Lorenzo Vita
I cristiani della Piana di Ninive, in Iraq, tornano lentamente a casa. Dopo gli anni durissimi vissuti sotto le bandiere nere
dello Stato islamico, la vita torna a scorrere. Le famiglie, dai campi
profughi, hanno scelto la via del rientro. Una strada non facile, dove
la speranza si unisce anche al senso di pericolo con cui convive la
comunità cristiana. Una comunità che è fra le più antiche del mondo
cristiano.
Le cose stanno tornando alla normalità anche attraverso il lavoro silenzioso ma costante di Aiuto alla Chiesa che Soffre. La fondazione pontificia ha avviato una sorta di “piano Marshall” come descritto dal suo stesso sito,
con l’apertura di molti cantieri per la ricostruzione dei villaggi
cristiani. Oggi, a meno di un anno dalla loro apertura, in particolare a
Qaraqosh, Karamless e Bartella.
Secondo i dati forniti, le famiglie rientrate in tutta la Piana di Ninive
sono 8.213. Molte, ma c’è ancora molta strada da fare. Quella famiglie
rappresentano solo il 42% delle 19.452 costrette a fuggire per colpa dei
terroristi dell’Isis. Le case distrutte sono decine di migliaia.
Gli jihadisti hanno portato saccheggi, morti e devastazione. Più di
3mila case sono state riparate, ma altre migliaia sono completamente
distrutte. Una situazione drammatica cui si unisce anche la politica. Il
nord è controllato dai curdi, altre aree sono controllate dal governo
di Baghdad. I rapporti sono sono idilliaci ed esistono province
limitrofe che non hanno più neanche le strade che le uniscono.
Nonostante tutto, i lavori vanno avanti. A Tellskuff e Qaraqosh
sono tornati tantissimi cristiani. C’è voglia di riprendere possesso
della propria vita prima ancora che delle proprie case. La comunità
resiste e si vede. “Molto resta da fare, ma è confortante vedere che
tante altre famiglie ci chiedono di riparare le loro case perché
vogliono tornare”, afferma don Salar Boudagh, vicario generale della
Diocesi caldea di Alqosh.
Le cose stanno tornando alla normalità. Ma ci sono ancora dei
problemi. Inutile sognare a occhi aperti: la ferita è ancora aperta e
fatica rimarginarsi. Per capirlo, abbiamo contattato telefonicamente don Karam Shamasha, sacerdote caldeo, attualmente ad Erbil: lì dove molti cristiani sono fuggiti durante l’invasione del Califfato.
Quella che ci descrive don Karam, è una situazione complessa.
Innanzitutto, il governo non sta facendo quanto aveva promesso. Anzi,
don Karam ci dice che “il governo non sta facendo ancora niente.
Nonostante le elezioni siano alle porte e tutti sono impegnati a
guadagnare più voti possibili, nessuno ha fatto qualcosa di concreto per la gente della piana di Ninive”.
Come detto, i cristiani non interessano. Non sono “utili”, parola
orribile ma estremamente realistica. Non sono sciiti, per cui sono
protetti dall’Iran. Non sono sunniti, che rappresentano la maggioranza.
Non sono neanche curdi, che almeno hanno milizie in grado di poter
colpire. I cristiani sono semplicemente una minoranza debole.
In tutto questo, l’Isis non è stato sconfitto come si vuole fare credere. “L’estremismo è molto radicato nelle mentalità di tanti
e avrebbe bisogno di tempo ancora, soprattutto perché fino adesso lo
stesso governo non ha provato di curare queste ideologie” ci spiega il
sacerdote caldeo. Del resto l’Isis esisteva già prima che si chiamasse
Stato islamico. E molti, a Mosul, hanno esultato quando il Califfato è
giunto tra le strade della città.
Chiediamo al sacerdote com’è cambiata la vita dei cristiani. E la
risposta è che la vita è stata completamente stravolta. “Quasi la metà
delle famiglie ha deciso di lasciare il Paese e vivono in condizioni
molto difficili nei Paesi vicini”. “Nessun Paese europeo o gli Stati Uniti sta accogliendo i cristiani, non si sa perché!”. Probabilmente perché non hanno nessuna potenza che li tutela. L’Occidente non sente più un legame vero con il cristianesimo.
E la vita è difficile anche per chi è rimasto o è tornato in Iraq. Molti studenti cristiani hanno scelto di iscriversi di nuovo all’università di Mosul.
Ma le strade sono bloccate, per fare pochi chilometri occorrono ore. E
nelle università, come nei luoghi pubblici, resta il sospetto che quelli
che un tempo erano tuoi vicini, in fondo ti hanno tradito. Una comunità
si spezzata.