa che
soffre (Acs) e Missio e di Chiese come quella italiana che, sottolinea
il presule, “ha coraggiosamente assunto l’impegno di realizzare
un’università cattolica a Erbil. Un’istituzione che offrirà a molti
nostri giovani, anche musulmani, una chance per guardare al futuro con
più speranza. L’educazione permette di far crescere una nuova
generazione di giovani e di leader pieni di voglia di giustizia”. Un
aiuto che va a sommarsi a quello di Acs che ha finanziato un piano di
aiuti di 4 milioni di euro, soldi “che ci permettono di garantire il
pagamento dell’affitto delle case fino alla fine dell’anno” e di Missio,
che ha offerto 300mila euro. Nessuno resta escluso dall’onda della
solidarietà. Ne sanno qualcosa le 52 famiglie yazide ospitate a Erbil.
“Provvediamo con cibo e medicine cercando di aiutare tutti i rifugiati
presenti nella zona. Anche sciiti e sunniti. Qui soffriamo tutti.” “Un
grido che - afferma mons. Warda - pressa la comunità internazionale a
lavorare per evitare la frammentazione del paese e per dare un futuro di
riconciliazione. Il grido dei cristiani è forte. Sono tra i più
vulnerabili e la loro fuga dall’Iraq sarebbe un vero disastro per il
nostro Paese”.
L’odore della sofferenza. A Erbil “l’odore che si sente tra la gente, tra i fedeli cristiani è quello della sofferenza. Lo sento mentre sono tra loro - racconta l’arcivescovo - tra la gente che ancora dorme all’aperto, nei giardini, senza un tetto. Uomini, donne, bambini, anziani, disabili. Importante è restare loro vicino, condividere il loro dolore, anche se la soluzione ai loro problemi appare lontana”. Resta salda la fede, “nonostante tutto. Tra loro ci sono sacerdoti e religiose che li assistono. Cerchiamo sempre di trovare case dove i nostri fedeli possano vivere vicini in modo da creare una comunità ecclesiale ed organizzarci in questo modo”. Il desiderio nemmeno troppo celato dei cristiani di Erbil è quello di accogliere Papa Francesco. “È il nostro grande desiderio, nutriamo una grande speranza e non solo i cristiani. Ci sono tuttavia vari aspetti pratici che ritardano questa visita in modo particolare quelli legati alla sicurezza. Sarebbe per noi un grande sostegno e darebbe alla nostra comunità una grande dignità e forza per andare avanti con fede. Le sue parole ci consolano soprattutto adesso, nel momento della persecuzione”.
L’odore della sofferenza. A Erbil “l’odore che si sente tra la gente, tra i fedeli cristiani è quello della sofferenza. Lo sento mentre sono tra loro - racconta l’arcivescovo - tra la gente che ancora dorme all’aperto, nei giardini, senza un tetto. Uomini, donne, bambini, anziani, disabili. Importante è restare loro vicino, condividere il loro dolore, anche se la soluzione ai loro problemi appare lontana”. Resta salda la fede, “nonostante tutto. Tra loro ci sono sacerdoti e religiose che li assistono. Cerchiamo sempre di trovare case dove i nostri fedeli possano vivere vicini in modo da creare una comunità ecclesiale ed organizzarci in questo modo”. Il desiderio nemmeno troppo celato dei cristiani di Erbil è quello di accogliere Papa Francesco. “È il nostro grande desiderio, nutriamo una grande speranza e non solo i cristiani. Ci sono tuttavia vari aspetti pratici che ritardano questa visita in modo particolare quelli legati alla sicurezza. Sarebbe per noi un grande sostegno e darebbe alla nostra comunità una grande dignità e forza per andare avanti con fede. Le sue parole ci consolano soprattutto adesso, nel momento della persecuzione”.