"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

9 aprile 2013

A Baghdad dieci anni fa arrivano gli americani

Lorenzo Cremonesi

Ripensando gli eventi che accompagnano l’arrivo dei soldati americani a Baghdad il 9 aprile di dieci anni fa e poi le prime fasi della loro presenza in Iraq viene da chiedersi come siano stati possibili tanti errori. La faciloneria dell’intervento di allora fa adesso il paio con la reticenza di Barack Obama contro qualsisi coinvolgimento americano in Medio Oriente.

BAGHDAD_ Che il dopo guerra non funzionava come avrebbe dovuto fu evidente già molto presto. Il 13 aprile 2003 un migliaio tra poliziotti, ufficiali dell’esercito, dipendenti della municipalità, impiegati della compagnia elettrica nazionale, addetti agli impianti di filtraggio del Tigri, si riunirono nei saloni dello Al-Wiyah, il club esclusivo costruito dagli inglesi otto decadi prima nel cuore della capitale, per proporre la loro spontanea collaborazione agli americani. Erano il meglio del popolo di Baghdad, patrioti preoccupati per il disastro incombente, si offrivano di riprendere a lavorare senza salario. “Baathisti o meno. Non importa chi siamo stati. La cosa principale adesso è rimettere il Paese in sesto. Non possiamo lasciare che l’anarchia ci distrugga tutti!”, dichiaravano. Ma non ottennero alcuna risposta dai generali Usa, che stavano insediandosi nei palazzi presidenziali, solo a poche centinaia di metri dagli arsenali privati di Uday e Qusay, i due figli di Saddam Hussein, appena saccheggiati da migliaia di giovani arrivati dalle periferie a caccia di bottino. Kalshnikov nuovi di pacca, cassette di bombe a mano, colme di munizioni di ogni tipo, pistole Beretta ancora nelle loro confezioni, fucili ad alta precisione austriaci, mitra automatici M16 americani, persino bazooka anticarro portatili: faceva paura vedere tutte quelle armi sparire verso le vie secondarie senza alcun controllo. Però gli appelli dallo Al-Wiyah continuarono a restare lettera morta. Dopo 48 ore di infinite assemblee inconcludenti negli ambienti saturi dal fumo delle sigarette, i cittadini volenterosi si sciolsero per affrontare ognuno la sua tragedia in privato.

  Soltanto quattro giorni prima i Marines avevano fatto irruzione in città. Fu uno degli episodi più mediatizzati, entrato di prepotenza nella memoria collettiva della guerra. Ricordate la scena dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein in piazza Furdus? Avvenne verso le sedici. Una sequenza da film: con le telecamere della stampa internazionale che riprendono in diretta a poche decine di metri di distanza. L’hotel “Palestine” dove stiamo noi giornalisti esteri rimasti nel Paese è di fronte. I soldati avanzano lungo i muri con i mitra spianati. Baghdad offesa, spaventata, si attende il massacro, ancora non crede che la liberazione dal dittatore possa arrivare così relativamente a basso prezzo. Solo due giorni prima il ministro dell’Informazione, Muhammad Saeed al-Sahhaf, aveva affermato con la sicurezza arrogante del propagandista abituato a non essere contraddetto che le colonne Usa intraviste dall’altra parte del Tigri “non esistono, oppure sono come la testa recisa del serpente il cui corpo sussulta comatoso tra le sabbie del deserto di Bassora”. Ma adesso i Marines sono qui, tangibili, procedono agili, veloci, silenziosi, il fior fiore della miglior tecnologia bellica. Sembrano macchine da guerra, robot assassini: magri, nervosi, abbronzati, decisi, con le giberne e l’elmetto tempestati di aggeggi elettronici, laser, sistemi di puntamento satellitari. Nulla a che vedere con lo sparuto gruppetto di soldati iracheni che stanno rapidamente liberandosi delle divise, buttano i Kalashnikov per sparire in mutande e canottiera alla ricerca di vestiti civili. Tutt’altro che muscolosi, ventre prominente, bianchicci, le barbe lunghe, le sigaretta sempre in mano. Si sono tolti le tute nere persino i volontari della jihad arrivati dall’estero nelle ultime settimane: algerini, afghani, ceceni, palestinesi, tanti palestinesi. Avevano promesso che sarebbero morti per difendere Baghdad, ma hanno nascosto tra i canneti del lungo Tigri i borsoni carichi di armi, esplosivo, munizioni. E vorrebbero tornare subito a casa. In piazza Furdus troneggia la statua. Un Saddam di bronzo dorato alza il braccio a salutare la folla. Appaiono i primi civili. Qualcuno agita la bandiera del periodo precedente l’arrivo del partito Ba’ath al potere. Nei teleschermi ristretti delle telecamere sembrano molti di più di quanti non siano in realtà. Qualcuno grida “Grazie Bush”, altri “a morte Saddam”. Poi provano a tirare giù la statua. Non è facile. Poggia su di un piedestallo cilindrico in cemento piastrellato alto oltre tre metri. Si passano una corda, un paio di picconi. Ma niente da fare. La scena si sta prolungando troppo. La foto finale della morte della dittatura rischia di trasformarsi nella metafora della sua resistenza. Un comandante americano decide allora di dare una mano ai manifestanti, lega la statua al suo tank, innesta il retromarcia e Saddam finalmente precipita a terra con fragore. Ma lo fanno cadere gli americani, non gli iracheni. Il dittatore in carne ed ossa sarà invece preso il 13 dicembre 2003 dai corpi scelti Usa nei pressi del suo villaggio natale nella zona di Tikrit. Scarmigliato, sporco, la lunga barba bianchiccia, sembra un clochard. Molto più dignitosa sarà la sua morte per impiccagione il 30 dicembre 2006 tra i lazzi e le offese dei presenti.

  Ancora quando l’invasione era nelle sue fasi calde si manifestarono segni anticipatori della lunga successione di tragedie che sarebbe seguita. In particolare a Karrada, Mansour e negli altri quartieri benestanti di Baghdad i proprietari dei negozi muravano le vetrine. E alla domanda: “Pensate davvero che gli americani vengano a derubarvi?”. La risposta era inequivocabile: “Ma che americani! Sono le masse povere di Saddam City che ci fanno paura. Già nel 1991 vennero ad attaccarci”. Davvero l’intelligence Usa non ne era consapevole? Tra il 7 e 8 aprile come cavallette impazzite decine di migliaia di abitanti del più grande quartiere sciita della capitale (poi rinominato Sadr City, due milioni di abitanti) si riversarono sulle zone più ricche derubando, devastando, distruggendo. Il segretario alla Difesa americano, Dick Cheney, dichiarò che si trattava della “vendetta degli iracheni contro la dittatura”. In verità fu l’anarchia di tutti contro tutti; il trionfo della dimensione primitiva, barbarica, hobbesiana, dell’uomo-lupo che vede lo Stato perdere il monopolio della forza e si trova costretto a lottare per la pura sopravvivenza. Fu un saccheggio dalle dimensioni bibliche. Negozi di ogni tipo, supermercati, abitazioni incustodite, spogliati di tutto. Attaccati sistematicamente gli edifici pubblici da cui venivano strappati infissi, impianti elettrici, mobili, sanitari. Gruppi di uomini se ne tornavano a casa portandosi sulle spalle i banchi delle scuole. In centro la gente irrompeva nei supermercati già spogliati per prendere i carrelli della spesa rimasti e utilizzarli nel trasporto della refurtiva. Così capitava di incontrare cittadini che giravano per le strade con il carrello carico di coperte, lampadine, vestiti di qualsiasi taglia, scarpe spaiate, scatolette di conserve, cavi elettrici, batterie di automobili. Nell’ospedale Yarmuk ho visto rovesciare a terra i feriti per prendere letti, materassi e lenzuola. Un vecchio si lamentava sul pavimento lercio, con l’ago della flebo ancora nel braccio.

 Indicativo fu l’atteggiamento della pattuglia americana che su tre carri armati era stazionata a circa 700 metri dall’entrata dell’edificio del museo archeologico. All’interno gruppi di saccheggiatori stavano riempiendo borse e zaini con le tavolette cuneiformi antiche oltre 4.000 anni, cocci, statuette antropomorfiche, ceramiche e monili preziosi assiri. Qualcuno provò a rubare le statue dell’antica Babilonia pesanti tonnellate. Venne abbattuta una sezione dei muri che davano sull’esterno. Ma non riuscirono a trascinarle via. A domandare aiuto venne la vice-direttrice, Nidal Amin, baathista della prima ora, abituata a incontrare le missioni archeologiche italiane che da decenni operano in Iraq. “Per favore, provate a chiedere agli americani se possono spostare i loro carri armati di fronte alle porte del museo. Magari servono da deterrenza contro i ladri”, chiese a noi giornalisti sul posto. C’era qualche cosa di tragico e impotente in quel gesto: un’alta dirigente del regime appena sconfitto che implorava soccorso ai nemici invasori per fermare il saccheggio in casa propria. Evidentemente il bene del museo le stava a cuore più dell’onore. Non fu facile raggiungere gli americani. C’erano ancora cecchini nella zona, irregolari armati, motivati dall’odio anti-occidentale, spaventati, desiderosi di vendetta. Attorno al museo il silenzio spettrale era interrotto da spari isolati. In fondo alla strada c’era un’auto in fiamme, con vicino due cadaveri riversi sul selciato scavato, segnato dai cingolati. Alla fine, questa fu la risposta testuale dei soldati Usa dall’alto del tank “Sorry sir, we are soldiers, not policemen”. Fattuale, eppure assurdamente ipocrita, pretestuosa. Se erano soldati e non poliziotti, chi allora avrebbe garantito la sicurezza interna? Chi, se non loro avrebbe, dovuto difendere il museo e il resto dell’Iraq? Una volta debellate le divisioni di Saddam, chi si sarebbe accollato la responsabilità di traghettare il Paese intero verso la normalizzazione?

    Ma in quell’elettrico 9 aprile 2003 carico di aspettative a piazza Furdus per un attimo pensammo che fosse finalmente tutto finito: le bombe, l’incertezza, le paure, il caos, i morti. E invece il peggio stava per cominciare. La tragedia vera si rivelò l’impreparazione americana a gestire la transizione verso la stabilità, assieme alla totale ignoranza delle dinamiche interne al Paese, la mancanza di direttive, l’illusione che fosse sufficiente defenestrare il dittatore per avere, come d’incanto, la democrazia.

 Va sottolineata una data per raccontare il gigantesco buco nell’acqua. Il 23 maggio da Washington giungeva l’ordine di sciogliere il vecchio esercito iracheno. In poche ore mezzo milione di soldati si ritrovarono senza occupazione e, ancora più grave, privi di salario, senza prospettive di pensione e con ridicoli indennizzi. Poco più di due mesi dopo cominciava la stagione delle bande armate, del terrorismo. Non a caso il nocciolo duro tra le schiere di violenti, prima banditi e poi estremisti islamici, fu composto proprio da ex soldati. Un popolo di disperati allo sbando, incattivito, rabbioso, offeso dall’arroganza ignorante dei suoi “liberatori”, che si rivelavano sempre più “invasori”, magari riluttanti, ma a tutti gli effetti padroni irresponsabili dei loro destini. E per di più affiancati da uno stuolo di contractors senza scrupoli, alla caccia di guadagni facili, profondamente ostili all’Islam e del tutto impermeabili alla storia millenaria della Mezza Luna Fertile. C’erano gli ingredienti per cucinare un disastro perfetto. E così avvenne con gradualità terrificante: prima il caos, poi il crescere della povertà, i quarantacinque gradi dell’estate senz’acqua, senza elettricità, gli ospedali in ginocchio, l’assenza delle forze dell’ordine, l’impossibilità di lavorare, viaggiare, andare a scuola. Quindi la violenza allo stato puro. A Falluja cominciò con 17 morti già il 28 aprile, ragazzi che manifestavano uccisi dagli americani impreparati a fronteggiare la folla di civili. L’autostrada Baghdad-Amman subito dopo diventa terreno di caccia per i criminali che rapinano i veicoli di passaggio. Meno di un anno dopo saranno reclutati tra i qaedisti che tagliano la gola. A inizio agosto il primo attentato importante: una bomba contro l’ambasciata giordana a Baghdad causa 18 morti. Segue il fatto più grave, che cambia radicalmente e in peggio la storia del dopo-guerra iracheno. Il 19 del mese un camion kamikaze esplode di fronte alla palazzina dell’Onu, tra la ventina di vittime anche Sergio De Mello, l’inviato speciale di Kofi Annan venuto a gestire gli aspetti civili della ricostruzione. E’ la fine dell’illusione per una pacificazione rapida. Il 29 agosto è assassinato a Najaf l’ayatollah Muhammad Baqir al-Hakim, perno del fronte moderato tra gli sciiti. Responsabili: i fondamentalisti sunniti. Ancora lo dicono pochi ad alta voce. Ma è già guerra civile: il grave è che continua tutt’ora. Anche per noi italiani non mancano questioni ancora imbarazzanti. Alla luce di quell’estate progressivamente violenta, come fu possibile che il camion bomba contro la base di Nassiriya il 12 novembre 2003 abbia potuto penetrare le difese dei Carabinieri come un coltello nel burro? I processi che ne sono seguiti hanno coinvolto i comandanti locali. Ma perché tra i massimi dirigenti in Italia, politici e militari, non si capì che la “missione di pace” operava ormai in una zona di guerra aperta e occorreva prepararsi al peggio?

  Secondo i piani del Pentagono, le truppe anglo-americane dovevano arrivare facilmente a Baghdad. E in effetti così fu. Il meccanismo bellico statunitense esaltato dall’aureola di vittoria del post-Guerra Fredda funzionò come previsto. In tre settimane la capitale venne raggiunta. Poco più di un mese dopo George Bush dichiarò trionfante quell’ormai patetico “mission accomplished”, che sarà per sempre la metafora ironica della sua epocale illusione scivolata nel sangue. Gli americani pensavano di poter smobilitare già entro settembre-novembre 2003, se ne andarono con la coda tra le gambe nel dicembre 2011. Nella fase guerreggiata dell’invasione avevano perso neppure un centinaio di uomini, la maggioranza per errori da “fuoco amico”. In termini militari praticamente nulla, una campagna facile. Avevano mobilitato circa 150.000 soldati, una frazione degli oltre 750.000 che componevano la coalizione internazionale impegnata a scacciare le truppe di Saddam dal Kuwait nel 1991. Ma alla fine i loro morti saranno oltre 4.500, i feriti quasi 50.000, a cui si aggiungono ancora oggi il numero crescente di suicidi tra i veterani, i casi di ricoverati per stress post-traumatico. Tra gli iracheni fu un’ecatombe di civili. Quanti? Almeno 150.000, come riportano le statistiche minimaliste? Oppure ben oltre 250.000, secondo quanto denunciato dai conteggi delle organizzazioni umanitarie internazionali? Uno dei problemi più gravi per tracciare un bilancio accurato è che nei picchi di violenza in cui scivolò il Paese intero tra il 2005 e il 2008 (vi furono mesi in cui il numero dei cadaveri segnalati superò quota 3.000) molte vittime rimasero sconosciute in zone remote, sepolte in fosse comuni, lasciate a decomporsi ignote nei canali minori del Tigri e dell’Eufrate, lungo i canneti che portano allo Shatt el Arab, oppure dimenticate nel deserto, che tutto secca, nasconde e copre sotto le dune.

 L’intera campagna era stata concepita dai neo-conservatori a Washington, che esaltavano “l’effetto domino” della democrazia esportata. “Abbatti la dittatura, porti le elezioni e dall’Iraq si irradierà il movimento per cambiare l’intero Medio Oriente. Muore Saddam e finisce Al Qaeda”, annunciavano per bilanciare le frustrazioni ancora vive dell’11 settembre 2001. Rivelatasi presto fallace, pretestuosa, l’argomentazione delle armi di distruzione di massa, come del resto anche il sospetto circa i possibili rapporti tra Saddam e Osama Bin Laden, rimaneva però in piedi l’argomentazione della necessità di eliminare un dittatore sanguinario, pericoloso, minaccioso per il proprio popolo e per la regione intera. Stavano a testimoniarlo gli sciiti massacrati nel sud, le decine di migliaia di curdi uccisi nel nord, i bombardamenti chimici su Halabja, la repressione decennale contro ogni tipo di opposizione politica interna. Eliminarlo poteva essere un bene dopo tutto. Ma finì nella gigantesca guerra civile tra sciiti e sunniti, nella divisione de facto dell’Iraq in tre parti, negli attentati senza tregua, nell’anarchia, nell’esodo dei cristiani, nel rafforzamento dell’autonomia curda, nella destabilizzazione regionale e nell’intrusione attiva di Arabia Saudita, Iran, Turchia. Non è sbagliato osservare che persino l’attuale guerra civile in Siria ha radici risalenti ai fatti del 2003, tanto che oggi i sunniti siriani hanno relazioni profonde con i cugini iracheni delle province di Al-Anbar sino a Ramadi, Falluja e i quartieri occidentali di Baghdad. Nelle ultime settimane viaggiando per tutto il Paese da sud a nord abbiamo trovato giudizi disparati sulla legittimità dell’invasione. Per la grande parte dei sunniti fu una catastrofe. Gli sciiti, che ne hanno beneficiato, sono in genere soddisfatti. E così anche i curdi, che già prosperavano sotto l’ombrello Usa dopo la guerra del 1991. Per contro, è molto più unanime la condanna alle modalità dell’invasione americana e soprattutto la politica che ne seguì. “Dall’aprile 2003 la presenza Usa è andata di male in peggio. Doveva essere la liberazione contro il tiranno, ma si è trasformata in un’occupazione cieca e deleteria”, è il giudizio più diffuso da Bassora a Mosul.