Fausto Biloslavo
La sveglia suona all'alba per i 
«monuments men» italiani nel nord dell'Irak. Alle sei del mattino una 
ventina di archeologi, studenti, dottorandi, restauratori sono già 
all'opera per salvaguardare un pezzo di patrimonio dell'umanità. Alcuni 
dei siti che monitorizzano con la missione «Terra di Ninive» sono a una 
decina di chilometri dalla prima linea fra i combattenti curdi e i 
tagliagole del Califfato. 
«Dio non voglia che arrivassero fino a qui. 
L'Isis distruggerebbe i rilievi assiri millenari di Maltai e quelli di 
Khinis, come ha già fatto con le statue dei tori alati, che proteggevano
 una delle antiche porte di Ninive», lancia l'allarme Daniele Morandi 
Bonacossi. 
Per non parlare delle tombe sufi e del tempio di Lalish, una 
specie di Vaticano degli yazidi, che lo Stato islamico considera 
adoratori del diavolo. Morandi, docente all'università di Udine, ha 
lavorato per 25 anni in Siria, in Oman e Kurdistan e guida la missione 
archeologica italiana nel nord dell'Irak. «Non ci infiltriamo dietro le 
linee, ma ci sentiamo un po' “monuments men” italiani - spiega -. Siamo 
un presidio del patrimonio archeologico iracheno, che è dell'umanità, 
contro le barbarie dell'Isis, responsabile di pulizia etnica e 
culturale». I «monuments men» della Seconda guerra mondiale, immortalati
 di recente in un film di George Clooney, avevano l'ordine di recuperare
 i capolavori trafugati dai nazisti.
Nella «base» degli archeologi
 a Dohuk, Laura Zanazzo, una giovane studentessa, pulisce con lo 
spazzolino gli ultimi frammenti di ceramica ritrovati. Sul tetto altri 
ragazzi dividono i «cocci», come li chiamano, a seconda del periodo 
storico. «Fino al 2010 in Siria, quando arrivavano ancora i turisti, 
c'era la lista d'attesa per venire a fare esperienza sul terreno - 
spiega Morandi -. Adesso la passione si è raffreddata per paura 
dell'Isis». La Farnesina ha diramato un'allerta su possibili rapimenti. 
Il Kurdistan è ben controllato dai Peshmerga e i «monuments men» 
italiani hanno preso le opportune precauzioni.
Lo scorso anno sono
 stati evacuati «quando abbiamo visto arrivare la massa biblica di 
profughi cristiani e gli elicotteri americani sfrecciavano per salvare 
gli yazidi di fronte all'avanzata delle bandiere nere».
Il 
progetto è finanziato dalla task force Irak della Cooperazione, la 
Regione Friuli-Venezia Giulia, l'università di Udine e la Fondazione 
Crup. Su 3mila chilometri quadrati a nord di Mosul, gli archeologi 
italiani hanno individuato 700 siti grazie al programma militare 
americano Corona, che durante la Guerra fredda aveva fotografato con i 
satelliti tutta l'area quando non era ancora urbanizzata come oggi.
Sotto
 le splendide sculture nella roccia dei re assiri a un passo da Dohuk, 
l'archeologo di Padova sottolinea «il doppio binario ipocrita e 
farisaico dell'Isis che da un lato distrugge i monumenti e dall'altro fa
 contrabbando di reperti archeologici scavati in maniera sistematica e 
illegale. Alcuni siti in Siria, come Dura Europos e Mari, sono ridotti a
 un groviera. Secondo le Nazioni Unite e la Cia è la seconda fonte 
finanziaria del Califfato dopo il petrolio». 
L'Unesco ha denunciato che 
lo Stato islamico controlla il 90% dei siti archeologici della Siria e 
il 20% dei 12mila in Irak. Il Dipartimento di Stato Usa parla di un giro
 d'affari di «centinaia di milioni di dollari». Morandi spiega che «il 
Califfato rilascia dei permessi di scavo a delle gang, che 
contrabbandano i reperti attraverso la Turchia e la Siria. In cambio 
incassano un pizzo del 20%». I reperti arrivano in Svizzera, Germania, 
Inghilterra, Francia e, in misura minore, in Italia. Il Giappone, gli 
Emirati Arabi e gli Stati Uniti sono mercati fiorenti. Il traffico 
scorre attraverso antiquari, da Londra a New York, grandi case d'asta o 
semplicemente su “ebay”, dove trovi monete romane del sito siriano di 
Apamea. «Alcuni manufatti hanno un valore inestimabile, ma come i famosi
 diamanti africani sono macchiati dal sangue delle decapitazioni e delle
 stragi», ricorda Morandi.
I «monuments men» italiani utilizzano 
anche un drone per la loro missione di salvaguardia del patrimonio 
archeologico in Kurdistan. «Con i satelliti l'Unesco sta documentando le
 distruzioni - osserva Morandi -. Ma, se non proteggiamo sul terreno 
questo patrimonio dell'umanità, ci dovremo accontentare di fotografie o 
ricostruzioni archeologiche virtuali». La proposta lanciata dall'Italia è
 di creare un corpo di caschi blu della cultura da formare nel nostro 
paese. «Adesso sarebbe folle andare a recuperare i reperti scampati alle
 barbarie nelle zone controllate dall'Isis - spiega Morandi -, ma nel 
caso di un intervento militare è possibile inviare degli archeologi al 
seguito delle truppe».