Rossella Fabiani
C’è un’atmosfera di amicizia sul pulmino che sta attraversando la piana di Ninive per portarci ad Alqosh a visitare il monastero caldeo di Rabban Ormisda. Sono in Iraq. Nell’antica Mesopotamia. E di colpo i libri letti, i testi tradotti, i manuali consumati sono annullati dalla vista di questa terra che svela, senza bisogno di mediazioni, tutta la sua storia, le sue genti e i pellegrini che l’hanno attraversata. Lei è ancora lì. Immobile. E accogliente. Pur tra tanto dolore. Ma uno spirito di fratellanza pervade ogni cosa. Nonostante il male l’abbia attraversata molte volte nella storia. Perché dal dolore può nascere la misericordia.
Sono venuta qui da sola nonostante tutti mi dicessero è pericoloso, dove vai? Avevo paura all’inizio. E invece è stata una benedizione poter andare.
Lasciamo la pianura e cominciamo a salire una serie di tornanti, sempre più in alto fino in cima dove, scavato nelle rocce della montagna, finalmente vediamo il monastero di Rabban Ormisda che appartiene alla Chiesa cattolica caldea.
Fu fondato intorno al 640 da Rabban Ormisda venerato come santo nella tradizione sia nestoriana che cattolica della Chiesa d’Oriente. Rabban significa monaco nell’antica lingua siriaca.
Il monastero si trova a circa tre chilometri dal villaggio cristiano di Alqosh, che è a 45 chilometri da Mosul e a una settantina di chilometri da Qaraqosh, la più grande città cristiana dell’Iraq.
Alqosh è un piccolo villaggio abitato da sempre solo da assiri e siriaci cristiani.
Ho visto diversi villaggi cristiani viaggiando per il nord dell’Iraq. Ma questo è il più famoso perché è pieno di antiche chiese e ha persino un chiostro. Questo antichissimo luogo — menzionato per la prima volta in un’iscrizione muraria nel palazzo di Sennacherib risalente agli inizi del VII secolo avanti Cristo — è uno dei principali centri del cristianesimo assiro-caldeo.
Il monastero di Rabban Ormisda, che è stato sede dei patriarchi nestoriani dal 1551 al 1804, era definito il Vaticano dell’Iraq e ancora oggi è visitato dai pellegrini che venerano la grotta con gli anelli al soffitto ai quali, secondo la tradizione, l’eremita legava la barba e i capelli così da non addormentarsi e praticare la preghiera del cuore.
Il sole illumina il monastero, tutto il paesaggio è invaso da una luce bellissima. Un piccolo campanile si erge solitario poco distante. Ricordava alla gente dei villaggi della pianura le ore della preghiera e scandiva la giornata del monastero. Uso il verbo al passato perché oggi il monastero — che un tempo accoglieva una nutrita comunità monastica che seguiva la regola cenobitica, con alcuni monaci che avevano invece scelto quella anacoretica vivendo in grotte scavate nella montagna — è in stato di abbandono dopo essere stato saccheggiato dall’Is nel 2013.
È un luogo del silenzio. «Per noi cristiani questo monastero fa ricordare il passato, come era la Chiesa unita, una Chiesa di milioni di persone», mi dice padre Salar cattolico caldeo che mi accompagna all’interno della chiesa dove mi inginocchio davanti all’altare di pietra e all’icona di Rabban Ormisda. Poi raggiungo la cella del santo monaco Ormisda e attraverso il corridoio dove ci sono le pietre tombali di nove patriarchi della Chiesa assira d’Oriente.
È dal monastero di Alqosh — che racconta quasi quindici secoli di storia del cristianesimo siriaco — che nel 1551 si avvia il processo di unione con Roma da cui è nato il patriarcato siro-cattolico che si stabilì ad Amida, oggi Diyarbakir. Nel 1845 Gregorio XVI approva la regola dell’ordine antoniano di Sant’Ormisda dei Caldei. E sempre qui una preziosa biblioteca conservava i testi fondativi della Chiesa siriaca, redatti in siriaco, una lingua semitica con caratteri e radici simili all’ebraico, praticata dai popoli che pregano in aramaico, la lingua di Gesù e del Talmud. Ma, soprattutto, in questo monastero fu redatto un prezioso manoscritto che contiene la storia conciliare dei primi sette secoli del cristianesimo siriaco e delle Chiese collocate fuori dall’impero bizantino, portatrici di un dinamismo missionario che era arrivato a predicare il Vangelo in Cina già nel VI secolo. Un testo oggi conservato in un luogo segreto e che in pochissimi hanno visto. Quando infatti, nel 1902, Jean-Baptiste Chabot, prete di Tour di formazione lovaniense e poi studioso all’Ecole pratique di Parigi, fece l’edizione critica del Synodicon orientale lavorò su due copie di questo manoscritto. Nel tempo i monaci del monastero si trasferirono in pianura vicino al villaggio di Alqosh dove fu costruito un nuovo monastero, Notre Dame des Semences.
Fino al completo abbandono dopo gli assalti dell’Is.
Oggi l’antico monastero rimane un luogo di pellegrinaggio e di preghiera. Fuori, tutte intorno, ci sono le grotte scavate nella montagna dove vivevano gli eremiti.
Un’incisione nella roccia recita «i semplici erediteranno la terra» è una delle Beatitudini. «Questo luogo rappresenta il passato della nostra gente, ma anche il futuro perché i cristiani qui ci sono sempre stati e continueranno a esserci», mi dice padre Salar. In un’altra iscrizione nella roccia leggo «mano nella mano per costruire il Paese» questo dovrebbe essere l’Iraq, è la speranza di padre Salar.
Nel silenzio che lo circonda questo luogo appare appoggiato all’azzurro del cielo mentre dall’alto osserva la piana di Ninive che si mostra in tutta la sua potente fertilità dove il verde dei campi racconta una prosperità millenaria e contesa, attraversata dai grandi imperi assiri, dai tanti simboli religiosi, dalle civiltà giuridiche, dalle antiche lingue diventate scrittura, dalla crudeltà dei potenti e dalla speranza di rivincita del povero di cui parla il profeta Naum che ad Alqosh, in mezzo alle vecchie case del villaggio, ha la sua tomba.
Due sono le strade principali di questa regione. Una più grande che va dalla Turchia a Zakko e di lì a Erbil e giù fino Baghdad, l’altra, più piccola, che corre perpendicolare e va da Alqosh verso Mosul, attraversando una serie di villaggi che hanno visto l’avanzata di Daesh che è giunto fino a Teleskof, a venti chilometri da questo monastero, dove vive padre Salar che ha studiato con me al Pontificio Istituto Orientale a Roma.