By Radiovaticana
“La Chiesa in Iraq” questo il titolo del libro scritto dal cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Il volume ripercorre la storia, lo sviluppo e la missione della chiesa irachena, dagli inizi ai nostri giorni. “Una Chiesa eroica”, come l’hanno definita Benedetto XVI e Papa Francesco, che anche oggi sta dando una testimonianza di fede a causa delle persecuzioni dei jihadisti dell’Is. Il card. Filoni è stato 5 anni nunzio apostolico in Iraq durante la Guerra del Golfo e Papa Francesco lo ha inviato due volte in missione tra i profughi iracheni. Al microfono di Roberto Piermarini il porporato spiega quanto è viva la preoccupazione del Papa per i cristiani iracheni:
E’ vivissima per vari motivi. Innanzitutto perché i cristiani in questo momento insieme alle altre piccole minoranze sono i poveri, veramente i poveri di questa situazione perché hanno dovuto abbandonare tutto, non solo le proprie case ma anche i propri averi e anche quel poco, rimanendo con quel poco che avevano addosso. Grazie alla solidarietà internazionale e soprattutto all’appello del Papa, quando mi inviava un anno fa in Iraq, soprattutto nel Kurdistan, a visitare i nostri cristiani e le minoranze, che erano state cacciate via da Isis… Il Papa ha avuto un ruolo importante e tutti glielo riconoscono per aver focalizzato l’attenzione internazionale sulla situazione di guerra e comunque dei nostri cristiani, che sono stati cacciati. Quindi grande attenzione perché oggi sono i poveri di questa situazione insieme alle altre minoranze e poi perché la guerra è sempre un’ingiustizia: la sopportano le popolazioni. E qui vediamo che tutte le popolazioni e non solo quelle cristiane, anche quelle musulmane, anche le altre minoranze, portano le conseguenze della distruzione, della morte, delle famiglie divise. Quindi questa grande attenzione per una situazione politica che purtroppo pesa come sempre sulla popolazione e su coloro che sono i più fragili.
Lei è stato nunzio apostolico in Iraq proprio durante la Guerra del Golfo ed è tornato come inviato del Papa due volte in Iraq. Quale è stata la sua esperienza di questi due incontri che lei ha avuto con la popolazione irachena e con i cristiani iracheni?
Il primo è stato un incontro scioccante perché ci trovavamo in mezzo a loro, in mezzo a migliaia di famiglie che erano fuggite e dormivano per terra, dove era possibile, sotto gli alberi, in situazioni assolutamente disumane, con un caldo che - si sa - durante l’estate in Iraq arriva anche a 45, 48 gradi. Quindi immaginiamo questa povera popolazione scappata via senza acqua, senza condizioni tali da poter vivere dignitosamente e decentemente, anche con tutti i problemi legati anche alle malattie, al cibo, all’acqua potabile… Quindi uno choc formidabile per come queste famiglie nel giro di 24 ore si siano venute a trovare. La seconda visita è stata quasi per far sentire ai nostri cristiani e alle altre minoranze che ho visitato che non ci siamo dimenticati di loro: voleva essere un gesto, come il Papa usa dire spesso, una “carezza”, una carezza che non va fatta una volta, va anche ripetuta perché questa gente senta che noi siamo vicino a loro e non li abbiamo dimenticati. E la cosa bella in questa seconda circostanza è stata che in questo caso ho potuto portare, era il periodo di Pasqua, la colomba pasquale donata da tante famiglie di Roma. Quindi non c’era solamente la solidarietà del Papa ma c’era anche la solidarietà, l’affetto, la stima, l’incoraggiamento, il pensiero di tante famiglie della diocesi del Papa. Quindi la prima visita è stata una condivisione delle sofferenze. La seconda io l’ho definita un “pellegrinaggio” perché era il periodo della Settimana Santa e quindi vedevo il calvario, la sofferenza, la via crucis di questa gente.
Cosa rappresentano oggi i cristiani in Iraq?
La cosa interessante è non solo ciò che noi pensiamo dei nostri cristiani. E sappiamo bene, poi il mio libro lo descrive, proprio in questa storia, in questo sviluppo loro hanno una parte fondamentale perché hanno contribuito alla vita, alla tradizione, alla cultura di questa terra. Ma non è solo quello che noi pensiamo e che io ho cercato di far vedere attraverso le vicende di quasi 2000 anni di storia ma soprattutto ciò che pensano anche gli altri. Perché sono tanti, alcuni lo dicono, me l’hanno detto, altri lo pensano, altri forse non lo dicono: i nostri cristiani sono parte integrante della storia della vita del Medio Oriente in generale e della vita dell’Iraq in particolare. Io penso che questa sia una cosa molto bella. Anche le stesse autorità, dicono: “Voi avete il diritto nativo di stare qui. Noi siamo venuti dopo, sia come religione dell’islam sia anche come popoli che in questa terra - che è stata sempre una terra di passaggio dove tutti poi si sono innamorati e sono rimasti - abbiamo trovato anche noi, dopo di voi, un posto. Quindi non possiamo non riconoscere questa tradizione che voi avete, questo diritto nativo di stare qui”. Ora, non è una questione puramente accademica ma effettivamente poi i nostri cristiani attraverso l’educazione dei propri figli, attraverso le capacità che hanno saputo esprimere nel contesto anche di una realtà islamica molto più vasta, sia sciita sia sunnita, hanno portato il contributo straordinario delle loro capacità o acquisite, a volte attraverso i figli che studiavano all’estero, ma anche attraverso le loro culture e le loro tradizioni. D’altronde non dimentichiamo che questa è anche la terra dove la cultura occidentale ha messo le radici.
Cardinale Filoni, c’è un capitolo del suo libro che dice: “Quale Iraq oggi?”. Io le chiedo se c’è il rischio di una spartizione settaria del Paese tra curdi, sunniti e sciiti? E qual il futuro per la minoranza cristiana?
Io mi rifaccio, normalmente, un po’ a come è nato l’Iraq e come sono nati tutti gli altri Paesi, compresi la Giordania, la Siria, il Libano e la stessa Turchia: sono nate da un collasso dell’Impero Ottomano, circa 90 anni fa. Era il 1920, quando si stipulava in Europa la divisione dell’Impero Ottamano e si creavano i regni della Giordania, dell’Iraq, dell’Arabia Saudita; la Turchia stessa ne usciva ridimensionata dopo la I Guerra Mondiale. Dunque non è un luogo o una terra in cui c’è una antichissima tradizione nel senso di unità di Stato: c’erano molte nazionalità, molte etnie, molti gruppi che convivevano. Proprio questo fatto ha creato anche tante tensioni, perché la formazione degli Stati è stata una formazione voluta in Occidente e non rispondeva alle esigenze locali. Questo non è mai stato del tutto superato: è stato sempre un elemento che, in vari momenti, è stato ripreso per lotte e per rivendicazioni. Pensiamo anche alla guerra in Kuwait, perché in fondo il Kuwait è una realtà costruita solo dopo: le tribù vivevano e passavano dalla parte del deserto oggi iracheno, alla parte del deserto del Kuwait senza alcuna difficoltà… E così si potrebbe dire anche di altre parti. I curdi si sono sentiti traditi, al momento della formazione di questi Stati, per non essere stati riconosciuti come una entità che aveva il diritto ad uno Stato: questo li ha poi portati a delle lotte. Quindi non parliamo di una realtà omogenea, ma parliamo di tante presenze che hanno dovuto convivere e che quindi, di tanto in tanto, trovano delle frizioni. E’ chiaro che in una concezione moderna di Stato, in cui i confini sono una realtà molto relativa, noi dobbiamo chiederci: che futuro avrà questo Iraq, di cui parliamo, quello cioè uscito dal 1920 in poi? Praticamente dopo l’ultima Guerra del Golfo – 13 anni fa – l’Iraq politicamente è cambiato, ma le entità interne politico-religiose sono rimaste: pensiamo agli sciiti che rivendicano – essendo la maggioranza – il loro ruolo; pensiamo ai sunniti che avevano invece da sempre il potere e che quindi non accettano di essere sotto una leadership sciita che controlla l’economia e la politica; pensiamo anche ai curdi che da sempre hanno rivendicato una loro entità culturale, linguistica, oltre che territoriale; e pensiamo poi alle altre piccole minoranze, come sono i cristiani. E’ chiaro che i cristiani sono sempre vissuti n mezzo a tutti: non hanno mai avuto storicamente – da quando è nato l’Iraq – una rivendicazione territoriale. Hanno sempre rivendicato, per così dire: noi siamo qui – ad esempio – nella Piana di Ninive, vogliamo continuare a vivere secondo le nostre tradizioni. Ma non era politica e nemmeno amministrativa particolare. Dunque le piccole minoranze e gli stessi yazidi, sono praticamente vissuti nella realtà in cui tradizionalmente sono convissuti. Queste piccole minoranze si sono sempre adattate alle grandi maggioranze. Allora, quale futuro ci può essere in una realtà sciita molto forte? In una realtà sunnita molto forte? In una realtà curda molto forte? Dietro di loro ci sono poi altri potentati: pensiamo ai sunniti, pensiamo agli sciiti dell’Iran, pensiamo ai curdi anche di altre parti… Ecco, bisogna allora uscire da una logica in cui ci si identifica solamente con i confini ed entrare nella logica di convivenza nel profondo rispetto gli uni degli altri. E questa non è tolleranza, ma è rispetto dei diritti. La tolleranza è una concessione: “io permetto a te di stare qui o di avere questo o di avere quell’altro”… Se noi passiamo ad una nuova logica, che è quella del diritto di ciascuno di vivere in quanto cittadino, i diritti umani, i diritti sociali, i diritti politici, che tutti devono avere, è chiaro che questo può permettere una convivenza. Ma bisogna anche uscire dalla logica di chi è maggioranza che usa il potere come se fosse poi una dittatura - “comando solo io, solo perché siamo una maggioranza” – che è una rivendicazione rispetto a quanto, per esempio, i sunniti avevano il potere, al tempo del Baath, e praticamente come minoranza usavano il potere soltanto dal loro punto di vista e quindi come una dittatura, come un regime. Ecco, anche lì bisogna cambiare le menti, ma per questo ci vuole ovviamente del tempo. E’ una prospettiva nella quale lavorare, ma se non c’è la pace, se non c’è questa buona volontà, ovviamente anche l’Iraq e il Medio Oriente rimarranno terre difficili dove vivere.
“La Chiesa in Iraq” questo il titolo del libro scritto dal cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Il volume ripercorre la storia, lo sviluppo e la missione della chiesa irachena, dagli inizi ai nostri giorni. “Una Chiesa eroica”, come l’hanno definita Benedetto XVI e Papa Francesco, che anche oggi sta dando una testimonianza di fede a causa delle persecuzioni dei jihadisti dell’Is. Il card. Filoni è stato 5 anni nunzio apostolico in Iraq durante la Guerra del Golfo e Papa Francesco lo ha inviato due volte in missione tra i profughi iracheni. Al microfono di Roberto Piermarini il porporato spiega quanto è viva la preoccupazione del Papa per i cristiani iracheni:
E’ vivissima per vari motivi. Innanzitutto perché i cristiani in questo momento insieme alle altre piccole minoranze sono i poveri, veramente i poveri di questa situazione perché hanno dovuto abbandonare tutto, non solo le proprie case ma anche i propri averi e anche quel poco, rimanendo con quel poco che avevano addosso. Grazie alla solidarietà internazionale e soprattutto all’appello del Papa, quando mi inviava un anno fa in Iraq, soprattutto nel Kurdistan, a visitare i nostri cristiani e le minoranze, che erano state cacciate via da Isis… Il Papa ha avuto un ruolo importante e tutti glielo riconoscono per aver focalizzato l’attenzione internazionale sulla situazione di guerra e comunque dei nostri cristiani, che sono stati cacciati. Quindi grande attenzione perché oggi sono i poveri di questa situazione insieme alle altre minoranze e poi perché la guerra è sempre un’ingiustizia: la sopportano le popolazioni. E qui vediamo che tutte le popolazioni e non solo quelle cristiane, anche quelle musulmane, anche le altre minoranze, portano le conseguenze della distruzione, della morte, delle famiglie divise. Quindi questa grande attenzione per una situazione politica che purtroppo pesa come sempre sulla popolazione e su coloro che sono i più fragili.
Lei è stato nunzio apostolico in Iraq proprio durante la Guerra del Golfo ed è tornato come inviato del Papa due volte in Iraq. Quale è stata la sua esperienza di questi due incontri che lei ha avuto con la popolazione irachena e con i cristiani iracheni?
Il primo è stato un incontro scioccante perché ci trovavamo in mezzo a loro, in mezzo a migliaia di famiglie che erano fuggite e dormivano per terra, dove era possibile, sotto gli alberi, in situazioni assolutamente disumane, con un caldo che - si sa - durante l’estate in Iraq arriva anche a 45, 48 gradi. Quindi immaginiamo questa povera popolazione scappata via senza acqua, senza condizioni tali da poter vivere dignitosamente e decentemente, anche con tutti i problemi legati anche alle malattie, al cibo, all’acqua potabile… Quindi uno choc formidabile per come queste famiglie nel giro di 24 ore si siano venute a trovare. La seconda visita è stata quasi per far sentire ai nostri cristiani e alle altre minoranze che ho visitato che non ci siamo dimenticati di loro: voleva essere un gesto, come il Papa usa dire spesso, una “carezza”, una carezza che non va fatta una volta, va anche ripetuta perché questa gente senta che noi siamo vicino a loro e non li abbiamo dimenticati. E la cosa bella in questa seconda circostanza è stata che in questo caso ho potuto portare, era il periodo di Pasqua, la colomba pasquale donata da tante famiglie di Roma. Quindi non c’era solamente la solidarietà del Papa ma c’era anche la solidarietà, l’affetto, la stima, l’incoraggiamento, il pensiero di tante famiglie della diocesi del Papa. Quindi la prima visita è stata una condivisione delle sofferenze. La seconda io l’ho definita un “pellegrinaggio” perché era il periodo della Settimana Santa e quindi vedevo il calvario, la sofferenza, la via crucis di questa gente.
Cosa rappresentano oggi i cristiani in Iraq?
La cosa interessante è non solo ciò che noi pensiamo dei nostri cristiani. E sappiamo bene, poi il mio libro lo descrive, proprio in questa storia, in questo sviluppo loro hanno una parte fondamentale perché hanno contribuito alla vita, alla tradizione, alla cultura di questa terra. Ma non è solo quello che noi pensiamo e che io ho cercato di far vedere attraverso le vicende di quasi 2000 anni di storia ma soprattutto ciò che pensano anche gli altri. Perché sono tanti, alcuni lo dicono, me l’hanno detto, altri lo pensano, altri forse non lo dicono: i nostri cristiani sono parte integrante della storia della vita del Medio Oriente in generale e della vita dell’Iraq in particolare. Io penso che questa sia una cosa molto bella. Anche le stesse autorità, dicono: “Voi avete il diritto nativo di stare qui. Noi siamo venuti dopo, sia come religione dell’islam sia anche come popoli che in questa terra - che è stata sempre una terra di passaggio dove tutti poi si sono innamorati e sono rimasti - abbiamo trovato anche noi, dopo di voi, un posto. Quindi non possiamo non riconoscere questa tradizione che voi avete, questo diritto nativo di stare qui”. Ora, non è una questione puramente accademica ma effettivamente poi i nostri cristiani attraverso l’educazione dei propri figli, attraverso le capacità che hanno saputo esprimere nel contesto anche di una realtà islamica molto più vasta, sia sciita sia sunnita, hanno portato il contributo straordinario delle loro capacità o acquisite, a volte attraverso i figli che studiavano all’estero, ma anche attraverso le loro culture e le loro tradizioni. D’altronde non dimentichiamo che questa è anche la terra dove la cultura occidentale ha messo le radici.
Cardinale Filoni, c’è un capitolo del suo libro che dice: “Quale Iraq oggi?”. Io le chiedo se c’è il rischio di una spartizione settaria del Paese tra curdi, sunniti e sciiti? E qual il futuro per la minoranza cristiana?
Io mi rifaccio, normalmente, un po’ a come è nato l’Iraq e come sono nati tutti gli altri Paesi, compresi la Giordania, la Siria, il Libano e la stessa Turchia: sono nate da un collasso dell’Impero Ottomano, circa 90 anni fa. Era il 1920, quando si stipulava in Europa la divisione dell’Impero Ottamano e si creavano i regni della Giordania, dell’Iraq, dell’Arabia Saudita; la Turchia stessa ne usciva ridimensionata dopo la I Guerra Mondiale. Dunque non è un luogo o una terra in cui c’è una antichissima tradizione nel senso di unità di Stato: c’erano molte nazionalità, molte etnie, molti gruppi che convivevano. Proprio questo fatto ha creato anche tante tensioni, perché la formazione degli Stati è stata una formazione voluta in Occidente e non rispondeva alle esigenze locali. Questo non è mai stato del tutto superato: è stato sempre un elemento che, in vari momenti, è stato ripreso per lotte e per rivendicazioni. Pensiamo anche alla guerra in Kuwait, perché in fondo il Kuwait è una realtà costruita solo dopo: le tribù vivevano e passavano dalla parte del deserto oggi iracheno, alla parte del deserto del Kuwait senza alcuna difficoltà… E così si potrebbe dire anche di altre parti. I curdi si sono sentiti traditi, al momento della formazione di questi Stati, per non essere stati riconosciuti come una entità che aveva il diritto ad uno Stato: questo li ha poi portati a delle lotte. Quindi non parliamo di una realtà omogenea, ma parliamo di tante presenze che hanno dovuto convivere e che quindi, di tanto in tanto, trovano delle frizioni. E’ chiaro che in una concezione moderna di Stato, in cui i confini sono una realtà molto relativa, noi dobbiamo chiederci: che futuro avrà questo Iraq, di cui parliamo, quello cioè uscito dal 1920 in poi? Praticamente dopo l’ultima Guerra del Golfo – 13 anni fa – l’Iraq politicamente è cambiato, ma le entità interne politico-religiose sono rimaste: pensiamo agli sciiti che rivendicano – essendo la maggioranza – il loro ruolo; pensiamo ai sunniti che avevano invece da sempre il potere e che quindi non accettano di essere sotto una leadership sciita che controlla l’economia e la politica; pensiamo anche ai curdi che da sempre hanno rivendicato una loro entità culturale, linguistica, oltre che territoriale; e pensiamo poi alle altre piccole minoranze, come sono i cristiani. E’ chiaro che i cristiani sono sempre vissuti n mezzo a tutti: non hanno mai avuto storicamente – da quando è nato l’Iraq – una rivendicazione territoriale. Hanno sempre rivendicato, per così dire: noi siamo qui – ad esempio – nella Piana di Ninive, vogliamo continuare a vivere secondo le nostre tradizioni. Ma non era politica e nemmeno amministrativa particolare. Dunque le piccole minoranze e gli stessi yazidi, sono praticamente vissuti nella realtà in cui tradizionalmente sono convissuti. Queste piccole minoranze si sono sempre adattate alle grandi maggioranze. Allora, quale futuro ci può essere in una realtà sciita molto forte? In una realtà sunnita molto forte? In una realtà curda molto forte? Dietro di loro ci sono poi altri potentati: pensiamo ai sunniti, pensiamo agli sciiti dell’Iran, pensiamo ai curdi anche di altre parti… Ecco, bisogna allora uscire da una logica in cui ci si identifica solamente con i confini ed entrare nella logica di convivenza nel profondo rispetto gli uni degli altri. E questa non è tolleranza, ma è rispetto dei diritti. La tolleranza è una concessione: “io permetto a te di stare qui o di avere questo o di avere quell’altro”… Se noi passiamo ad una nuova logica, che è quella del diritto di ciascuno di vivere in quanto cittadino, i diritti umani, i diritti sociali, i diritti politici, che tutti devono avere, è chiaro che questo può permettere una convivenza. Ma bisogna anche uscire dalla logica di chi è maggioranza che usa il potere come se fosse poi una dittatura - “comando solo io, solo perché siamo una maggioranza” – che è una rivendicazione rispetto a quanto, per esempio, i sunniti avevano il potere, al tempo del Baath, e praticamente come minoranza usavano il potere soltanto dal loro punto di vista e quindi come una dittatura, come un regime. Ecco, anche lì bisogna cambiare le menti, ma per questo ci vuole ovviamente del tempo. E’ una prospettiva nella quale lavorare, ma se non c’è la pace, se non c’è questa buona volontà, ovviamente anche l’Iraq e il Medio Oriente rimarranno terre difficili dove vivere.