By Avvenire
Luca Geronico
Il selciato del chiostro, sotto uno splendente sole primaverile, sembra come riflettere l’intenso ocra della pietra di Hillan, che riveste pareti e facciata della cattedrale dell’Immacolata Concezione. Le ragazze della Casa delle donne hanno appena finito di dipingere di rosso due panchine: una ha una gamba tagliata.
«Quella con la gamba rotta rappresenta i diritti delle donne: se non sono riconosciuti la società, come la panchina, non funziona», spiega brandendo il microfono Merna. Un clima da festa popolare, nel chiostro della più grande chiesa dell’Iraq. Canti e balli per la rinascita della città simbolo dei cristiani in Iraq e a scacciare lo spettro satanico del manichino, usato come bersaglio, fra i mille bossoli abbandonati in terra nei chiostri di “al-Tahira” dai cecchini del Califfato neanche due anni fa.
“Balance for better” è lo slogan della festa delle donne a Qaraqosh: per la prima volta quest’anno, assieme alle rappresentanti della Casa delle donne sostenuta da Focsiv, sono pure presenti le sciite della minoranza shabak, quasi tutte provenienti da Bartalla. «Durante l’ultima campagna elettorale abbiamo fatto delle assemblee per spiegare alle donne i loro diritti. E abbiamo pure lavorato per spiegare loro la nuova carta di identità, adesso uguale per tutti», spiega Surya Mahmud Hamed, presidentessa della Shabak women association. Cosa serve per il futuro? «Un lavoro, perché se una donna non ha l’indipendenza economica viene sfruttata dalla società. E dopo l’arrivo del Daesh lo sfruttamento delle donne ha raggiunto il massimo livello», conclude Surya. Ibtisan Noh, insegnante cristiana di Qaraqosh, animava già con entusiasmo i corsi di formazione professionale al campo Ashti 2, quando con tutti i suoi familiari era profuga ad Erbil. «Il ritorno nelle nostre case ci ha molto tranquillizzato, anche se abbiamo ancora paura che quelli del Califfato possano ritornare. Ci sono dei movimenti e ancora dei contrasti: mesi fa una bomba è esplosa davanti al tribunale. Ma tutti insieme possiamo avere la forza per cambiare le cose», spiega con un sorriso coinvolgente.
Luca Geronico
Il selciato del chiostro, sotto uno splendente sole primaverile, sembra come riflettere l’intenso ocra della pietra di Hillan, che riveste pareti e facciata della cattedrale dell’Immacolata Concezione. Le ragazze della Casa delle donne hanno appena finito di dipingere di rosso due panchine: una ha una gamba tagliata.
«Quella con la gamba rotta rappresenta i diritti delle donne: se non sono riconosciuti la società, come la panchina, non funziona», spiega brandendo il microfono Merna. Un clima da festa popolare, nel chiostro della più grande chiesa dell’Iraq. Canti e balli per la rinascita della città simbolo dei cristiani in Iraq e a scacciare lo spettro satanico del manichino, usato come bersaglio, fra i mille bossoli abbandonati in terra nei chiostri di “al-Tahira” dai cecchini del Califfato neanche due anni fa.
“Balance for better” è lo slogan della festa delle donne a Qaraqosh: per la prima volta quest’anno, assieme alle rappresentanti della Casa delle donne sostenuta da Focsiv, sono pure presenti le sciite della minoranza shabak, quasi tutte provenienti da Bartalla. «Durante l’ultima campagna elettorale abbiamo fatto delle assemblee per spiegare alle donne i loro diritti. E abbiamo pure lavorato per spiegare loro la nuova carta di identità, adesso uguale per tutti», spiega Surya Mahmud Hamed, presidentessa della Shabak women association. Cosa serve per il futuro? «Un lavoro, perché se una donna non ha l’indipendenza economica viene sfruttata dalla società. E dopo l’arrivo del Daesh lo sfruttamento delle donne ha raggiunto il massimo livello», conclude Surya. Ibtisan Noh, insegnante cristiana di Qaraqosh, animava già con entusiasmo i corsi di formazione professionale al campo Ashti 2, quando con tutti i suoi familiari era profuga ad Erbil. «Il ritorno nelle nostre case ci ha molto tranquillizzato, anche se abbiamo ancora paura che quelli del Califfato possano ritornare. Ci sono dei movimenti e ancora dei contrasti: mesi fa una bomba è esplosa davanti al tribunale. Ma tutti insieme possiamo avere la forza per cambiare le cose», spiega con un sorriso coinvolgente.
Un
difficile equilibrio che si vive ogni giorno a Qaraqosh, e non solo fra
uomo e donna. La festa dell’8 marzo è finita. Mentre si raccolgono le
sedie e si tolgono gli addobbi dentro al-Tahira ancora sfregiata, ma
ripulita, inizia la Via Crucis del primo venerdì di Quaresima presieduta da abuna Noel al-Kastoma:
«Noi cristiani abbiamo ancora una dei simboli: la chiesa di cui sono
parroco è uno di questi. Grazie alle numerose associazioni
internazionali abbiamo avviato la ricostruzione. Ma il nostro grande
grande problema è il governo che non ha fatto nulla per noi. Noi ora siamo minacciati per i contrasti politici fra il Kurdistan e il governo federale di Baghdad. Tutti e due ci vogliono dominare e noi non sappiamo quale sarà l’avvenire».
A Qaraqosh, la Chiesa e gli aiuti internazionali sostengono il rientro dei cristiani: la cooperazione Usa ha stanziato per la cittadella siro-cattolica 180 milioni di dollari in 2 anni, l’Unione Europea circa 20 milioni di euro per l’anno scorso, e altri 40 milioni circa sono giunti da Germania, Regno Unito e Italia. Ma nella
cintura degli oltre 40 villaggi cristiani attorno a Qaraqosh sono
comparsi degli sciiti che comprano case a prezzi otto, dieci volte
quelli di mercato. Una presenza inquietante, in terre dove gli sciiti non si sono mai stabiliti. «I soldi vengono dall’Iran: è una nuova silenziosa invasione
– spiega abuna Noel –. Mentre c’è anche chi parla del progetto di una
nuova città tutta sunnita che si vuole costruire più a Nord». Qaraqosh,
la piccola capitale cristiana, in una terra di nessuno.