By Asia News
Bernardo Cervellera
Di buon mattino, mons. Rabban al-Qas, il vescovo caldeo di Duhoc, ci conduce a Benata, sulle montagne del Kurdistan a incontrare nuovi rifugiati.
Bernardo Cervellera
Di buon mattino, mons. Rabban al-Qas, il vescovo caldeo di Duhoc, ci conduce a Benata, sulle montagne del Kurdistan a incontrare nuovi rifugiati.
La venuta dei profughi nella regione di Duhoc ha raddoppiato il
numero dei cristiani: da 15 mila a 30 mila. Ma qui sono giunti anche
moltissimi yazidi, fuggiti sulle montagne della Siria e ritornati poi in
Iraq. La maggior parte dei cristiani viene da Mosul e dai villaggi
vicini. Alcuni di loro sono riusciti a fuggire subito, la notte di
venerdì 6 giugno, dopo che gli altoparlanti delle moschee avevano
diramato l'aut-aut per i cristiani. In un certo senso sono fra i più
fortunati: son potuti partire con l'auto, portandosi dietro qualche
bene. Il giorno dopo l'Esercito islamico (EI) ha messo i posti di blocco
e ha depredato i cristiani che volevano partire. Matteo, 50 anni,
impiegato del governo, è dovuto partire a piedi nella notte, insieme
alla moglie, alla cognata disabile e ai tre figli: Martin, 15 anni, e i
due gemelli dodicenni, Alan e Albert.
Per fuggire verso Qaraqosh - quando ancora era libera - ha dovuto caricarsi sua cognata sulle spalle e camminare per chilometri.
Per fuggire verso Qaraqosh - quando ancora era libera - ha dovuto caricarsi sua cognata sulle spalle e camminare per chilometri.
Grazie alle conoscenze di amici, è arrivato a Duhoc e poi a Benata.
P. Samir, il parroco che in quei giorni organizzava come poteva l'arrivo
delle fiumane di profughi, ha trovato per loro un locale della
parrocchia, una sala di catechismo. La stanza è piena di materassini; in
un angolo sono impilate valigie, scatole, secchi, Tutte le sei persone
vivono in quella stanza. La cucina è in un'altra sala di catechismo; il
bagno è un bugigattolo senza finestre all'esterno.
Da lì si sente discutere le due sorelle: con la neve per terra e una
temperatura rigida, la donna disabile, aiutata dalla sorella, fa il
bagno con acqua gelida. La sorella riporta la donna nella sala comune
tutta avvolta da una coperta, la depone su un materassino e le mette
vicino una stufetta a gas per riscaldarla. P. Samir allarga le braccia
impotente: non c'è acqua calda.
Quasi di fronte a loro sono ospitate altre due famiglie: madre,
figlia, cognato e un'amica. Le stanze stavano per essere demolite per
costruire una nuova canonica, ma la macchina giunta per la demolizione
non ha funzionato. Tre giorni dopo è scoppiata l'emergenza e l'edificio -
piuttosto vecchio - è diventato la casa di tutti loro.
I cristiani fuggiti in giugno hanno trovato sistemazioni dignitose.
Chi è fuggito in agosto si è trovato a doversi accontentare di soluzioni
più precarie. Molti yazidi, ad esempio, arrivati qui dopo fughe,
assedi sul monte Sinjar, e poi ancora fughe, hanno trovato ospitalità in
un vecchio villaggio turistico abbandonato da decenni, con porte e
finestre sfondate. La parrocchia ha messo porte e finestre alle case e
ora ci vivono decine di famiglie yazide. Gli yazidi hanno famiglie
numerose. Ma hanno perso molti figli durante quest'ultimo esodo: i
bambini piccoli perché morivano di sete e di fame; le figlie perché
venivano rapite dall'EI e sposate a forza ai miliziani. Vi sono ragazze
che hanno preferito togliersi la vita, piuttosto che cadere nelle mani
dei loro sposi-carnefici. Curiosamente, la chiesa di questa zona è
dedicata alla Madre dei sette figli dei Maccabei, che esorta la sua
prole a rimanere saldi nella fede, anche a costo del martirio.
"Il problema più grande - spiega p. Samir - è che tutta questa gente
ha poco da fare durante la giornata. Soprattutto i giovani e le ragazze
non hanno scuola o lavoro".
A prima vista il Kurdistan sembra in pieno sviluppo. Ma la guerra sta
risucchiando tanti fondi e il budget della regione scricchiola: occorre
pagare i soldati, le armi, la polizia per i controlli sulle strade. In
più il governo di Baghdad, che dovrebbe coprire il 17% del budget della
regione, da anni non versa un dinaro nelle casse della regione autonoma.
A questo va aggiunta la caduta del prezzo del petrolio. Fra guerra e
nuovi problemi economici e sociali (prezzo del petrolio, nuovi
rifugiati) si rischia una crisi. E i giovani, profughi e non, fanno
fatica a trovare lavoro.
Vi è poi il problema della scuola: quelli della regione di Mosul
parlano in arabo; qui le scuole usano la lingua kurda e non tutti
riescono a praticarla. A questo si aggiungono altre tensioni.
I figli gemelli di Matteo, bravissimi a scuola, erano felici quando
li hanno accettati alla scuola media (fanno il terzo anno). Per far
risparmiare al papà il costo del trasporto con autobus, hanno deciso di
fare ogni giorno mezz'ora di cammino all'andata e mezz'ora al ritorno.
Purtroppo, alla loro scuola, qualcuno ha bruciato una bandiera kurda e
allora, tutti gli "arabi", come chiamano quelli di Mosul, sono stati
espulsi dalla scuola. Ora questi due ragazzetti intelligenti sono
costretti a stare a casa e a non studiare, anche se stavano imparando
bene perfino l'inglese.
Un altro centro di profughi è vicino a un asilo e ad una scuola.
Anche qui vi sono famiglie di Mosul. La scuola è stata adattata a
ospitare una famiglia per aula. Fra queste vi sono anche due sorelle.
Una di loro ha sfidato un miliziano dell'Isis che la voleva costringere a
diventare musulmana. E invece lei ha detto: Sono nata cristiana e
morirò cristiana. E il miliziano l'ha lasciata andare. E' una donna
gioiosa, vivace e decisa.
Le persone che fanno più compassione sono gli anziani: niente da fare
tutta la giornata, clima diverso da quello a cui erano abituati,
l'esistenza capovolta... Quelli visitati sembrano sempre un po' persi.
P. Samir racconta della frenesia nei primi giorni di giugno e il
crescendo fino ad agosto: "Ogni giorno arrivavano decine e decine di
persone. L'asilo della parrocchia era diventato il centro di
smistamento. Si presentavano famiglie intere e qualche volta bambini
soli, portati da qualche persona buona. Si dava loro indicazioni di dove
andare. Se il posto indicato era già occupato, se ne indicava loro un
altro. Di luogo in luogo, una famiglia è arrivata fino al confine con la
Turchia, in alta montagna. Per una settimana hanno dovuto vivere in
auto: avevano esaurito la benzina e il posto era deserto".
Il sacerdote è pieno di gratitudine: "Tutti sono stati generosi:
molti cristiani di Duhoc hanno ospitato famiglie intere ("siete
cristiani, e quindi siete nostri fratelli"). Molti hanno messo a
disposizione auto, beni, materassi, sedie o hanno offerto i soldi per
comprarli. Molti aiuti sono venuti dai caldei all'estero: Austria,
America, Australia. Un grande sostegno è venuto dalle Chiese europee e
soprattutto quella italiana, e anche da voi di AsiaNews. Grazie a
tutti".