By Asia News
Il ricordo di una infanzia “pacifica e senza grossi problemi”, trascorsa in famiglia con le difficoltà ordinarie di ogni giorno, stravolta dalla caduta di un regime che riusciva a mantenere “stabile” la vita del Paese, anche con l’uso della forza. Le violenze della guerra, il caos e, da ultimo, l’ascesa di Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico] hanno sconvolto la loro vita costringendole a fuggire dalla propria terra. E cercare un rifugio all’estero, in attesa di capire quale direzione prenderà il futuro. È la testimonianza affidata ad AsiaNews da due 20enni irakene, fuggite due anni fa - una da Kirkuk, la seconda da Mosul - in seguito all’avanzata delle milizie jihadiste, che oggi vivono ad Amman, in Giordania, assieme ad altri rifugiati, grazie ai progetti di accoglienza messi in campo dalla Chiesa e dalla Caritas locale. E che nutrono nel cuore il “desiderio profondo” di poter incontrare un giorno papa Francesco cui chiedere di “non smettere mai di pregare per noi, cristiani irakeni”.
Hadeel Akko è una giovane irakena originaria di Kirkuk, che ha lasciato l’Iraq dopo aver vissuto anni di violenze e terrore che hanno registrato una progressiva escalation con l’avanzata dello Stato islamico nell’estate del 2014. Maryam Zaitona è nata e vissuta a Mosul, nella piana di Ninive, in quella che oggi è la roccaforte jihadista in Iraq.
Nei giorni scorsi Hadeel e Maryam, insieme ad altre 16 rifugiate irakene (nella foto) affidate alla cura di don Mario Cornioli, sacerdote fidei donum in missione dall’Italia, hanno realizzato una casula cucita con gli scarti del piccolo laboratorio sartoriale avviato nella capitale giordana. Un dono “made by Iraqi girls” per papa Francesco, perché la indossi in una delle sue prossime celebrazioni; il desiderio è vederla “dal vivo” a Cracovia, a fine luglio.
Prima ancora di ricostruirsi una vita, dopo aver abbandonato tutto, il sogno comune di queste ragazze è proprio di incontrare il papa, abbracciarlo, chiedergli di continuare a pregare per il loro Paese. Magari proprio a Cracovia per la Giornata mondiale della gioventù, anche se i problemi di visto rendono difficile questa possibilità. AsiaNews ha voluto incontrarle per raccoglierne storia, sofferenze, ma anche speranze e desideri per il futuro.
“La mia vita era stabile a Kirkuk, in una piccola casa” circondata dall’amore “di mio padre George, mia madre Najwa, i miei fratelli Aydin e David” racconta Hadeel. Vivevamo “in pace”, aggiunge, condividendo le attività della Chiesa locale e della cattedrale del Sacro Cuore. “Ero parte del coro della chiesa, non avrei mai voluto abbandonarla […] e andavo a scuola per imparare, e mettermi un giorno a servizio dell’Iraq”. “Ricordo una vita bella, piena - aggiunge Maryam, più schiva a parole ma non nei sentimenti che nutre verso il proprio Paese - e tutte le persone che vivevano in pace e in armonia, senza problemi”.
Del suo passato, ad Hadeel mancano “gli studi, la chiesa e il coro. Ma più di tutto l’amore e la pace” che si respiravano un tempo in un Iraq “tollerante” e che ora “non c’è più”.
Per Maryam la sofferenza più grande è quella di “non poter più frequentare la mia parrocchia” e le manca anche “il tempo trascorso con i miei amici di un tempo e la famiglia”. In passato “le relazioni erano molto buone fra cristiani e musulmani”, ma “tutto è cambiato” con la deriva estremista culminata nell’arrivo di Daesh; ora ai cristiani in generale “manca la fiducia di un tempo nei loro vicini islamici”.
Per Maryam la sofferenza più grande è quella di “non poter più frequentare la mia parrocchia” e le manca anche “il tempo trascorso con i miei amici di un tempo e la famiglia”. In passato “le relazioni erano molto buone fra cristiani e musulmani”, ma “tutto è cambiato” con la deriva estremista culminata nell’arrivo di Daesh; ora ai cristiani in generale “manca la fiducia di un tempo nei loro vicini islamici”.
“Prima del 2003 - le fa eco Hadeel - le relazioni fra cristiani e musulmani erano stabili grazie alla presenza di un governo forte e autoritario, che esercitava il diritto senza distinzioni” di natura confessionale. Con l’invasione americana e la caduta di Saddam sono venuti a mancare “lo Stato e il diritto” e si è creata “una situazione di caos; le milizie hanno assunto il controllo delle strade” e la comunità cristiana ha iniziato a subire violenze e attacchi, che hanno riguardato “abitazioni private e luoghi di culto”.
Tuttavia, nonostante le difficoltà e le sofferenze la fede è rimasta ed è un elemento “molto importante della vita di ogni giorno”. Cristo ha affrontato la croce per noi, racconta Hadeel, ha perdonato i nostri peccati e questo è indice della grandezza del suo amore. “Nessuna tribolazione, nessuna difficoltà può minare questa fede, perché questa fede in Gesù è in grado di compiere miracoli”. Un pensiero condiviso anche da Maryam, che in Gesù ha trovato la forza “per affrontare ogni circostanza della vita”. “La mia vita oggi non è bella né brutta - prosegue la giovane di Mosul - ma resta un punto centrale: la Chiesa che è sempre di grande sostegno per tutti noi e ci è sempre rimasta vicina”. Un sostegno, quello della Chiesa e dei suoi rappresentanti, che è “fondamentale” anche per Hadeel perché “ci rende parte della vita cristiana […] ed è sempre fonte di nuove occasioni, come il corso di cucito” che ha seguito ad Amman in queste settimane.
Entrambe hanno contribuito alla realizzazione della casula per papa Francesco, che sperano di poter incontrare in futuro prossimo. “Lo amo moltissimo” confessa la giovane di Kirkuk e “vorrei chiedergli di benedirmi e di insegnarmi come vivere in umiltà e amore come fa lui. E gli direi anche di non dimenticarsi di noi [rifugiati irakeni], di pregare per noi che siamo suoi figli e sue figlie”. “Io - interviene Maryam - gli vorrei dire che tutti lo amano e gli direi anche di pregare per noi, che ne abbiamo così tanto bisogno”.
Da ultimo, le due ragazze rivolgono un pensiero all’Iraq, la loro terra di origine e che, forse, hanno lasciato per sempre. “Penso che tornare indietro nella nostra madrepatria - conclude Hadeel - sarà molto difficile, perché non c’è nulla per noi. Ho paura di rientrare; nonostante tutto voglio guardare con speranza al futuro, completare i miei studi e costruirmi un domani”. “Sono triste - afferma la giovane di Mosul - perché mi manca tutto della mia terra. Spero che, un domani, tutti possano vivere assieme senza problemi, amarsi in modo reciproco perché l’amore è la via della pace”.