By Tempi
Simone Cantarini
Quello dell’Iraq è un popolo «unito dalla sofferenza».
È questa l’immagine fornita a Tempi da monsignor Thabet Habib Yousif Al Mekko, vescovo dell’eparchia caldea di Alqosh, città situata nella piana di Ninive a nord di Mosul, della situazione del Paese a 20 anni dall’operazione Iraqi Freedom (Oif) condotta dagli Stati Uniti nel 2003 per rovesciare il regime di Saddam Hussein, la cui caduta e il caos che ne seguì aprirono le porte all’estremismo islamico e il terrorismo prima di Al Qaeda e poi dello Stato islamico. La devastazione della guerra e l’insurrezione che a partire dal 2006 si trasformò in guerra civile hanno decimato la popolazione cristiana, facendo quasi sparire alcune tra le comunità più antiche del mondo.
È questa l’immagine fornita a Tempi da monsignor Thabet Habib Yousif Al Mekko, vescovo dell’eparchia caldea di Alqosh, città situata nella piana di Ninive a nord di Mosul, della situazione del Paese a 20 anni dall’operazione Iraqi Freedom (Oif) condotta dagli Stati Uniti nel 2003 per rovesciare il regime di Saddam Hussein, la cui caduta e il caos che ne seguì aprirono le porte all’estremismo islamico e il terrorismo prima di Al Qaeda e poi dello Stato islamico. La devastazione della guerra e l’insurrezione che a partire dal 2006 si trasformò in guerra civile hanno decimato la popolazione cristiana, facendo quasi sparire alcune tra le comunità più antiche del mondo.
Da un milione a 300 mila cristiani in vent’anni
«Dopo 20 anni dall’invasione degli Stati Uniti, in Iraq la situazione dei cristiani è questa: da oltre un milione siamo diminuiti a 300.000, cristiani di tutte le confessioni e le chiese. Al nord avevano una vita tranquilla. Facevamo parte di questa realtà. I cristiani erano tanti anche a Baghdad, vivevano in buoni quartieri e case confortevoli e avevano buone posizioni lavorative», racconta a Tempi il vescovo di Alqosh.
«Ora il numero è drasticamente diminuito e tanti sono fuggiti, minacciati dalle milizie e dai gruppi di terroristi che li hanno costretti ad abbandonare le loro abitazioni e il Paese. Chi aveva una buona posizione lavorativa è stato costretto ad abbandonarla in favore di altri», afferma il prelato, che è stato ordinato sacerdote nel 2008 e che ha iniziato il suo apostolato proprio a Mosul, considerata la “città martire” dei cristiani iracheni dopo la sua occupazione nel giugno 2014 da parte dello Stato islamico che la scelse come capitale del suo autoproclamato califfato.
«Dalla piana di Ninive tanti cristiani sono fuggiti e le loro terre sono state spartite», racconta monsignor Al Mekko, precisando che nell’area sono presenti ancora, nonostante la sconfitta territoriale dello Stato islamico nel 2017, gruppi armati, milizie e tensioni.
Nella regione autonoma del Kurdistan, secondo il prelato, i cristiani «stanno meglio», ma anche in questo caso persistono situazioni di soprusi, con esponenti della minoranza religiosa che da anni attendono di poter assistere alla restituzione delle proprie terre.
Nella regione autonoma del Kurdistan, secondo il prelato, i cristiani «stanno meglio», ma anche in questo caso persistono situazioni di soprusi, con esponenti della minoranza religiosa che da anni attendono di poter assistere alla restituzione delle proprie terre.
Povertà e corruzione in Iraq
Tuttavia, il prelato ricorda che non è possibile parlare delle sofferenze dei cristiani senza considerare quanto ha patito e sta ancora patendo tutta la popolazione dell’Iraq che dal 2003 al 2019 ha pagato il prezzo di ben 300.000 morti per attacchi terroristici, esplosione di ordigni, raid aerei. «La corruzione sta distruggendo il Paese», ammette il vescovo di Alqosh, ricordando che «tanti sono i disoccupati», situazione che «riguarda soprattutto i cristiani giovani che cercano lavoro».
Secondo stime delle Nazioni Unite, circa un terzo della popolazione irachena vive in povertà. Nel Paese i servizi pubblici sono in gran parte assenti. Inoltre l’Iraq, pur essendo il secondo produttore dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) e il quinto al mondo, deve importare gas ed elettricità dall’Iran e soffre di continui blackout elettrici, soprattutto durante l’estremo caldo estivo. Proprio a causa della corruzione dilagante e della crisi economica persistente, nell’ottobre del 2019 l’Iraq ha assistito alle più grandi manifestazioni della sua storia recente poi divenute note come il movimento Tishreen.
Nonostante si siano succeduti ben tre governi – Adil Abdul Mahdi, Mustafa al Kadhimi, Mohammed Shia al Sudani – il nepotismo e la corruzione rimangono diffusi in Iraq, dove posti ambiti in un settore statale gonfio sono spesso ottenuti attraverso legami personali.
«Oggi c’è tanta corruzione in tutti i settori», racconta monsignor Al Mekko. «Per avere una carta di identità devi pagare. Tanti vanno a lavorare e cercano un lavoro, ma vogliono solo prendere i soldi. Girano notizie secondo cui gli impiegati iracheni fanno dieci minuti di lavoro ogni giorno. La mentalità ormai è questa: avere un lavoro, un salario e basta. Anche se non fai nulla, se non hai una laurea e magari hai falsificato un certificato», osserva il prelato.
«Oggi c’è tanta corruzione in tutti i settori», racconta monsignor Al Mekko. «Per avere una carta di identità devi pagare. Tanti vanno a lavorare e cercano un lavoro, ma vogliono solo prendere i soldi. Girano notizie secondo cui gli impiegati iracheni fanno dieci minuti di lavoro ogni giorno. La mentalità ormai è questa: avere un lavoro, un salario e basta. Anche se non fai nulla, se non hai una laurea e magari hai falsificato un certificato», osserva il prelato.
Iraq, un paese multietnico e multireligioso
Monsignor Al Mekko ricorda come l’Iraq sia un Paese multietnico e multireligioso. Nel Paese, i due gruppi etnici più importanti sono gli arabi (tra il 75 l’80 per cento degli abitanti) e curdi (15-20 per cento). Il 95-98 per cento della popolazione è musulmana divisa tra sciiti, (circa il 65 per cento) e sunniti (circa il 30 per cento). Le minoranze etniche e religiose costituiscono fino al 5 per cento della popolazione: turkmeni, yazidi, cristiani, shabak, kaka’i, sabei-mandai, baha’i.
«L’Iraq è composto da tanti gruppi religiosi ed etnici. Vi è una buona relazione ora, ma abbiamo assistito a una guerra religiosa tra sunniti e sciiti», ricorda Al Mekko citando la devastante guerra intra-religiosa culminata con la nascita dello Stato islamico e che ha visto la popolazione maggioritaria sciita, ma anche le minoranze, a costituire milizie in armi.
«L’Iraq è composto da tanti gruppi religiosi ed etnici. Vi è una buona relazione ora, ma abbiamo assistito a una guerra religiosa tra sunniti e sciiti», ricorda Al Mekko citando la devastante guerra intra-religiosa culminata con la nascita dello Stato islamico e che ha visto la popolazione maggioritaria sciita, ma anche le minoranze, a costituire milizie in armi.
Che cosa unisce il popolo dell’Iraq
«L’Isis era un gruppo religioso fanatico e i suoi adepti erano contro chi non era come loro, secondo la loro confessione religiosa», ricorda il prelato che facendo riferimento alle divisioni, osserva che è spesso l’agenda politica a muovere questi problemi: «il popolo non ha questa idea, ma viene realizzata da gruppi fanatici che usano questi metodi per mantenere la loro identità, usano questa carta per controllare». Nell’estate del 2014, le bandiere nere dell’autoproclamato califfato di Abu Bakr al Baghdadi dilagarono nella piana di Ninive conquistando i centri abitati e obbligando i cristiani a una scelta: la conversione, il pagamento della jizya (la tassa per i non musulmani) o l’esilio.
Le immagini di Qaraqosh, la più grande città cristiana dell’Iraq che ospitava una popolazione ben 50.000 persone, completamente deserta nell’agosto del 2014, descrivono il dramma di quegli anni, ben tre, in cui lo Stato islamico occupò il nord dell’Iraq, minacciando anche la regione autonoma del Kurdistan, dove trovarono rifugio cristiani, yazidi altre minoranze e i musulmani sunniti che non volevano sottostare a quel regime terroristico.
Parlando della situazione della popolazione irachena oggi, a distanza di tutte queste devastazioni, monsignor Al Mekko afferma: «L’unità del popolo iracheno, c’è, perché tutto il popolo sta soffrendo, e questa cosa unisce il popolo».
Per il prelato la distruzione del Paese e la sofferenza degli iracheni va arretrata di ulteriori 12 anni, al 1991, anno della Prima guerra del Golfo e dei successivi anni di sanzioni, fatto che rende ancora più profonda e complessa la ripartenza. «Abbiamo bisogno di molti anni per ricostruire», afferma il vescovo di Alqosh.
Per il prelato la distruzione del Paese e la sofferenza degli iracheni va arretrata di ulteriori 12 anni, al 1991, anno della Prima guerra del Golfo e dei successivi anni di sanzioni, fatto che rende ancora più profonda e complessa la ripartenza. «Abbiamo bisogno di molti anni per ricostruire», afferma il vescovo di Alqosh.