By Asia News
Bashar Matti Warda*
Una casa, un tetto per le famiglie cristiane che hanno abbandonato Mosul e i villaggi della piana di Ninive la scorsa estate, per sfuggire alle violenze dello Stato islamico; famiglie che, da mesi, sono costrette a sopravvivere nei campi profughi, nei centri di accoglienza e nelle scuole di Erbil e del Kurdistan irakeno, grazie all'impegno e alla generosità della Chiesa caldea. È l'appello rivolto ieri da mons. Bashar Matti Warda, arcivescovo di Erbil, ai membri del Sinodo generale della Chiesa anglicana. Il prelato ha ricordato le sofferenze e le difficoltà vissute dai cristiani irakeni nella loro storia millenaria, ma ha anche aggiunto che di questa presenza potrebbe non rimanere traccia in Mesopotamia.
In precedenza mons. Warda aveva tenuto un discorso al Parlamento britannico, in cui aveva chiesto con urgenza "un'azione militare di terra", perché i soli raid aerei non bastano per sconfiggere le milizie jihadiste che hanno conquistato Mosul e parte del nord e dell'ovest dell'Iraq. Il prelato ha "implorato" i governi occidentali affinché schierino truppe sul campo, unica via per battere i miliziani e consentire ai cristiani di tornare nelle loro abitazioni.
Ecco, di seguito, l'intervento integrale di mons. Warda al Sinodo anglicano, inviato ad AsiaNews:
Mi rivolgo a voi,
Bashar Matti Warda*
Una casa, un tetto per le famiglie cristiane che hanno abbandonato Mosul e i villaggi della piana di Ninive la scorsa estate, per sfuggire alle violenze dello Stato islamico; famiglie che, da mesi, sono costrette a sopravvivere nei campi profughi, nei centri di accoglienza e nelle scuole di Erbil e del Kurdistan irakeno, grazie all'impegno e alla generosità della Chiesa caldea. È l'appello rivolto ieri da mons. Bashar Matti Warda, arcivescovo di Erbil, ai membri del Sinodo generale della Chiesa anglicana. Il prelato ha ricordato le sofferenze e le difficoltà vissute dai cristiani irakeni nella loro storia millenaria, ma ha anche aggiunto che di questa presenza potrebbe non rimanere traccia in Mesopotamia.
In precedenza mons. Warda aveva tenuto un discorso al Parlamento britannico, in cui aveva chiesto con urgenza "un'azione militare di terra", perché i soli raid aerei non bastano per sconfiggere le milizie jihadiste che hanno conquistato Mosul e parte del nord e dell'ovest dell'Iraq. Il prelato ha "implorato" i governi occidentali affinché schierino truppe sul campo, unica via per battere i miliziani e consentire ai cristiani di tornare nelle loro abitazioni.
Ecco, di seguito, l'intervento integrale di mons. Warda al Sinodo anglicano, inviato ad AsiaNews:
Mi rivolgo a voi,
membri del Sinodo,
Desidero prima di tutto ringraziarvi molto per avermi invitato al
Sinodo generale della Chiesa anglicana. Vi sono riconoscente per questa
opportunità che mi avete concesso di condividere con voi il dolore e la
speranza che proviamo noi, in Iraq.
Devo confessarvi che questo discorso è, forse, il più difficile che
mi sia mai capitato di dover affrontare. Molte volte ho parlato davanti a
una platea simile a questa, composta da anime generose e piene di
riguardo, ma l'ho sempre fatto per lanciare avvertimenti su quello che
sarebbe potuto succedere, e per promuovere investimenti e far conoscere
le reali opportunità. Ma questa volta la situazione è differente.
Il cristianesimo in Iraq sta attraversando uno dei periodi peggiori e
più complicati della sua lunga storia, che risale fino al primo secolo.
In tutti questi secoli abbiamo sperimentato numerose difficoltà e
persecuzioni, nel corso delle quali abbiamo offerto carovane di
martiri.
La comunità cristiana ha arricchito la Mesopotamia in tutte le tappe
del suo percorso storico attraverso la religione, la cultura e la
civiltà, promuovendo al contempo una cultura della coesistenza,
nonostante le dolore ferite sperimentate nel corso dei secoli.
In almeno tre occasioni negli ultimi decenni i nostri fedeli sono
stati spinti a forza verso lo spostamento interno e l'emigrazione,
lasciandosi ogni volta alle spalle una storia e una cultura che in molti
hanno cercato di sopprimere e di spazzare via senza che ne rimanesse
traccia.
La popolazione cristiana di molti villaggi ha sperimentato profondi
sconvolgimenti nel periodo successivo alla fine della Seconda guerra
mondiale. E prima ancora, siamo stati vittime di atti di genocidio per
mano dei turchi ottomani durante il massacro di Safar Ber lik (Seifo)
nel 1915, e ancora il massacro di Semele del 1933 ad opera
dell'esercito irakeno. Durante la rivolta curda del 1961 e la sommossa
Soriah nel 1969 siamo stati cacciati a forza da molti villaggi e
cittadine, e ricollocati a Baghdad e Mosul.
Questi atti di genocidio, sia organizzati che dovuti al caso, così
come i continui spostamenti, si sono susseguiti senza sosta da Bassora,
Baghdad e Kirkuk anche all'indomani del cambio di regime, nel 2003.
Violenze che hanno raggiunto il loro apice con il massacro nella chiesa
siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad, nel 2010,
durante il quale decine di fedeli sono stati massacrati a sangue freddo.
A questo sono seguiti episodi di terrorismo e l'esodo del 2014, anno in
cui la popolazione cristiana ha sperimentato il peggior atto di
genocidio nella nostra madrepatria. Oggi in Mesopotamia il cristianesimo
è a rischio estinzione tanto come religione, quanto come cultura.
Carissimi fratelli e sorelle,
nell'ultimo anno appena trascorso più di 125mila cristiani hanno
dovuto abbandonare a forza i loro villaggi, solo perché hanno scelto di
restare cristiani e hanno rifiutato le condizioni imposte loro dalle
milizie dello Stato islamico. Essi hanno dovuto fuggire nel cuore della
notte, con la copertura offerta dal buio e dall'oscurità. Molti di loro
hanno compiuto il cammino del Golgotha per diverse ore, essendosi
lasciati tutto alle spalle, non possedendo altro che i vestiti che
indossavano in quel momento.
Giunti a piedi, essi hanno cercato rifugio nella regione del
Kurdistan, considerata relativamente più sicura, senza sapere se un
giorno avrebbero potuto fare rientro nelle loro case. La classificazione
politica che viene utilizzata per definire questi fratelli e sorelle è
"sfollati". E se decidono di attraversare un confine internazionale, la
loro condizione viene etichettata alla voce "rifugiati".
In questi giorni gli sfollati che vivono fra noi stanno ricevendo
notizie tristi, che parlano di saccheggi e razzie delle loro abitazioni e
della distruzione di alcune di queste, quale conseguenza delle
operazioni militari. Essi sono ormai consapevoli che la liberazione
militare di queste aree non equivarrà con la liberazione politica delle
stesse. Stiamo aspettando di sapere che i nostri villaggi siano salvi e
al sicuro. Crediamo davvero che il nostro amato Signore ci darà la
grazia di assistere a quel giorno; e quel giorno stesso faremo ritorno
alle nostre case, vuote e in rovina, ai nostri ospedali e alle nostre
scuole svuotate. E lo stesso varrà per le nostre preziose chiese, è
fonte di grande dolore per noi immaginare ciò che si aprirà davanti ai
nostri occhi, quando vi faremo ritorno. Ma siamo anche in grado di
ricostruire.
Oggi vi sono famiglie che affidano in toto la propria sopravvivenza
alla carità altrui. Meno di un anno fa, le stesse famiglie abitavano
nelle loro case ed erano più che autosufficienti, con il denaro
necessario per sopravvivere elargito con regolarità e, in alcuni casi,
persino in abbondanza. Ora preghiamo nelle tende, avendo lasciato alle
spalle dietro di noi chiese antiche che hanno vissuto la storia di un
cristianesimo rigoglioso, benedetto grazie alla forza di volontà dei
fedeli e alla testimonianza dei martiri.
Troppe famiglie hanno perso fiducia nella loro terra. E questo non
dovrebbe sorprendere nessuno. La patria dei cristiani li ha respinti e
cacciati via. Essi hanno scelto di emigrare verso l'ignoto, fiduciosi
del fatto che saranno più al sicuro. La strada verso l'emigrazione è
costellata da una lunga coda. I nostri amici e le nostre famiglie sono
allineate in coda, in attesa da mesi e anni in Turchia, Libano e
Giordania, per usufruire della possibilità di muoversi ancora, forse per
l'ultima volta, verso il Nord America, l'Europa o l'Australia. La
differenza di prospettiva fra uno sfollato interno (Idp) e un rifugiato è
che il secondo ha preso la decisione finale di andarsene. La crisi dei
profughi che stiamo vivendo oggi in Kurdistan è nota come la crisi dei
rifugiati nella terra dei nostri vicini. Gli sfollati non hanno ancora
preso una decisione finale o hanno scelto di mettere da parte ancora un
po' di denaro, prima di partire.
Per me è un eufemismo dire semplicemente che abbiamo un bisogno
disperato di sostegno finanziario e materiale, perché le nostre famiglie
possano restare e sopravvivere, oppure andarsene e sopravvivere
comunque. In tema di aiuti, questa crisi ha ormai raggiunto un livello
di urgenza cronica.
Per la Chiesa caldea, e per le nostre Chiese sorelle dell'est, la
persecuzione che sta vivendo la nostra comunità è due volte dolorosa e
grave. Siamo colpiti in prima persona dal bisogno e dal fatto che la
nostra Chiesa, un tempo vibrante, si sta sgretolando davanti ai nostri
stessi occhi. L'emigrazione massiccia che è in corso in questo periodo
rende sempre più debole la mia Chiesa.
È una situazione che è causa di una profonda tristezza. E noi che
siamo parte della gerarchia ecclesiastica siamo spesso tentati di
incoraggiare i nostri parrocchiani a rimanere, per mantenere viva la
presenza di Cristo in questa terra speciale. Ma, in tutta sincerità, io e
i miei fratelli vescovi, insieme ai sacerdoti, non possiamo fare molto
di più che suggerire a padri e madri di riflettere a fondo sulla scelta,
prendendo in considerazione tutti gli elementi, e di pregare molto e in
modo profondo prima di prendere una decisione di questo tipo,
importante e forse anche un po' pericolosa.
La Chiesa non può e non riesce a garantire la sicurezza di base di
cui i propri membri necessitano, per poter prosperare. Non è certo un
segreto che l'odio verso le minoranze sia aumentato in certi ambienti
negli ultimi anni. Ed è difficile comprendere le ragioni di questo odio.
Siamo odiati perché ci ostiniamo a voler vivere come cristiani. In
altre parole, siamo odiati perché continuiamo a chiedere diritti umani
di base. Tutti noi abbiamo la responsabilità di aiutarci, prima di
tutto, attraverso la nostra personale preghiera e il sacrificio, e poi
con una campagna di sensibilizzazione in seno alla comunità
internazionale, per far conoscere la condizione di fragilità in cui vive
la comunità cristiana irakena.
Vi sono poi due cose che noi, in quanto Chiesa, possiamo fare: la
prima è pregare. La seconda è di usare le relazioni e le reti che
condividiamo in quanto parte della Chiesa di Cristo, per far conoscere i
veri pericoli che corre il nostro popolo, il quale è persino a rischio
sopravvivenza. Non potrò mai ripetere con sufficiente forza che il
nostro benessere, come comunità storica, non è più nelle nostre mani. Il
futuro verrà, in un modo o nell'altro, e questo per noi significa
l'attesa di vedere che tipo di aiuti (militari, umanitari) ci verranno
dati.
Vi sono diversi progetti di aiuto e assistenza per i quali sono
necessari fondi e risorse; in particolare, chiediamo il vostro sostegno
per l'affitto di case per i cristiani rifugiati che vivono, ancora oggi,
nelle scuole pubbliche e vi chiediamo di aiutarci nella costruzione di
unità abitative sui terreni della Chiesa. Si tratta di un progetto
necessario e meritevole. Con il vostro aiuto consentiremo alle famiglie
di trovare un ambiente più stabile e permetteremo loro di cercare un
lavoro nei dintorni, anche se stanno elaborando piani di lungo periodo
che porteranno all'emigrazione. Il vostro aiuto per dare seguito a
questa soluzione di breve - e lungo - periodo è assolutamente
necessario. E vi sono anche altri progetti che potrebbero risultare
altrettanto utili.
Siamo grati per l'aiuto fornito sinora dalle varie organizzazioni. Questa vostra generosità ha alimentato le speranze di molti.
* Arcivescovo caldeo di Erbil, nel Kurdistan irakeno.