By Avvenire
Lorenzo Rosoli
Lorenzo Rosoli
«Papa Francesco vuole andare in Iraq. Un viaggio breve. Tutto in una giornata: partenza da Roma, arrivo a Baghdad, saluto alle autorità; quindi Erbil, al nord, per vedere, incontrare, abbracciare i rifugiati cristiani di Mosul, celebrare la Messa, infine tornare a Roma la sera stessa. Per lui sarebbe una gioia enorme».
Parola di Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, che in Iraq c’è già stato due volte, negli ultimi mesi: «A luglio per inaugurare il gemellaggio fra le Chiese di Lione e di Mosul; quindi il 6 e 7 dicembre – racconta il porporato – con un centinaio di fedeli della mia diocesi, a Erbil per portare ai profughi la nostra solidarietà materiale e spirituale». E soprattutto, e a sorpresa, «un videomessaggio del Papa».Parole e immagini – quelle proiettate un mese fa nella città del Kurdistan iracheno, rifugio dei cristiani in fuga dall’avanzata dei jihadisti – che potrebbero essere anticipazione di un vero e proprio pellegrinaggio, pur rapidissimo, di papa Bergoglio incontro ai cristiani e a tutti i perseguitati del martoriato Paese mediorientale. Del desiderio del Papa, ma soprattutto delle sofferenze e delle attese dei cristiani iracheni, Barbarin si fa portavoce in questo incontro con Avvenire a Milano, dov’è stato invitato per celebrare l’Epifania in Sant’Eustorgio, l’antica basilica che custodisce le reliquie dei Magi. Un’occasione per riflettere sul futuro dei cristiani nel Medio Oriente e sulle relazioni islamo-cristiane, ma anche sulla Chiesa «in uscita» verso le periferie, con un pastore nato nel 1950 a Rabat, in Marocco, e che dopo aver studiato in Francia, dov’è stato ordinato sacerdote, ha prestato servizio per quattro anni quale fidei donum nel Madagascar.
«In occasione del viaggio di dicembre a Erbil, ho detto al Papa: prima passo da Roma, la prendo con me e la porto in Iraq. Si è messo a ridere – testimonia Barbarin –. E ha deciso di inviare un videomessaggio, molto bello, che ci ha affidato, per dire ai cristiani dell’Iraq: grazie per la vostra fedeltà a Cristo, che nessuno di voi ha rinnegato.
Li ha paragonati a una canna nella tempesta, che si piega ma non si spezza. Il Papa era molto contento che noi fossimo a Erbil. Siamo andati là per costruire case e scuole, portare medicinali, instaurare legami di preghiera tra le famiglie, anche attraverso scambi di fotografie – perché tu possa vedere il volto della persona per cui stai pregando. A Lione, fin dal 1852, viviamo l’Immacolata con una grande "Festa delle luci". Facciamo una processione e mettiamo luci a tutte le finestre. Ecco: quella stessa processione l’abbiamo proposta a Erbil. E sono venuti tutti i cattolici, e anche dei musulmani, in totale diecimila persone. All’ingresso di Erbil c’è una grande statua della Vergine. Lì abbiamo proiettato il videomessaggio del Papa. Poi abbiamo celebrato la Messa, recitato il Rosario, raccolti nella Cattedrale. Due giorni faticosi ma emozionanti».
Qual è invece il messaggio che i cristiani d’Iraq hanno affidato per noi a Barbarin? «Ci chiedono di condividere le loro sofferenze. E di aiutarli a rimanere – scandisce il cardinale –. La persecuzione è un’esperienza antica, non c’è famiglia che non abbia storie di espulsione e fuga dalla propria casa e dalla propria città... Il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako, da bambino, con la sua famiglia, è stato cacciato tre volte! Ma i cristiani sono consapevoli che senza di loro è impossibile costruire e rinnovare l’Iraq. Ma sono sempre più disperati e in tanti vogliono partire».
Come possiamo aiutarli a non abbandonare l’Iraq? «Con l’aiuto materiale, innanzitutto. In secondo luogo: con l’amicizia, la vicinanza umana. In terzo luogo: con l’aiuto spirituale. Con la preghiera. Io ho promesso di recitare il Padre Nostro in caldaico finché i cristiani di Mosul non potranno tornare nella loro città». Nell’ultimo viaggio a Erbil, Barbarin ha ricevuto un dono: «Il calice di un prete di Mosul, morto negli anni ’70, che aveva studiato a Lione. Un calice molto bello, di un orafo della nostra città. L’8 dicembre e a Natale ho celebrato con quel calice».
Questione decisiva resta il rapporto con l’islam. Lo sa bene Barbarin che, arcivescovo a Lione, nel 2006 accompagnò Azzedine Gazi, professore di fisica e imam, a Tibhirine, in Algeria, dove nel 1996 sette monaci trappisti erano stati rapiti e uccisi da fondamentalisti islamici. Un pellegrinaggio nato da una richiesta dello stesso presidente del Consiglio regionale dei musulmani. «Il mio più grande amico a Lione», lo ricorda il cardinale. «In tutte le epoche abbiamo visto come sono possibili il dialogo e l’amicizia fra musulmani e cristiani.
Un esempio molto interessante, a metà ’800, è l’amicizia fra il vescovo di Algeri, Antoine-Adolphe Dupuch, e l’emiro Abdelkader, uno straordinario uomo spirituale, di cui abbiamo le lettere. Da sempre c’è un confronto teologico, filosofico e spirituale fra musulmani e cristiani. A Lione, ad esempio, stiamo facendo incontri straordinari sulla preghiera, la Parola di Dio, nella Bibbia e nel Corano. E nascono amicizie meravigliose».
Come quella di Barbarin con Gazi, «che prima del suo pellegrinaggio alla Mecca mi ha chiesto di pregare per lui, mentre lui prega per me, la mia salute, la mia missione, la mia diocesi. Lui si alza di notte a pregare – come fanno pochissimi cattolici, penso ai trappisti: io no, non riesco... Lui lo fa. E dice: è molto importante pregare durante la notte perché è molta la gente che si trova nella notte della disperazione, della malattia, della prigione... Per me Azzedine è un esempio straordinario. Se dal dialogo e dall’amicizia non si arriva all’ammirazione, non è possibile un progresso nell’incontro».
Papa Francesco, fin da subito, ha chiamato la Chiesa a vincere la tentazione dell’autoreferenzialità e a essere Chiesa che si fa incontro a tutte le periferie, geografiche ed esistenziali. Che cosa significa in una grande città francese ed europea come Lione? «Essere "in uscita", come Chiesa, e per ciascuno di noi, è difficile. Richiede una vera conversione. Quando dico a laici o preti di andare nelle periferie, è difficile; non ho problemi, se chiedo di andare in una parrocchia borghese, ricca, nel centro della città. Ma è nelle banlieue che troviamo le persone, là dobbiamo parlare di Gesù e del Vangelo. Per questo serve una trasformazione missionaria, come chiede la Evangelii gaudium».
Parola di Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, che in Iraq c’è già stato due volte, negli ultimi mesi: «A luglio per inaugurare il gemellaggio fra le Chiese di Lione e di Mosul; quindi il 6 e 7 dicembre – racconta il porporato – con un centinaio di fedeli della mia diocesi, a Erbil per portare ai profughi la nostra solidarietà materiale e spirituale». E soprattutto, e a sorpresa, «un videomessaggio del Papa».Parole e immagini – quelle proiettate un mese fa nella città del Kurdistan iracheno, rifugio dei cristiani in fuga dall’avanzata dei jihadisti – che potrebbero essere anticipazione di un vero e proprio pellegrinaggio, pur rapidissimo, di papa Bergoglio incontro ai cristiani e a tutti i perseguitati del martoriato Paese mediorientale. Del desiderio del Papa, ma soprattutto delle sofferenze e delle attese dei cristiani iracheni, Barbarin si fa portavoce in questo incontro con Avvenire a Milano, dov’è stato invitato per celebrare l’Epifania in Sant’Eustorgio, l’antica basilica che custodisce le reliquie dei Magi. Un’occasione per riflettere sul futuro dei cristiani nel Medio Oriente e sulle relazioni islamo-cristiane, ma anche sulla Chiesa «in uscita» verso le periferie, con un pastore nato nel 1950 a Rabat, in Marocco, e che dopo aver studiato in Francia, dov’è stato ordinato sacerdote, ha prestato servizio per quattro anni quale fidei donum nel Madagascar.
«In occasione del viaggio di dicembre a Erbil, ho detto al Papa: prima passo da Roma, la prendo con me e la porto in Iraq. Si è messo a ridere – testimonia Barbarin –. E ha deciso di inviare un videomessaggio, molto bello, che ci ha affidato, per dire ai cristiani dell’Iraq: grazie per la vostra fedeltà a Cristo, che nessuno di voi ha rinnegato.
Li ha paragonati a una canna nella tempesta, che si piega ma non si spezza. Il Papa era molto contento che noi fossimo a Erbil. Siamo andati là per costruire case e scuole, portare medicinali, instaurare legami di preghiera tra le famiglie, anche attraverso scambi di fotografie – perché tu possa vedere il volto della persona per cui stai pregando. A Lione, fin dal 1852, viviamo l’Immacolata con una grande "Festa delle luci". Facciamo una processione e mettiamo luci a tutte le finestre. Ecco: quella stessa processione l’abbiamo proposta a Erbil. E sono venuti tutti i cattolici, e anche dei musulmani, in totale diecimila persone. All’ingresso di Erbil c’è una grande statua della Vergine. Lì abbiamo proiettato il videomessaggio del Papa. Poi abbiamo celebrato la Messa, recitato il Rosario, raccolti nella Cattedrale. Due giorni faticosi ma emozionanti».
Qual è invece il messaggio che i cristiani d’Iraq hanno affidato per noi a Barbarin? «Ci chiedono di condividere le loro sofferenze. E di aiutarli a rimanere – scandisce il cardinale –. La persecuzione è un’esperienza antica, non c’è famiglia che non abbia storie di espulsione e fuga dalla propria casa e dalla propria città... Il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako, da bambino, con la sua famiglia, è stato cacciato tre volte! Ma i cristiani sono consapevoli che senza di loro è impossibile costruire e rinnovare l’Iraq. Ma sono sempre più disperati e in tanti vogliono partire».
Come possiamo aiutarli a non abbandonare l’Iraq? «Con l’aiuto materiale, innanzitutto. In secondo luogo: con l’amicizia, la vicinanza umana. In terzo luogo: con l’aiuto spirituale. Con la preghiera. Io ho promesso di recitare il Padre Nostro in caldaico finché i cristiani di Mosul non potranno tornare nella loro città». Nell’ultimo viaggio a Erbil, Barbarin ha ricevuto un dono: «Il calice di un prete di Mosul, morto negli anni ’70, che aveva studiato a Lione. Un calice molto bello, di un orafo della nostra città. L’8 dicembre e a Natale ho celebrato con quel calice».
Questione decisiva resta il rapporto con l’islam. Lo sa bene Barbarin che, arcivescovo a Lione, nel 2006 accompagnò Azzedine Gazi, professore di fisica e imam, a Tibhirine, in Algeria, dove nel 1996 sette monaci trappisti erano stati rapiti e uccisi da fondamentalisti islamici. Un pellegrinaggio nato da una richiesta dello stesso presidente del Consiglio regionale dei musulmani. «Il mio più grande amico a Lione», lo ricorda il cardinale. «In tutte le epoche abbiamo visto come sono possibili il dialogo e l’amicizia fra musulmani e cristiani.
Un esempio molto interessante, a metà ’800, è l’amicizia fra il vescovo di Algeri, Antoine-Adolphe Dupuch, e l’emiro Abdelkader, uno straordinario uomo spirituale, di cui abbiamo le lettere. Da sempre c’è un confronto teologico, filosofico e spirituale fra musulmani e cristiani. A Lione, ad esempio, stiamo facendo incontri straordinari sulla preghiera, la Parola di Dio, nella Bibbia e nel Corano. E nascono amicizie meravigliose».
Come quella di Barbarin con Gazi, «che prima del suo pellegrinaggio alla Mecca mi ha chiesto di pregare per lui, mentre lui prega per me, la mia salute, la mia missione, la mia diocesi. Lui si alza di notte a pregare – come fanno pochissimi cattolici, penso ai trappisti: io no, non riesco... Lui lo fa. E dice: è molto importante pregare durante la notte perché è molta la gente che si trova nella notte della disperazione, della malattia, della prigione... Per me Azzedine è un esempio straordinario. Se dal dialogo e dall’amicizia non si arriva all’ammirazione, non è possibile un progresso nell’incontro».
Papa Francesco, fin da subito, ha chiamato la Chiesa a vincere la tentazione dell’autoreferenzialità e a essere Chiesa che si fa incontro a tutte le periferie, geografiche ed esistenziali. Che cosa significa in una grande città francese ed europea come Lione? «Essere "in uscita", come Chiesa, e per ciascuno di noi, è difficile. Richiede una vera conversione. Quando dico a laici o preti di andare nelle periferie, è difficile; non ho problemi, se chiedo di andare in una parrocchia borghese, ricca, nel centro della città. Ma è nelle banlieue che troviamo le persone, là dobbiamo parlare di Gesù e del Vangelo. Per questo serve una trasformazione missionaria, come chiede la Evangelii gaudium».