Probabilmente sono trascorsi 8000 anni da quando le popolazioni della Mesopotamia iniziarono a spremere uva, attendere un conveniente periodo per la fermentazione del mosto ed infine utilizzarne il risultato per cerimonie civili e religiose.
Nasceva così, grazie all’operosità di archetipi vignaioli, la cultura di uno dei prodotti più consumati al mondo, prendeva corpo il vino più antico al mondo, celebrato da assiri e hittiti. Malgrado i periodi bui di repressione cristiana – la più recente ha coinciso con il governo di Saddam Hussein, che mise al bando i costumi, finanche alimentari, della cittadinanza caldea e maronita del Kurdistan iracheno, che ha per capitale Erbil - sopravvive nei monasteri e nelle comunità cristiane l’usanza di produrre il vino.
Se per i monasteri è quasi d’obbligo poter contare su un quantitativo ancorché minimo del prezioso liquido per celebrare il mistero dell’eucarestia; per i contadini è fonte di reddito integrativo alla frutta ed alla verdura che dalle colline prende la strada delle città.
Peraltro nelle scarse fonti letterarie del VII secolo, prima dell’avvento della religione islamica, c’è evidenza di diffuso consumo d’alcool nei territori musulmani al tempo di Maometto, prima che lo stesso le dichiarasse haram (tabù).
Accanto allo scritto di Al Bukhari che registra un elevato numero di bevande alcoliche presenti nella penisola arabica, il lavoro di Omar Ibn al Khattab descrive bevande ottenute fermentando uva, datteri, orzo, frumento o miele.
I villaggi di Dhok, Haudian, Diana e Sersenk, a circa 400 chilometri da Erbil, e di Koisangiak, a 200 chilometri dalla capitale, sono tra i maggiori centri produttori di vino mentre la scuola di Shaklawa, diretta da monaci e che dista meno di un’ora e mezza di strada da Erbil, si distingue per la lunga tradizione di produzione di vino, accertata da oltre cinquecento anni.
Si può affermare senza errore che i maggiori produttori di vino in Iraq e in Mesopotamia sono proprio i monaci che vivono nei monasteri ed utilizzano il vino anche come strumento di ospitalità ai visitatori.
Akram Sliwa Sheer conduce uno dei tanti negozietti di alcolici che si possono trovare nel quartiere di Ankawa vicino alla chiesa dedicata a San Giuseppe, ma soprattutto intrattiene regolari rapporti con i piccolissimi produttori di vino delle colline anche grazie all’esperienza pastorale del fratello nel monastero di Shaklawa.
“Sono gli stessi cittadini a volere aperti i loro negozi tradizionali. In quest’area di Erbil, dove vivono perlopiù cristiani, si sono sempre venduti alcolici – dice - il governo attuale ci ha dato la possibilità di mantenere i nostri negozi; anzi stanno nascendo dei pub dove possiamo ritrovarci senza nessun pericolo perché i potenziali contestatori non hanno accesso”.
Nel suo negozio, come negli altri negozi della città che vendono alcolici, non è possibile trovare in vendita vino iracheno, ma dopo una amichevole chiacchierata Akram non esita a offrire tre tipologie di vino rosso che proviene dal nord del Paese.
Non è data sapere la varietà di uva utilizzata, ma solo che si tratta di black grapes, uva nera. Esiste un’altra tipologia di uva (il termine varietà sarebbe in questo caso troppo… sofisticato) denominata king grapes, che ha bisogno di più lavoro per crescere e con quella, dice, si produce pochissimo vino.
Alle temperature estive che sfiorano i 50 gradi l’uva ottiene un elevato grado zuccherino. I vini sono presentati in improbabili bottiglie, usate originariamente per contenere arak od ouzo greco, whisky o altro ancora, chiuse ermeticamente da tappi a vite.
Il primo che è stato per così dire stappato proviene dalle uve dell’orto del monastero di San Mattia a Bahshika, nel nord dell’Iraq.
Porta colore rosso intenso con riflessi mattonati, piacevolmente speziato di cannella e noce moscata al naso, alla bocca è vigoroso, imponente, piacevolmente grondante di susina appassita e lampone.
Il vino del secondo bicchiere è dell’orto della chiesa di Alkosh, all’interno della zona protetta di Ninive.
Il liquido è denso, seducente, dal colore rosso intenso inaccessibile quasi. Ha poco più di un anno di vita.
L’olfatto è impressionato dal profumo di nocciola e frutta secca, scorgo un vago aroma di pepe e rosa che si dilata in bocca, la corteggia, la conquista, la penetra con ruvida grazia.
Il gusto è lungo, infinito, di elevata alcolicità ammorbidita dal grado zuccherino.
Il terzo vino proviene dalle campagne di Shaklawa; ha cinque anni ed è considerato da Akram un vino prezioso.
Il colore è ambra, sul fondo della bottiglia si scorgono sedimenti. Il naso percepisce le note alcoliche amplificate poiché manca del tutto della armonia dei precedenti bicchieri.
Si distingue per l’abboccato secco e le evidenti note alcoliche che lungi dall’essere stucchevoli conquistano per semplicità e compostezza.
Malgrado la piacevolezza dei vini, stiano tranquilli i vignaioli italici: non potranno mai temere la concorrenza dei monaci iracheni sotto il profilo commerciale.
Tuttavia questi elaborati enoici sono un appuntamento culturale imperdibile per raccontare la storia e la vita attuale delle comunità cristiane del Kurdistan iracheno, un orgoglioso drappo sventolato per esibire la propria tormentata appartenenza religiosa.
Nasceva così, grazie all’operosità di archetipi vignaioli, la cultura di uno dei prodotti più consumati al mondo, prendeva corpo il vino più antico al mondo, celebrato da assiri e hittiti. Malgrado i periodi bui di repressione cristiana – la più recente ha coinciso con il governo di Saddam Hussein, che mise al bando i costumi, finanche alimentari, della cittadinanza caldea e maronita del Kurdistan iracheno, che ha per capitale Erbil - sopravvive nei monasteri e nelle comunità cristiane l’usanza di produrre il vino.
Se per i monasteri è quasi d’obbligo poter contare su un quantitativo ancorché minimo del prezioso liquido per celebrare il mistero dell’eucarestia; per i contadini è fonte di reddito integrativo alla frutta ed alla verdura che dalle colline prende la strada delle città.
Peraltro nelle scarse fonti letterarie del VII secolo, prima dell’avvento della religione islamica, c’è evidenza di diffuso consumo d’alcool nei territori musulmani al tempo di Maometto, prima che lo stesso le dichiarasse haram (tabù).
Accanto allo scritto di Al Bukhari che registra un elevato numero di bevande alcoliche presenti nella penisola arabica, il lavoro di Omar Ibn al Khattab descrive bevande ottenute fermentando uva, datteri, orzo, frumento o miele.
I villaggi di Dhok, Haudian, Diana e Sersenk, a circa 400 chilometri da Erbil, e di Koisangiak, a 200 chilometri dalla capitale, sono tra i maggiori centri produttori di vino mentre la scuola di Shaklawa, diretta da monaci e che dista meno di un’ora e mezza di strada da Erbil, si distingue per la lunga tradizione di produzione di vino, accertata da oltre cinquecento anni.
Si può affermare senza errore che i maggiori produttori di vino in Iraq e in Mesopotamia sono proprio i monaci che vivono nei monasteri ed utilizzano il vino anche come strumento di ospitalità ai visitatori.
Akram Sliwa Sheer conduce uno dei tanti negozietti di alcolici che si possono trovare nel quartiere di Ankawa vicino alla chiesa dedicata a San Giuseppe, ma soprattutto intrattiene regolari rapporti con i piccolissimi produttori di vino delle colline anche grazie all’esperienza pastorale del fratello nel monastero di Shaklawa.
“Sono gli stessi cittadini a volere aperti i loro negozi tradizionali. In quest’area di Erbil, dove vivono perlopiù cristiani, si sono sempre venduti alcolici – dice - il governo attuale ci ha dato la possibilità di mantenere i nostri negozi; anzi stanno nascendo dei pub dove possiamo ritrovarci senza nessun pericolo perché i potenziali contestatori non hanno accesso”.
Nel suo negozio, come negli altri negozi della città che vendono alcolici, non è possibile trovare in vendita vino iracheno, ma dopo una amichevole chiacchierata Akram non esita a offrire tre tipologie di vino rosso che proviene dal nord del Paese.
Non è data sapere la varietà di uva utilizzata, ma solo che si tratta di black grapes, uva nera. Esiste un’altra tipologia di uva (il termine varietà sarebbe in questo caso troppo… sofisticato) denominata king grapes, che ha bisogno di più lavoro per crescere e con quella, dice, si produce pochissimo vino.
Alle temperature estive che sfiorano i 50 gradi l’uva ottiene un elevato grado zuccherino. I vini sono presentati in improbabili bottiglie, usate originariamente per contenere arak od ouzo greco, whisky o altro ancora, chiuse ermeticamente da tappi a vite.
Il primo che è stato per così dire stappato proviene dalle uve dell’orto del monastero di San Mattia a Bahshika, nel nord dell’Iraq.
Porta colore rosso intenso con riflessi mattonati, piacevolmente speziato di cannella e noce moscata al naso, alla bocca è vigoroso, imponente, piacevolmente grondante di susina appassita e lampone.
Il vino del secondo bicchiere è dell’orto della chiesa di Alkosh, all’interno della zona protetta di Ninive.
Il liquido è denso, seducente, dal colore rosso intenso inaccessibile quasi. Ha poco più di un anno di vita.
L’olfatto è impressionato dal profumo di nocciola e frutta secca, scorgo un vago aroma di pepe e rosa che si dilata in bocca, la corteggia, la conquista, la penetra con ruvida grazia.
Il gusto è lungo, infinito, di elevata alcolicità ammorbidita dal grado zuccherino.
Il terzo vino proviene dalle campagne di Shaklawa; ha cinque anni ed è considerato da Akram un vino prezioso.
Il colore è ambra, sul fondo della bottiglia si scorgono sedimenti. Il naso percepisce le note alcoliche amplificate poiché manca del tutto della armonia dei precedenti bicchieri.
Si distingue per l’abboccato secco e le evidenti note alcoliche che lungi dall’essere stucchevoli conquistano per semplicità e compostezza.
Malgrado la piacevolezza dei vini, stiano tranquilli i vignaioli italici: non potranno mai temere la concorrenza dei monaci iracheni sotto il profilo commerciale.
Tuttavia questi elaborati enoici sono un appuntamento culturale imperdibile per raccontare la storia e la vita attuale delle comunità cristiane del Kurdistan iracheno, un orgoglioso drappo sventolato per esibire la propria tormentata appartenenza religiosa.