By Corriere della Sera
Andrea Gatti, avvocato esperto di diritti umani
Andrea Gatti, avvocato esperto di diritti umani
Viaggio di un avvocato esperto di diritti umani tra i combattenti della minoranza religiosa alleati coi peshmerga contro i jihadisti dello Stato Islamico
Si devono passare quattro posti di blocco peshmerga - le bandiere del Partito democratico del Kurdistan che sventolano su ogni autoblindo - prima di arrivare a Telskuf, uno dei villaggi cristiani che fanno da corona a Mosul. Quello che fino ad un anno fa era uno dei più vivaci centri della piana di Ninive, adesso è una delle estreme linee di difesa del confine meridionale del Kurdistan, 28 km da Mosul. I cristiani, tutti salvi: il paese era stato evacuato in fretta e furia, la notte del dieci agosto scorso, dopo la ritirata delle forze curde.
Il comandate delle Niniveh Plain Forces
Rimasero allora tre anziane, irremovibili, che però non devono avere interessato gli islamisti più di tanto, troppo occupati com’erano a picconare le croci, le cupole delle chiese e le statue dei santi. Le hanno prese a male parole, ad una hanno strappato la catenina con l’immagine della Madonna. Si sarebbero forse spinti oltre se dopo due settimane, falcidiati dai bombardamenti americani, non si fossero ritirati. Adesso che anche le tre vecchie sono state smobilitate a forza, è diventato il quartier generale di una parte delle difese fronte nord. Qui l’esercito regionale curdo si è acquartierato con le Niniveh Plain Forces, una delle tre formazioni di autodifesa formate da cristiani in Iraq. Circa cento effettivi, quasi tutti provenienti dai villaggi adesso sotto il controllo da Isis. Combattono, letteralmente, per tornare a casa. Charbil Matty è il loro comandante, mi riceve in una delle abitazioni del villaggio scelta come suo quartier generale. Tra gli arredi piccolo borghesi di quella casa cristiana, le immagini della natività, l’arazzo con l’ultima cena, fanno bella mostra i kahlashinkov appoggiati verticalmente sotto di esse, sui rigonfi divani damascati: «Il problema - dice Charbil - è che al momento abbiamo più volontari che fucili, per questo dobbiamo fare i turni; anche per l’addestramento è difficile. Ai ragazzi viene insegnato tutto, comprese le tattiche di guerra, ma la prima volta che possono davvero sparare, è qui al fronte». Non «forze cristiane», si raccomanda, «dì piuttosto milizie composte da cristiani», gente che combatte non per difendere la propria fede, ma la propria identità. Già, l‘identità cristiana irachena. Che cosa resta del cristiano iracheno se gli si toglie la qualifica di cristiano? La migliore risposta è di Robi, un soldatino asciutto, agile, non più di diciassette anni di ossa e nervi, anche se ne millanta, prudentemente, diciannove: «siamo gente pacifica, conviviamo con tutti, non abbiamo mai preteso niente». E’ vero, il cristiano è l’unico, in questa terra martoriata dalle ideologie etniche, tribali, religiose e politiche, che non ha mai cercato distinzioni, ma sempre, ecumenicamente, l’unità. E’ un uomo mite e aperto.
La trincea
Tra i pochi cristiani che sono rimasti in Iraq (c’è chi giura non siano più di 250.000 su un milione e mezzo di dieci anni fa) regna un senso di annientamento e di alienazione e l’azione di questi uomini rappresenta senz’altro un’eccezione. Ma è meraviglioso vederli qui, a 28 km dall’occhio di Mordor, fianco a fianco con i peshmerga, a difendere il loro diritto di sopravvivere in quanto uomini prima ancora che cristiani. Insieme allo stato maggiore curdo della zona ci avviciniamo alla prima linea per visitarne il punto più avanzato: è una trincea soprelevata, una ridotta rettangolare costruita su un terrapieno e protetta da sacchi di sabbia. Presta servizio un distaccamento misto composto da curdi e dalle Niniveh Plain Forces. E’ vero - mi spiegano - che ogni settimana c’è almeno uno scambio di fucileria o c’è un razzo che piove nelle vicinanze, ma ogni incursione dei combattenti islamisti è solo un atto di presenza ormai e non va oltre il suo valore dimostrativo. Qui, come in tutto il fronte occidentale curdo-iracheno, i peshmerga hanno il pieno controllo della situazione. Un vallo profondo ed ininterrotto fino ad Erbil, preceduto, in alcuni punti, da campi minati e filo spinato, rende queste posizioni difficili da espugnare. D’altra parte però il trinceramento rivela anche la volontà di non avanzare. In mezzo al piazzale del fortino, una tenda dell’agenzia per i rifugiati dell’Onu è usata come deposito munizioni e viveri. Quel che rimane di un katjusa homemade lanciato dai jiahdisti qualche giorno prima è appoggiato ai margini del terrapieno. Un’altra baracca di assi e coperte funge da alloggio alla piccola guarnigione. L’immancabile ritratto di Barzani, eterno presidente del Kurdistan, un po’ benedicente e un po’ distratto, è appeso ad un esile trave del rifugio. Fuori dal fortino c’è la campagna di Telskuf che, come tutta la linea del fronte e delle immediate retrovie, è costantemente incendiata per impedire che la vegetazione ostacoli la visibilità e le comunicazioni. Questo paesaggio sempre scuro, desolato, morto provoca un inesprimibile senso di solitudine e di abbandono che deve essere ancora più accentuato nella monotona vita di trincea dei soldati. Forse è il senso della guerra e della morte, ma dalle feritorie dei tre posti di osservazione la campagna davanti a noi, terra di nessuno, non sembra che polvere e cenere in cui l’impressione eroica si mischia ad una infinita melanconia. I ragazzi oggi sono di buon umore comunque.
Il colonnello dalle manieri gentili
La visita, forse inaspettata, da parte dello stato maggiore e, allo stesso tempo, del cambio ha messo loro allegria. Si tira fuori l’argenteria delle grandi occasioni: un m60 viene piazzato subito sulla trincea, un lanciamissili è appoggiato con nonchalance all’ingresso torretta centrale. Si dà un’occhiata, soddisfatti, al trinceramento. Si torna in paese. Camion con mitragliatrici pesanti e cannoncini leggeri riconoscibili sotto le coperture, fanno capolino tra le case. Sono parcheggiati per essere prontamente utilizzati in caso di attacco massiccio. Ma di solito è molto più semplice, come spiega il colonnello Khidir, comandante pershmerga della zona: alla prima segnalazione da parte dei curdi gli aerei della coalizione arrivano in meno di dieci minuti, ricacciando indietro ogni assalto. Il colonnello è uomo dalle maniere gentili che rivelano una sicura abitudine a trattare con le persone, parla più come un politico che come un militare. Mi rivela, un po’ in confidenza e un po’ no, che loro sarebbero pronti per avanzare e riprendersi anche quel poco di Kurdistan che è ancora nelle mani dello Stato islamico. Solo «aspettiamo l’ordine degli americani» dice, ma chiunque qui sa che quella di aspettare gli americani è una scusa o, nel migliore dei casi, un’illusione: gli americani non daranno mai un nulla-osta, almeno non uno ufficiale, sarebbe l’ammissione di una sconfitta strategica e il primo passo per la deflagrazione del Paese. Sul dopoguerra nicchia, ma ci pensano i suoi aiutanti a chiarire i punti della questione: nessun margine di futura convivenza con gli arabi sunniti. Non c’è uno tra gli ufficiali curdi (sunniti) né tra quelli cristiani che, umanamente, può dirsi ottimista: quasi tutti i loro amici e vicini arabi sunniti, «hanno tradito». Per interesse, sostengono. Per poter requisire quelle stesse case dove la sera prima era stato offerto loro il tè.
Chiese e case devastate
Davanti al quartier generale curdo c’è anche Hammer catturato ai jihadisti che a loro volta lo avevano sottratto all’esercito iracheno. Avevano avuto il tempo di riverniciarlo, gli islamisti: nero. Adesso ci svetta sopra la bandiera solare de Kurdistan. E’ uno strano contrasto. Chiedo all’ufficiale dei servizi segreti curdi che, occhi di ghiaccio, mai un sorriso, silenziosissimo, non mi ha mai perso di vista da quando sono arrivato, se posso fare una foto alla jeep. Mi guarda torvo, pensa un istante e poi risponde con un gesto della mano: una sola però. La prudenza dei sevizi segreti! Saluto i ragazzi. Hanno ancora i modi di fare degli adolescenti, chiedono foto, si azzuffano tra loro come cuccioli, scherzano. Fantaccini di posa. Poveri. In caso di un seppur improbabile assalto in forze da parte dello Stato islamico, avrebbero certamente la funzione di materasso, in attesa che il grosso dell’esercito nelle retrovie si mobiliti. Prima di tornare indietro ad una pattuglia è stato comandato di effettuare la ricognizione di routine, ci uniamo anche noi: perlustriamo il villaggio in cerca di eventuali infiltrati. Il paesaggio è spettrale, le strade deserte, molte aiuole bruciate, ciuffi d’erba e piante spuntano in mezzo alla carreggiata. Alcune case della periferia sud, bombardate dagli americani durante la breve conquista dell’Isis, sono crollate su se stesse, inghiottendo i miliziani che le occupavano e sparpagliando tutt’intorno gli oggetti quotidiani dei loro abitanti cristiani e dei jihadisti dopo di loro. Tricicli, pentole, stufe, scarpe. La chiesa principale al centro del paese è devastata, un Gesù di gesso, sventrato, è stato riposizionato ai piedi dell’altare e la cupola che i jihadisti non sono riusciti a far crollare è pericolosamente piena di crepe. Dalla furia iconoclasta si è però miracolosamente salvato un quadro ad olio raffigurante il martirio di San Giacomo, a cui la chiesa è dedicata. Il carnefice che - turbante in testa e scimitarra alla mano - è rappresentato con fattezze arabe, è intento a decapitare il santo che, al contrario, secondo certa iconografia, sembra un Christus dolens. E’ probabile che i jihadisti l’abbiano risparmiato perché si sono riconosciuti in quell’immagine, così come si riconoscono i cristiani di quella chiesa, seppur nel ruolo totalmente opposto. La forza dell’interpretazione creativa dell’arte! Una mano pietosa ha rimesso un crocifisso dorato sull’altare, forse è stato uno degli abitanti che due volte alla settimana vengono scortati, a turni, in paese: mezz’ora di tempo per recuperare le loro cose. E Telskuf, come Bartella, Quaraqosh e le altre decine di villaggi e città cristiane, è ancora intatta e spaventosamente vuota.
Si devono passare quattro posti di blocco peshmerga - le bandiere del Partito democratico del Kurdistan che sventolano su ogni autoblindo - prima di arrivare a Telskuf, uno dei villaggi cristiani che fanno da corona a Mosul. Quello che fino ad un anno fa era uno dei più vivaci centri della piana di Ninive, adesso è una delle estreme linee di difesa del confine meridionale del Kurdistan, 28 km da Mosul. I cristiani, tutti salvi: il paese era stato evacuato in fretta e furia, la notte del dieci agosto scorso, dopo la ritirata delle forze curde.
Il comandate delle Niniveh Plain Forces
Rimasero allora tre anziane, irremovibili, che però non devono avere interessato gli islamisti più di tanto, troppo occupati com’erano a picconare le croci, le cupole delle chiese e le statue dei santi. Le hanno prese a male parole, ad una hanno strappato la catenina con l’immagine della Madonna. Si sarebbero forse spinti oltre se dopo due settimane, falcidiati dai bombardamenti americani, non si fossero ritirati. Adesso che anche le tre vecchie sono state smobilitate a forza, è diventato il quartier generale di una parte delle difese fronte nord. Qui l’esercito regionale curdo si è acquartierato con le Niniveh Plain Forces, una delle tre formazioni di autodifesa formate da cristiani in Iraq. Circa cento effettivi, quasi tutti provenienti dai villaggi adesso sotto il controllo da Isis. Combattono, letteralmente, per tornare a casa. Charbil Matty è il loro comandante, mi riceve in una delle abitazioni del villaggio scelta come suo quartier generale. Tra gli arredi piccolo borghesi di quella casa cristiana, le immagini della natività, l’arazzo con l’ultima cena, fanno bella mostra i kahlashinkov appoggiati verticalmente sotto di esse, sui rigonfi divani damascati: «Il problema - dice Charbil - è che al momento abbiamo più volontari che fucili, per questo dobbiamo fare i turni; anche per l’addestramento è difficile. Ai ragazzi viene insegnato tutto, comprese le tattiche di guerra, ma la prima volta che possono davvero sparare, è qui al fronte». Non «forze cristiane», si raccomanda, «dì piuttosto milizie composte da cristiani», gente che combatte non per difendere la propria fede, ma la propria identità. Già, l‘identità cristiana irachena. Che cosa resta del cristiano iracheno se gli si toglie la qualifica di cristiano? La migliore risposta è di Robi, un soldatino asciutto, agile, non più di diciassette anni di ossa e nervi, anche se ne millanta, prudentemente, diciannove: «siamo gente pacifica, conviviamo con tutti, non abbiamo mai preteso niente». E’ vero, il cristiano è l’unico, in questa terra martoriata dalle ideologie etniche, tribali, religiose e politiche, che non ha mai cercato distinzioni, ma sempre, ecumenicamente, l’unità. E’ un uomo mite e aperto.
La trincea
Tra i pochi cristiani che sono rimasti in Iraq (c’è chi giura non siano più di 250.000 su un milione e mezzo di dieci anni fa) regna un senso di annientamento e di alienazione e l’azione di questi uomini rappresenta senz’altro un’eccezione. Ma è meraviglioso vederli qui, a 28 km dall’occhio di Mordor, fianco a fianco con i peshmerga, a difendere il loro diritto di sopravvivere in quanto uomini prima ancora che cristiani. Insieme allo stato maggiore curdo della zona ci avviciniamo alla prima linea per visitarne il punto più avanzato: è una trincea soprelevata, una ridotta rettangolare costruita su un terrapieno e protetta da sacchi di sabbia. Presta servizio un distaccamento misto composto da curdi e dalle Niniveh Plain Forces. E’ vero - mi spiegano - che ogni settimana c’è almeno uno scambio di fucileria o c’è un razzo che piove nelle vicinanze, ma ogni incursione dei combattenti islamisti è solo un atto di presenza ormai e non va oltre il suo valore dimostrativo. Qui, come in tutto il fronte occidentale curdo-iracheno, i peshmerga hanno il pieno controllo della situazione. Un vallo profondo ed ininterrotto fino ad Erbil, preceduto, in alcuni punti, da campi minati e filo spinato, rende queste posizioni difficili da espugnare. D’altra parte però il trinceramento rivela anche la volontà di non avanzare. In mezzo al piazzale del fortino, una tenda dell’agenzia per i rifugiati dell’Onu è usata come deposito munizioni e viveri. Quel che rimane di un katjusa homemade lanciato dai jiahdisti qualche giorno prima è appoggiato ai margini del terrapieno. Un’altra baracca di assi e coperte funge da alloggio alla piccola guarnigione. L’immancabile ritratto di Barzani, eterno presidente del Kurdistan, un po’ benedicente e un po’ distratto, è appeso ad un esile trave del rifugio. Fuori dal fortino c’è la campagna di Telskuf che, come tutta la linea del fronte e delle immediate retrovie, è costantemente incendiata per impedire che la vegetazione ostacoli la visibilità e le comunicazioni. Questo paesaggio sempre scuro, desolato, morto provoca un inesprimibile senso di solitudine e di abbandono che deve essere ancora più accentuato nella monotona vita di trincea dei soldati. Forse è il senso della guerra e della morte, ma dalle feritorie dei tre posti di osservazione la campagna davanti a noi, terra di nessuno, non sembra che polvere e cenere in cui l’impressione eroica si mischia ad una infinita melanconia. I ragazzi oggi sono di buon umore comunque.
Il colonnello dalle manieri gentili
La visita, forse inaspettata, da parte dello stato maggiore e, allo stesso tempo, del cambio ha messo loro allegria. Si tira fuori l’argenteria delle grandi occasioni: un m60 viene piazzato subito sulla trincea, un lanciamissili è appoggiato con nonchalance all’ingresso torretta centrale. Si dà un’occhiata, soddisfatti, al trinceramento. Si torna in paese. Camion con mitragliatrici pesanti e cannoncini leggeri riconoscibili sotto le coperture, fanno capolino tra le case. Sono parcheggiati per essere prontamente utilizzati in caso di attacco massiccio. Ma di solito è molto più semplice, come spiega il colonnello Khidir, comandante pershmerga della zona: alla prima segnalazione da parte dei curdi gli aerei della coalizione arrivano in meno di dieci minuti, ricacciando indietro ogni assalto. Il colonnello è uomo dalle maniere gentili che rivelano una sicura abitudine a trattare con le persone, parla più come un politico che come un militare. Mi rivela, un po’ in confidenza e un po’ no, che loro sarebbero pronti per avanzare e riprendersi anche quel poco di Kurdistan che è ancora nelle mani dello Stato islamico. Solo «aspettiamo l’ordine degli americani» dice, ma chiunque qui sa che quella di aspettare gli americani è una scusa o, nel migliore dei casi, un’illusione: gli americani non daranno mai un nulla-osta, almeno non uno ufficiale, sarebbe l’ammissione di una sconfitta strategica e il primo passo per la deflagrazione del Paese. Sul dopoguerra nicchia, ma ci pensano i suoi aiutanti a chiarire i punti della questione: nessun margine di futura convivenza con gli arabi sunniti. Non c’è uno tra gli ufficiali curdi (sunniti) né tra quelli cristiani che, umanamente, può dirsi ottimista: quasi tutti i loro amici e vicini arabi sunniti, «hanno tradito». Per interesse, sostengono. Per poter requisire quelle stesse case dove la sera prima era stato offerto loro il tè.
Chiese e case devastate
Davanti al quartier generale curdo c’è anche Hammer catturato ai jihadisti che a loro volta lo avevano sottratto all’esercito iracheno. Avevano avuto il tempo di riverniciarlo, gli islamisti: nero. Adesso ci svetta sopra la bandiera solare de Kurdistan. E’ uno strano contrasto. Chiedo all’ufficiale dei servizi segreti curdi che, occhi di ghiaccio, mai un sorriso, silenziosissimo, non mi ha mai perso di vista da quando sono arrivato, se posso fare una foto alla jeep. Mi guarda torvo, pensa un istante e poi risponde con un gesto della mano: una sola però. La prudenza dei sevizi segreti! Saluto i ragazzi. Hanno ancora i modi di fare degli adolescenti, chiedono foto, si azzuffano tra loro come cuccioli, scherzano. Fantaccini di posa. Poveri. In caso di un seppur improbabile assalto in forze da parte dello Stato islamico, avrebbero certamente la funzione di materasso, in attesa che il grosso dell’esercito nelle retrovie si mobiliti. Prima di tornare indietro ad una pattuglia è stato comandato di effettuare la ricognizione di routine, ci uniamo anche noi: perlustriamo il villaggio in cerca di eventuali infiltrati. Il paesaggio è spettrale, le strade deserte, molte aiuole bruciate, ciuffi d’erba e piante spuntano in mezzo alla carreggiata. Alcune case della periferia sud, bombardate dagli americani durante la breve conquista dell’Isis, sono crollate su se stesse, inghiottendo i miliziani che le occupavano e sparpagliando tutt’intorno gli oggetti quotidiani dei loro abitanti cristiani e dei jihadisti dopo di loro. Tricicli, pentole, stufe, scarpe. La chiesa principale al centro del paese è devastata, un Gesù di gesso, sventrato, è stato riposizionato ai piedi dell’altare e la cupola che i jihadisti non sono riusciti a far crollare è pericolosamente piena di crepe. Dalla furia iconoclasta si è però miracolosamente salvato un quadro ad olio raffigurante il martirio di San Giacomo, a cui la chiesa è dedicata. Il carnefice che - turbante in testa e scimitarra alla mano - è rappresentato con fattezze arabe, è intento a decapitare il santo che, al contrario, secondo certa iconografia, sembra un Christus dolens. E’ probabile che i jihadisti l’abbiano risparmiato perché si sono riconosciuti in quell’immagine, così come si riconoscono i cristiani di quella chiesa, seppur nel ruolo totalmente opposto. La forza dell’interpretazione creativa dell’arte! Una mano pietosa ha rimesso un crocifisso dorato sull’altare, forse è stato uno degli abitanti che due volte alla settimana vengono scortati, a turni, in paese: mezz’ora di tempo per recuperare le loro cose. E Telskuf, come Bartella, Quaraqosh e le altre decine di villaggi e città cristiane, è ancora intatta e spaventosamente vuota.