Alberto Fabio Ambrosio
Non si può leggere l’intervista al patriarca caldeo Louis Raphaël Sako senza essere commossi (Ne nous oubliez pas! Le Sos du patriarche des chrétiens d’Irak. Entretien avec Laurence Desjoyaux, Paris, Bayard, 2015). Ho dovuto trattenermi più volte per non cedere a un pianto a dirotto, quasi infantile. La testimonianza che il patriarca offre è quanto mai toccante, intensa, pura e, per dirla con un solo aggettivo, evangelica.
Avevo incontrato Louis Sako, una prima volta — quando ancora era vescovo di Kirkuk — alcuni anni fa in occasione di un convegno sulla storia di Antiochia organizzato dalla fondazione Paolo VI a Villa Cagnola presso Varese. Sapendo che vivevo a Istanbul, la conversazione è stata intensa, sempre attento a intessere vere relazioni umane e ascoltare l’altrui esperienza. Poi l’ho rivisto a Istanbul nel mese di giugno 2014, quando la tempesta della ferocia umana iniziava a imperversare nel suo paese d’origine, l’Iraq.
Ogni volta che l’ho sentito parlare ho avuto conferma di quanto già percepito vivendo con la piccola comunità caldea della parrocchia di Nostra Signora del Santo Rosario a Istanbul. I caldei sembrano avere ereditato una dolcezza e una tenerezza tutte particolari, che provengono probabilmente dal fatto che parlano la lingua più vicina a Gesù che sia ancora oggi utilizzata, il suret parente strettissimo dell’aramaico. Viene dal fatto che questo popolo, cristianizzato nel corso della storia millenaria, ha sofferto in silenzio e pazientemente tutte le persecuzioni a cui è stato sottoposto. Raphaël Louis Sako testimonia della sensibilità di questi fedeli dal particolare rito cattolico orientale.
L’intervista è percorsa da un capo all’altro da un sentimento di sofferenza subita durante il corso dei secoli. L’attuale patriarca ha da sempre dovuto convivere con il conflitto e superare una guerra dopo l’altra: quella tra Iran e Iraq, poi quella tra Iraq e Kuwait, poi l’embargo, i bombardamenti degli alleati, la caduta di Saddam Hussein, infine la lotta fratricida e oggi la barbarie del sedicente Stato islamico (Is). Il racconto delle conquiste dell’Is a partire dal 10 giugno scorso è quello di un’escalation di violenza. Difficile capacitarsene, benché le sue analisi siano pertinenti e permettano di capire tra le linee i fattori, le cause e gli obiettivi di un tale caos.
Il suo è un Sos accorato che scaturisce dalla sua sensibilità pastorale e da un’acuta intelligenza messa a profitto dell’azione. Si ha voglia di piangere leggendo queste righe perché, dietro alle parole di Sako, si legge il Vangelo, l’umanità rinnovata dall’amore e dalla bontà di Cristo. Da quando è stato ordinato vescovo, il suo stile non è stato quello di rifugiarsi nel recinto delle proprie pecore, ma quello di annunciarsi come pastore per tutti, musulmani compresi. Il sacerdozio è per tutti, non per una fascia sola, queste parole dovrebbero essere meditate a lungo, come antidoto alla tentazione di trincerarsi in ristrette comunità di vita. Il patriarca caldeo ha vissuto e continua a vivere una forma di amicizia allargata, formando le nuove generazioni a degli atteggiamenti altrettanto profondi.
Quando è stato direttore in seminario, a Mosul, non ha atteso molto tempo per riformarlo da cima a fondo, puntando sulla formazione vera del cuore e della persona. Per il patriarca, l’amicizia è il fondamento del dialogo. Ma non si tratta di un’amicizia solo teorizzata, bensì di relazioni umane con i suoi fedeli e con tutti i musulmani, sunniti e sciiti. Infatti, si può anche arrivare a parlare ed essere specialista di dialogo, senza mai incontrare le persone in carne e ossa. L’amicizia, invece, fa sì che nel momento di emergenza, il fratello musulmano possa proteggere e aiutare il fratello cristiano, proprio come è capitato in talune occasioni da quando lo Stato islamico ha fatto la sua apparizione.
Le parole di Sako infondono la gioia di essere cristiani, di testimoniare fino in fondo e non a metà soltanto come talvolta capita tra i cristiani dell’occidente. Il patriarca caldeo lo dice a chiare lettere: i cristiani d’oriente possono aiutare da un lato una certa debolezza di testimonianza dei cristiani in occidente e dall’altro l’islam diviso in numerose tendenze. I caldei come il patriarca e i fedeli della sua comunità ormai sparsa in tutta la terra, rendono l’Incarnazione di Cristo sempre operante e ben visibile e rendono viva la tenerezza di Dio per i suoi figli.
Al Sos del patriarca, se non possiamo fare altro, si può almeno rispondere con la preghiera semplice e costante.
Non si può leggere l’intervista al patriarca caldeo Louis Raphaël Sako senza essere commossi (Ne nous oubliez pas! Le Sos du patriarche des chrétiens d’Irak. Entretien avec Laurence Desjoyaux, Paris, Bayard, 2015). Ho dovuto trattenermi più volte per non cedere a un pianto a dirotto, quasi infantile. La testimonianza che il patriarca offre è quanto mai toccante, intensa, pura e, per dirla con un solo aggettivo, evangelica.
Avevo incontrato Louis Sako, una prima volta — quando ancora era vescovo di Kirkuk — alcuni anni fa in occasione di un convegno sulla storia di Antiochia organizzato dalla fondazione Paolo VI a Villa Cagnola presso Varese. Sapendo che vivevo a Istanbul, la conversazione è stata intensa, sempre attento a intessere vere relazioni umane e ascoltare l’altrui esperienza. Poi l’ho rivisto a Istanbul nel mese di giugno 2014, quando la tempesta della ferocia umana iniziava a imperversare nel suo paese d’origine, l’Iraq.
Ogni volta che l’ho sentito parlare ho avuto conferma di quanto già percepito vivendo con la piccola comunità caldea della parrocchia di Nostra Signora del Santo Rosario a Istanbul. I caldei sembrano avere ereditato una dolcezza e una tenerezza tutte particolari, che provengono probabilmente dal fatto che parlano la lingua più vicina a Gesù che sia ancora oggi utilizzata, il suret parente strettissimo dell’aramaico. Viene dal fatto che questo popolo, cristianizzato nel corso della storia millenaria, ha sofferto in silenzio e pazientemente tutte le persecuzioni a cui è stato sottoposto. Raphaël Louis Sako testimonia della sensibilità di questi fedeli dal particolare rito cattolico orientale.
L’intervista è percorsa da un capo all’altro da un sentimento di sofferenza subita durante il corso dei secoli. L’attuale patriarca ha da sempre dovuto convivere con il conflitto e superare una guerra dopo l’altra: quella tra Iran e Iraq, poi quella tra Iraq e Kuwait, poi l’embargo, i bombardamenti degli alleati, la caduta di Saddam Hussein, infine la lotta fratricida e oggi la barbarie del sedicente Stato islamico (Is). Il racconto delle conquiste dell’Is a partire dal 10 giugno scorso è quello di un’escalation di violenza. Difficile capacitarsene, benché le sue analisi siano pertinenti e permettano di capire tra le linee i fattori, le cause e gli obiettivi di un tale caos.
Il suo è un Sos accorato che scaturisce dalla sua sensibilità pastorale e da un’acuta intelligenza messa a profitto dell’azione. Si ha voglia di piangere leggendo queste righe perché, dietro alle parole di Sako, si legge il Vangelo, l’umanità rinnovata dall’amore e dalla bontà di Cristo. Da quando è stato ordinato vescovo, il suo stile non è stato quello di rifugiarsi nel recinto delle proprie pecore, ma quello di annunciarsi come pastore per tutti, musulmani compresi. Il sacerdozio è per tutti, non per una fascia sola, queste parole dovrebbero essere meditate a lungo, come antidoto alla tentazione di trincerarsi in ristrette comunità di vita. Il patriarca caldeo ha vissuto e continua a vivere una forma di amicizia allargata, formando le nuove generazioni a degli atteggiamenti altrettanto profondi.
Quando è stato direttore in seminario, a Mosul, non ha atteso molto tempo per riformarlo da cima a fondo, puntando sulla formazione vera del cuore e della persona. Per il patriarca, l’amicizia è il fondamento del dialogo. Ma non si tratta di un’amicizia solo teorizzata, bensì di relazioni umane con i suoi fedeli e con tutti i musulmani, sunniti e sciiti. Infatti, si può anche arrivare a parlare ed essere specialista di dialogo, senza mai incontrare le persone in carne e ossa. L’amicizia, invece, fa sì che nel momento di emergenza, il fratello musulmano possa proteggere e aiutare il fratello cristiano, proprio come è capitato in talune occasioni da quando lo Stato islamico ha fatto la sua apparizione.
Le parole di Sako infondono la gioia di essere cristiani, di testimoniare fino in fondo e non a metà soltanto come talvolta capita tra i cristiani dell’occidente. Il patriarca caldeo lo dice a chiare lettere: i cristiani d’oriente possono aiutare da un lato una certa debolezza di testimonianza dei cristiani in occidente e dall’altro l’islam diviso in numerose tendenze. I caldei come il patriarca e i fedeli della sua comunità ormai sparsa in tutta la terra, rendono l’Incarnazione di Cristo sempre operante e ben visibile e rendono viva la tenerezza di Dio per i suoi figli.
Al Sos del patriarca, se non possiamo fare altro, si può almeno rispondere con la preghiera semplice e costante.
Non si può leggere l’intervista
al patriarca caldeo Louis Raphaël Sako senza essere commossi (Ne nous oubliez
pas! Le Sos du patriarche des chrétiens d’Irak. Entretien avec Laurence
Desjoyaux, Paris, Bayard, 2015). Ho dovuto trattenermi più volte per non cedere
a un pianto a dirotto, quasi infantile. La testimonianza che il patriarca offre
è quanto mai toccante, intensa, pura e, per dirla con un solo aggettivo,
evangelica.
Avevo incontrato Louis
Sako, una
prima volta — quando ancora era vescovo di Kirkuk — alcuni anni fa in
occasione
di un convegno sulla storia di Antiochia organizzato dalla fondazione
Paolo VI a Villa Cagnola presso Varese. Sapendo che vivevo a Istanbul,
la conversazione
è stata intensa, sempre attento a intessere vere relazioni umane e
ascoltare
l’altrui esperienza. Poi l’ho rivisto a Istanbul nel mese di giugno
2014,
quando la tempesta della ferocia umana iniziava a imperversare nel suo
paese
d’origine, l’Iraq.
Ogni volta che l’ho sentito parlare ho avuto
conferma di quanto già percepito vivendo con la piccola comunità caldea della
parrocchia di Nostra Signora del Santo Rosario a Istanbul. I caldei sembrano
avere ereditato una dolcezza e una tenerezza tutte particolari, che provengono
probabilmente dal fatto che parlano la lingua più vicina a Gesù che sia ancora
oggi utilizzata, il suret parente strettissimo dell’aramaico. Viene dal fatto
che questo popolo, cristianizzato nel corso della storia millenaria, ha
sofferto in silenzio e pazientemente tutte le persecuzioni a cui è stato
sottoposto. Raphaël Louis Sako testimonia della sensibilità di questi fedeli
dal particolare rito cattolico orientale.
L’intervista è percorsa da un capo all’altro
da un sentimento di sofferenza subita durante il corso dei secoli. L’attuale
patriarca ha da sempre dovuto convivere con il conflitto e superare una guerra
dopo l’altra: quella tra Iran e Iraq, poi quella tra Iraq e Kuwait, poi
l’embargo, i bombardamenti degli alleati, la caduta di Saddam Hussein, infine
la lotta fratricida e oggi la barbarie del sedicente Stato islamico (Is). Il
racconto delle conquiste dell’Is a partire dal 10 giugno scorso è quello di
un’escalation di violenza. Difficile capacitarsene, benché le sue analisi siano
pertinenti e permettano di capire tra le linee i fattori, le cause e gli
obiettivi di un tale caos.
Il suo è un Sos accorato che scaturisce dalla
sua sensibilità pastorale e da un’acuta intelligenza messa a profitto
dell’azione. Si ha voglia di piangere leggendo queste righe perché, dietro alle
parole di Sako, si legge il Vangelo, l’umanità rinnovata dall’amore e dalla
bontà di Cristo. Da quando è stato ordinato vescovo, il suo stile non è stato quello di rifugiarsi nel recinto
delle proprie pecore, ma quello di annunciarsi come pastore per tutti,
musulmani compresi. Il sacerdozio è per tutti, non per una fascia sola, queste
parole dovrebbero essere meditate a lungo, come antidoto alla tentazione di
trincerarsi in ristrette comunità di vita. Il patriarca caldeo ha vissuto e continua a vivere una forma di
amicizia allargata, formando le nuove generazioni a degli atteggiamenti
altrettanto profondi.
Quando è stato direttore in seminario, a
Mosul, non ha atteso molto tempo per riformarlo da cima a fondo, puntando sulla
formazione vera del cuore e della persona. Per il patriarca, l’amicizia è il
fondamento del dialogo. Ma non si tratta di un’amicizia solo teorizzata, bensì di relazioni umane con i suoi fedeli e
con tutti i musulmani, sunniti e sciiti. Infatti, si può anche arrivare a
parlare ed essere specialista di dialogo, senza mai incontrare le persone in
carne e ossa. L’amicizia, invece, fa sì che nel momento di emergenza, il
fratello musulmano possa proteggere e aiutare il fratello cristiano, proprio
come è capitato in talune occasioni da quando lo Stato islamico ha fatto la sua
apparizione.
Le parole di Sako infondono la gioia di essere
cristiani, di testimoniare fino in fondo e non a metà soltanto come talvolta
capita tra i cristiani dell’occidente. Il patriarca caldeo lo dice a chiare
lettere: i cristiani d’oriente possono aiutare da un lato una certa debolezza
di testimonianza dei cristiani in occidente e dall’altro l’islam diviso in
numerose tendenze. I caldei come il patriarca e i fedeli della sua comunità
ormai sparsa in tutta la terra, rendono l’Incarnazione di Cristo sempre
operante e ben visibile e rendono viva la tenerezza di Dio per i suoi figli.
Al Sos del patriarca, se non possiamo fare
altro, si può almeno rispondere con la preghiera semplice e costante.
di Alberto Fabio Ambrosio