By Avvenire
Daniele Zappalà
Daniele Zappalà
Al mattino, all’inizio della Conferenza internazionale sulle minoranze
perseguitate in Medio Oriente ospitata martedì a Parigi sotto l’egida
delle Nazioni Unite, il presidente francese François Hollande ha
promesso fin da subito che «i responsabili di queste atrocità dovranno
rendere dei conti davanti alla giustizia internazionale». Il capo
dell’Eliseo ha elogiato il «simbolo bellissimo» del pluralismo
etnico-religioso che si è manifestato attraverso tutti gli invitati,
promettendo una conferenza «utile» nei suoi effetti, poiché dietro i
cristiani e le altre minoranze sotto assedio «c’è in gioco una
concezione dell’umanità, dunque non ci sono più frontiere, ma c’è una
responsabilità comune».
E il presidente della laicissima Francia ha di certo colpito molti, ricordando con volto cupo che «per la prima volta da secoli, non è stato possibile celebrare a Mosul nessuna Messa della Natività».
Ma solo qualche ora dopo, chiudendo l’incontro al Quai d’Orsay, l’ex premier Laurent Fabius, capo della diplomazia e co-presidente della riunione assieme all’omologo giordaniano, ha mostrato toni ben più dimessi: «Il lavoro è all’inizio» su un piano d’azione che «non comporta un calendario preciso, ma una serie di capitoli. Spetterà poi a ciascuna parte il compito di pescare dai capitoli». Anche sul versante finanziario, a parte 25 milioni promessi dalla Francia, tanti verbi al futuro, non essendo la riunione «una conferenza dei donatori».
Attorno allo spaventoso dramma in corso, sono dunque fiorite sulle sponde della Senna nuove ragioni di sperare, almeno rispetto all’inerzia mostrata dalla comunità internazionale negli ultimi anni. Ma al contempo, era difficile dare torto alle tante voci autorevoli, accolte anche sui media francesi, che hanno manifestato scetticismo e persino delusione. Ci sarà ancora da attendere, dopo una conferenza che secondo molti giunge già «troppo tardi».
A dare eco a questo senso estremo d’impazienza ed emergenza è stato pure il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, giunto a Parigi per presiedere uno dei gruppi di lavoro: «Dopo duemila anni, ci troviamo di fronte al rischio che le minoranze cristiane in Iraq e in Siria vengano isolate o addirittura spazzate via». Per questo, le delegazioni di 56 Paesi e 11 organizzazioni internazionali si sono riunite a Parigi per lanciare «un grido che riguarda il pluralismo, la diversità, la storia stessa del Medio Oriente».
Sospesa fra le tante promesse pronunciate e il clima circostante d’attesa alimentato pure dalle ultime mosse militari di Parigi sullo scacchiere mediorientale, la riunione ha concretamente messo a punto soprattutto una “road map” su tre versanti del dramma giudicati prioritari, come recitano le conclusioni.
Il “Piano d’azione di Parigi”, 6 pagine in tutto, è denso innanzitutto di considerazioni e tante buone intenzioni per favorire la protezione dei rifugiati e il loro possibile ritorno nella terra natale. In proposito, gli Stati s’impegnano a nuovi sforzi d’aiuto, «per sostenere i Paesi della regione più colpiti dal flusso di rifugiati (Giordania, Turchia, Libano, Iraq)». Con un’attenzione particolare ai ricongiungimenti familiari.
Sul piano giudiziario, invece, le diplomazie lavoreranno al fianco delle Ong internazionali per raccogliere prove sui crimini, anche attraverso una banca dati appositamente creata. Lo scopo è di affidare al Consiglio di sicurezza dell’Onu il compito di «esplorare la via di un deferimento» dei persecutori alla Corte Penale internazionale. Si tratta di «crimini contro l’umanità», ha perorato ieri Hollande.
Nella sostanza, paiono spesso più generici i punti sul versante politico, volti in particolare a favorire il pluralismo etnico-religioso in Medio Oriente, anche puntando sull’idea di «una cooperazione inter-parlamentare» per il varo di leggi «che avranno per priorità i diritti umani, compresa la libertà religiosa». In questo caso, il bersaglio dichiarato è soprattutto l’Iraq, mentre nel caso della Siria viene ribadito il sostegno dei partecipanti in vista di una transizione democratica. Per il ministro giordano degli Esteri, Nasser Judeh, la conferenza è stata «un successo». Ma all’uscita, sui volti di tanti, non traspariva neppure l’ombra di un sorriso.
E il presidente della laicissima Francia ha di certo colpito molti, ricordando con volto cupo che «per la prima volta da secoli, non è stato possibile celebrare a Mosul nessuna Messa della Natività».
Ma solo qualche ora dopo, chiudendo l’incontro al Quai d’Orsay, l’ex premier Laurent Fabius, capo della diplomazia e co-presidente della riunione assieme all’omologo giordaniano, ha mostrato toni ben più dimessi: «Il lavoro è all’inizio» su un piano d’azione che «non comporta un calendario preciso, ma una serie di capitoli. Spetterà poi a ciascuna parte il compito di pescare dai capitoli». Anche sul versante finanziario, a parte 25 milioni promessi dalla Francia, tanti verbi al futuro, non essendo la riunione «una conferenza dei donatori».
Attorno allo spaventoso dramma in corso, sono dunque fiorite sulle sponde della Senna nuove ragioni di sperare, almeno rispetto all’inerzia mostrata dalla comunità internazionale negli ultimi anni. Ma al contempo, era difficile dare torto alle tante voci autorevoli, accolte anche sui media francesi, che hanno manifestato scetticismo e persino delusione. Ci sarà ancora da attendere, dopo una conferenza che secondo molti giunge già «troppo tardi».
A dare eco a questo senso estremo d’impazienza ed emergenza è stato pure il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, giunto a Parigi per presiedere uno dei gruppi di lavoro: «Dopo duemila anni, ci troviamo di fronte al rischio che le minoranze cristiane in Iraq e in Siria vengano isolate o addirittura spazzate via». Per questo, le delegazioni di 56 Paesi e 11 organizzazioni internazionali si sono riunite a Parigi per lanciare «un grido che riguarda il pluralismo, la diversità, la storia stessa del Medio Oriente».
Sospesa fra le tante promesse pronunciate e il clima circostante d’attesa alimentato pure dalle ultime mosse militari di Parigi sullo scacchiere mediorientale, la riunione ha concretamente messo a punto soprattutto una “road map” su tre versanti del dramma giudicati prioritari, come recitano le conclusioni.
Il “Piano d’azione di Parigi”, 6 pagine in tutto, è denso innanzitutto di considerazioni e tante buone intenzioni per favorire la protezione dei rifugiati e il loro possibile ritorno nella terra natale. In proposito, gli Stati s’impegnano a nuovi sforzi d’aiuto, «per sostenere i Paesi della regione più colpiti dal flusso di rifugiati (Giordania, Turchia, Libano, Iraq)». Con un’attenzione particolare ai ricongiungimenti familiari.
Sul piano giudiziario, invece, le diplomazie lavoreranno al fianco delle Ong internazionali per raccogliere prove sui crimini, anche attraverso una banca dati appositamente creata. Lo scopo è di affidare al Consiglio di sicurezza dell’Onu il compito di «esplorare la via di un deferimento» dei persecutori alla Corte Penale internazionale. Si tratta di «crimini contro l’umanità», ha perorato ieri Hollande.
Nella sostanza, paiono spesso più generici i punti sul versante politico, volti in particolare a favorire il pluralismo etnico-religioso in Medio Oriente, anche puntando sull’idea di «una cooperazione inter-parlamentare» per il varo di leggi «che avranno per priorità i diritti umani, compresa la libertà religiosa». In questo caso, il bersaglio dichiarato è soprattutto l’Iraq, mentre nel caso della Siria viene ribadito il sostegno dei partecipanti in vista di una transizione democratica. Per il ministro giordano degli Esteri, Nasser Judeh, la conferenza è stata «un successo». Ma all’uscita, sui volti di tanti, non traspariva neppure l’ombra di un sorriso.