Lorenzo Cremonesi
«Porgere l’altra guancia? Un errore. Siamo cristiani, crediamo nella pace, però non vogliamo morire come martiri imbelli. Dagli assassini dello Stato Islamico dobbiamo difenderci con le armi. Non sarà un modo di fare troppo cristiano, è vero. Ma, se vogliamo che le chiese del Medio Oriente continuino a esistere, non ci resta che una strada: combattere».
Arrivando tra i volontari delle nuove milizie cristiane non è difficile raccogliere la reazione coerente alla disperazione che l’agosto scorso echeggiava tra le basiliche di Erbil.
«Dateci fucili e munizioni. Se nessuno ci difende, lo faremo noi!» protestavano i profughi in fuga da Mosul e dai villaggi limitrofi della piana di Ninive, culla storica del cristianesimo mesopotamico. L’Isis li aveva derubati di tutto, umiliati, espulsi dalle loro case, cacciati dalle basiliche dissacrate; i peshmerga curdi erano fuggiti senza quasi avvisarli; l’esercito di Bagdad si era sciolto come neve al sole. E loro si sentivano vittime dell’estremismo islamico, ma anche alla mercé di alleati inaffidabili.
Che fare? La risposta sta scritta sui gagliardetti appesi ai muri dei loro nuovi centri di addestramento, sui volantini distribuiti nei campi profughi, cucita sulle uniformi stirate di fresco. Leggi in inglese «Npu», che sta per: «Unità di protezione della piana di Niniveh». E ritrovi la volontà di reagire alla forza con la forza, di lottare contro il sopruso eletto a sistema da un avversario crudele. Va però detto che i cristiani pronti a combattere inquadrati in milizie indipendenti sono ancora pochi, forse un migliaio. Tra loro sono arrivati assiri dalle comunità della diaspora, specie svedese. Si aggiungono qualche volontario americano e un paio di canadesi. «Cresciamo. Le violenze degli ultimi giorni contro le comunità assire nel Nordest della Siria sono destinate a generare altri volontari» racconta Athra Mansour Kado, 25enne ufficiale che opera nel loro campo di addestramento principale presso il villaggio di Al Qosh. Il riferimento è alle centinaia di civili assiri (forse oltre 400) rapiti dall’Isis a partire da lunedì. Pare siano stati trasportati nella roccaforte di Shaddadeh e a Raqqa, considerate la capitale degli jihadisti sunniti in Siria.
Ad Al Qosh nessuno nasconde l’estrema impreparazione delle nuove unità. «Ci mancano armi pesanti. Ognuno di noi contribuisce con i propri risparmi per l’acquisto del kalashnikov personale e delle munizioni. Possiamo fare molto poco contro gli autoblindo, i mortai e persino i carri armati che Isis ha catturato all’esercito iracheno. Ma non importa, il nostro è un inizio, un segnale di risveglio. Speriamo che l’Europa e gli Stati Uniti ci mandino aiuti» osserva il 47enne Fuad Massud, ex ufficiale delle forze speciali nel vecchio esercito di Saddam Hussein. La loro speranza è poter cooperare con le forze militari curde. Ma due filosofie opposte caratterizzano il loro rapporto. Se i curdi si concepiscono come il braccio militare del loro futuro Stato indipendente, i cristiani al contrario sperano tutt’ora in un Iraq unitario con un forte governo centrale. Tanti cristiani ricordano Saddam Hussein come un protettore, una garanzia di difesa. Per i curdi resta invece il nemico storico, per fortuna scomparso per sempre. Inoltre le gerarchie ecclesiastiche locali non hanno una posizione unitaria riguardo alle milizie confessionali. In alcuni ambienti, per esempio il vescovado di Mosul rifugiato ad Erbil, sono viste con simpatia. In altri legati al Vaticano non mancano invece inquietudini. «All’Iraq non fa per nulla bene l’ennesima milizia legata a interessi particolari» dice tra i tanti padre Ghazuzian Baho della basilica di San Giorgio ad Al Qosh.
Ma per il momento prevale l’emergenza. Molti cristiani combattono volontari con i curdi siriani dello Ypg, con gli stessi peshmerga e nei ranghi degli eserciti regolari sia iracheno che siriano. Per gli uomini delle «Unità di protezione della piana di Niniveh» l’obbiettivo prioritario resta la riconquista delle loro case a Mosul, dei borghi e villaggi tutto attorno.
«È giunto finalmente il tempo che i cristiani lottino per i loro interessi» dicono ad Al Qosh.
«Porgere l’altra guancia? Un errore. Siamo cristiani, crediamo nella pace, però non vogliamo morire come martiri imbelli. Dagli assassini dello Stato Islamico dobbiamo difenderci con le armi. Non sarà un modo di fare troppo cristiano, è vero. Ma, se vogliamo che le chiese del Medio Oriente continuino a esistere, non ci resta che una strada: combattere».
Arrivando tra i volontari delle nuove milizie cristiane non è difficile raccogliere la reazione coerente alla disperazione che l’agosto scorso echeggiava tra le basiliche di Erbil.
«Dateci fucili e munizioni. Se nessuno ci difende, lo faremo noi!» protestavano i profughi in fuga da Mosul e dai villaggi limitrofi della piana di Ninive, culla storica del cristianesimo mesopotamico. L’Isis li aveva derubati di tutto, umiliati, espulsi dalle loro case, cacciati dalle basiliche dissacrate; i peshmerga curdi erano fuggiti senza quasi avvisarli; l’esercito di Bagdad si era sciolto come neve al sole. E loro si sentivano vittime dell’estremismo islamico, ma anche alla mercé di alleati inaffidabili.
Che fare? La risposta sta scritta sui gagliardetti appesi ai muri dei loro nuovi centri di addestramento, sui volantini distribuiti nei campi profughi, cucita sulle uniformi stirate di fresco. Leggi in inglese «Npu», che sta per: «Unità di protezione della piana di Niniveh». E ritrovi la volontà di reagire alla forza con la forza, di lottare contro il sopruso eletto a sistema da un avversario crudele. Va però detto che i cristiani pronti a combattere inquadrati in milizie indipendenti sono ancora pochi, forse un migliaio. Tra loro sono arrivati assiri dalle comunità della diaspora, specie svedese. Si aggiungono qualche volontario americano e un paio di canadesi. «Cresciamo. Le violenze degli ultimi giorni contro le comunità assire nel Nordest della Siria sono destinate a generare altri volontari» racconta Athra Mansour Kado, 25enne ufficiale che opera nel loro campo di addestramento principale presso il villaggio di Al Qosh. Il riferimento è alle centinaia di civili assiri (forse oltre 400) rapiti dall’Isis a partire da lunedì. Pare siano stati trasportati nella roccaforte di Shaddadeh e a Raqqa, considerate la capitale degli jihadisti sunniti in Siria.
Ad Al Qosh nessuno nasconde l’estrema impreparazione delle nuove unità. «Ci mancano armi pesanti. Ognuno di noi contribuisce con i propri risparmi per l’acquisto del kalashnikov personale e delle munizioni. Possiamo fare molto poco contro gli autoblindo, i mortai e persino i carri armati che Isis ha catturato all’esercito iracheno. Ma non importa, il nostro è un inizio, un segnale di risveglio. Speriamo che l’Europa e gli Stati Uniti ci mandino aiuti» osserva il 47enne Fuad Massud, ex ufficiale delle forze speciali nel vecchio esercito di Saddam Hussein. La loro speranza è poter cooperare con le forze militari curde. Ma due filosofie opposte caratterizzano il loro rapporto. Se i curdi si concepiscono come il braccio militare del loro futuro Stato indipendente, i cristiani al contrario sperano tutt’ora in un Iraq unitario con un forte governo centrale. Tanti cristiani ricordano Saddam Hussein come un protettore, una garanzia di difesa. Per i curdi resta invece il nemico storico, per fortuna scomparso per sempre. Inoltre le gerarchie ecclesiastiche locali non hanno una posizione unitaria riguardo alle milizie confessionali. In alcuni ambienti, per esempio il vescovado di Mosul rifugiato ad Erbil, sono viste con simpatia. In altri legati al Vaticano non mancano invece inquietudini. «All’Iraq non fa per nulla bene l’ennesima milizia legata a interessi particolari» dice tra i tanti padre Ghazuzian Baho della basilica di San Giorgio ad Al Qosh.
Ma per il momento prevale l’emergenza. Molti cristiani combattono volontari con i curdi siriani dello Ypg, con gli stessi peshmerga e nei ranghi degli eserciti regolari sia iracheno che siriano. Per gli uomini delle «Unità di protezione della piana di Niniveh» l’obbiettivo prioritario resta la riconquista delle loro case a Mosul, dei borghi e villaggi tutto attorno.
«È giunto finalmente il tempo che i cristiani lottino per i loro interessi» dicono ad Al Qosh.
Cinque o sei ore al giorno sono dedicate all’addestramento, alla
ginnastica e alle esercitazioni in poligono. Ma queste ultime con
parsimonia, visto che le munizioni costano caro. Per ora hanno
costituito unità di guardia attorno all’area urbana. Pattuglie avanzate
arrivano ai villaggi abbandonati di Baqufa e Teleskof. Qui sono sempre
in collegamento radio con i comandi curdi. «Le avanguardie di Isis sono a
meno di 17 chilometri da noi, vicino a Mosul» spiega guardingo Kado,
indicando nella notte le zone illuminate dei villaggi jihadisti.