By Asia News
di Bernardo Cervellera
Prima parte: Via Crucis: i profughi di Mosul oltre l'emergenza
5 gennaio 2015
Prima di pranzo visitiamo il campo profughi della parrocchia di Mar Elia, che non è Elia il profeta, ma un martire cristiano dell'impero ottomano. A lui è successo come ai cristiani di Mosul in questi mesi: il sultano gli domandava di abiurare alla fede cristiana, diventando musulmano, o di pagare la jiziya, la tassa per vivere come "protetti" dall'impero islamico. Lui ha rifiutato entrambi ed è stato ucciso. La chiesa è utilizzata da tre comunità: quella caldea, quella siro-ortodossa e quella latina. Tutte e tre le comunità si sono ingrossate con la venuta dei profughi appartenenti ai diversi riti. In qualche modo la persecuzione li ha resi ancora più uniti: è l'ecumenismo del sangue di cui parla sempre papa Francesco.
di Bernardo Cervellera
Prima parte: Via Crucis: i profughi di Mosul oltre l'emergenza
5 gennaio 2015
Prima di pranzo visitiamo il campo profughi della parrocchia di Mar Elia, che non è Elia il profeta, ma un martire cristiano dell'impero ottomano. A lui è successo come ai cristiani di Mosul in questi mesi: il sultano gli domandava di abiurare alla fede cristiana, diventando musulmano, o di pagare la jiziya, la tassa per vivere come "protetti" dall'impero islamico. Lui ha rifiutato entrambi ed è stato ucciso. La chiesa è utilizzata da tre comunità: quella caldea, quella siro-ortodossa e quella latina. Tutte e tre le comunità si sono ingrossate con la venuta dei profughi appartenenti ai diversi riti. In qualche modo la persecuzione li ha resi ancora più uniti: è l'ecumenismo del sangue di cui parla sempre papa Francesco.
P. Dinkha, il mio accompagnatore, definisce questo luogo di tende e
container "un campo profughi a cinque stelle". L'area è tutta pulita e
ordinata e soprattutto i profughi sembrano molto attivi. Davanti alla
chiesa ci troviamo circondati da bambini che mettono in cerchio decine
di sedie di plastica multicolori per un concerto. Poi si mettono a
cantare canzoni di Natale, perfino delle Christmas carols in inglese!
Tutto avviene in modo composto e senza sbavature: tutti sono
attentissimi, nessuno parlotta alle spalle, nessuno si distrae annoiato.
Un tempo il campo era un bellissimo giardino con piante e alberi, che
circondava la chiesa. Ora sono rimasti i camminatoi in pietra e qualche
alberello qua e là, ma lo spazio maggiore è occupato dalle tende.
All'inizio i profughi, appena fuggiti da Mosul e Qaraqosh, sono stati
ospitati in tende militari grigioverdi. Di esse adesso ne è rimasta solo
una, in cui p. Douglas, il parroco di Mar Elia e responsabile del
campo, ha voluto allestire il presepio. "Un segno di fede - mi dice - ma
anche un segno di memoria, per ricordare come vivevamo fino a pochi
mesi fa".
P. Douglas spiega l'idea da cui è nato questo stile di campo: "Appena
arrivati qui, i bambini traumatizzati erano egoisti, confusi,
aggressivi: non volevano fare niente e non condividevano i giocattoli
con nessuno. Preferivano piuttosto distruggerli. Poi abbiamo deciso di
coinvolgerli nella scuola e le cose sono migliorate. Forse a loro non
piace tanto studiare, ma di sicuro hanno il desiderio di imparare e di
conoscere.
Ora tutti frequentano due ore di lezione al mattino: matematica,
fisica, inglese, computer, musica. Al pomeriggio vi sono altre attività:
canti (avete visto il concerto), lavori manuali, pittura, scultura con
la creta. Due volte la settimana si va al parco giochi e due volte la
settimana al centro sportivo. I bambini ora si sentono orgogliosi e
responsabilizzati e l'aggressività è molto diminuita".
Prima tutte queste attività venivano svolte nelle tende. Ma ora p.
Douglas ha chiesto ad alcune comunità caldee all'estero e in Iraq di
finanziare dei container simili a capannoni, vere e proprie aule,
insonorizzate, isolate dal caldo e dal freddo, in cui i giovani possano
ritrovarsi e preparare il loro futuro.
In un container vi è una biblioteca con libri in diverse lingue, dove
chi vuole può andare a leggere e curiosare in silenzio (come in tutte
le biblioteche che si rispettino). In un altro vi è una diecina di
postazioni per insegnare l'uso del computer; in un altro si insegna
musica e a suonare strumenti musicali: lungo il perimetro della stanza e
appesi ai muri vi sono pianole, chitarre, tamburi e alcuni strumenti
tradizionali del luogo, simili a liuti o a mandolini, ma con la barra
più lunga. Un'altra stanza-container serve per il ricamo ed è un punto
di incontro per le donne, "che così - dice p. Douglas - possono passare
il tempo a chiacchierare e non rimanere sole nel loro dolore".
Il sacerdote spiega più a fondo la sua filosofia: "E' la terza volta
che affronto i problemi dei profughi: nel 1991 [con la prima Guerra del
Golfo, quando Saddam Hussein invase il Kuwait e il Paese venne
bombardato per mesi-ndr]; nel 2004 [dopo l'invasione multinazionale e la
guerra dei sunniti a Baghdad -ndr] e ora".
"Ho capito - continua - che preoccuparsi dei profughi non significa
solo pensare al mangiare, al bere, alle medicine, le iniezioni, le
vaccinazioni... Le persone rifugiate hanno bisogno di fare qualcosa e di
coltivare la speranza. C'è bisogno non solo di nutrire e curare il
corpo, ma anche l'anima, il desiderio di essere felici, la voglia di
affrontare le avversità".
Vi sono persone che lo criticano perché secondo loro bisognerebbe
lottare politicamente o militarmente. Lui invece ha deciso di puntare
sui bambini e sui giovani: "Sono il futuro di questo Paese. Dobbiamo
nutrire e coltivare la loro creatività".
In realtà il sacerdote si interessa molto anche alla sorte delle
famiglie e per gli adulti sta per aprire anche un centro di ascolto e
con l'aiuto di psicologi superare i traumi e le violenze subite. Egli si
preoccupa soprattutto di tenere in alta considerazione le donne. "Molti
nostri cristiani - afferma - trattano le loro donne sotto l'influenza
dei musulmani, come una loro proprietà e lasciandole un po' da parte.
Noi facciamo di tutto per dare loro istruzione, aiuti, responsabilità".
Vicino alle aule-container sorge il villaggio di tende bianche e
azzurre, a semi-cilindro, a metà fra una casa di hobbit e delle
coperture di vivai. In ognuna, separate da una parete di plastica o una
coperta, vivono due famiglie, di solito parenti fra loro.
Ne visitiamo alcune: nessuno parla del proprio dolore, di quello che
hanno passato. Tutti raccontano come vivono nel campo e ci invitano a
pranzo a mangiare con loro. Una ragazza 19enne mostra orgogliosa suo
figlio in fasce: è avvolto in una coperta di lana bianca e
rossa, adagiato per terra su una specie di tappeto che copre il
pavimento della tenda. Il piccolo, Imad, è nato poco prima di Natale
ed è il terzo bambino nato nel campo, partorito in questa tenda-vivaio.
A una certa distanza dalle tende vi è la zona docce, con servizi
igienici distinti per uomini e donne. Un altro container funge da
lavanderia: una schiera di lavatrici e di essiccatori di biancheria,
nuovissimi. Le donne giovani sanno come usarle; ma le anziane
preferiscono ancora lavare a mano: "Siamo abituate - dicono - e poi così
ci passa il tempo".
Le persone anziane sono le vittime più colpite nella fuga da Mosul:
perdere tutto e cambiare vita a 60, 70 anni; vivere e dormire sotto le
tende, nel caldo dell'estate e nel freddo dell'inverno; la mancanza di
medicine o di cure appropriate le rendono fragili; diversi anziani sono
già morti in questi mesi. "Alcune vecchie donne - racconta p. Douglas -
trovano molto conforto nella preghiera e la sera, quando la nostalgia
diventa più acuta, si trovano davanti alla grotta di Lourdes a recitare
il rosario. Ve n'è una che tutte le sere passa diverse ore in silenzio
davanti alla statua della Madonna".
Uscendo dal campo, faccio notare a p. Douglas la pulizia che vi è
sulle stradine e attorno alle tende. Lui spiega che per instillare il
senso della pulizia, per un certo tempo ha proposto ai bambini di
raccogliere le immondizie e lui avrebbe "pagato con una bibita" un sacco
di rifiuti. Tutti si sono dati da fare. "Qualche volta, pur di avere
una bibita, i bambini andavano a prendere un sacco di rifiuti da fuori
del campo e me lo portavano. Io lo sapevo, ma pagavo lo stesso la
bibita: alla fine, in ogni caso, avevano pulito da qualche parte"