Renato Sacco
Carissima Shahrazād,
dopo tanto tempo si torna a parlare del tuo Paese, l’Iraq. In questi giorni viene completato il ritiro delle truppe Usa. Mi rivolgo a te (anche se con un po’ di imbarazzo, tu a raccontare sei molto brava...) perché non vorrei rivolgermi direttamente a tante persone che in questi anni hanno parlato molto dell’Iraq. Preferisco confidare a te il dolore, ma anche la tenerezza e la bellezza dei ricordi e degli incontri avuti in questi anni nella terra dei due fiumi.
Penso alla giornalista italiana, del Tg1, che è arrivata a Baghdad a bordo dei carri armati americani. Arruolata! Ma come si può fare informazione in questo modo? E le faceva eco, in Italia, un altro giornalista che in studio giocava alla guerra con i modelli dei carri armati. Per noi l’Iraq è stato anche questo. Poi le celebrazioni delle gesta eroiche delle truppe. E ovviamente la tragedia dei morti. Abbiamo i numeri esatti dei militari morti, quelli italiani, americani, inglesi. Un po’ meno sappiamo delle vittime irachene, sia dei morti uccisi direttamente dalle bombe che delle persone contaminate, per esempio dall’uranio impoverito. Ma si sa, non è quello che più interessava. E ora il ritiro delle truppe. Dopo aver invaso, ucciso e distrutto si torna a casa. E il disastro chi lo rimette a posto? Da noi un proverbio dice: chi rompe paga...
Un giornale oggi titola: L’ultima bandiera americana sull’Iraq. Non so, cara Shahrazād, se è proprio così. Io sono stato molte volte in Iraq e anche a Baghdad, dove c’è l’Ambasciata più grande del mondo. Me lo confermi? Era in costruzione nel 2007, personalmente non l’ho mai vista, ma pare sia grande come 80 campi da calcio, con 21 edifici, capace di ospitare sino a mille persone e con un costo che sfiora i 600 milioni di dollari.
Se penso all’Iraq, penso a Giovanni Paolo II, al suo accorato appello contro la guerra nel ’91 (‘avventura senza ritorno’), contro l’embargo durato anni, una vera e propria guerra. Contro, poi, la guerra iniziata a marzo 2003. Ce lo ricordiamo, appassionato, a tentare l’impossibile, a gridare il suo no alla guerra, con milioni di persone che manifestavano in tutto il mondo. Ma tutto sommato la sua è stata una voce isolata, e forse un po’ oggi dimenticata, anche nella chiesa. Come dimenticare l’omelia dei funerali dei militari uccisi a Nassiriya. L’ho seguita in Tv da Baghdad. Non mi era piaciuta. Ogni volta che con gli amici di Pax Christi arrivavamo in Iraq, la gente ci faceva una festa incredibile e ci chiedeva ‘non dimenticateci, invitate altri a venire a trovarci, ci sostenete in un momento molto faticoso’. Ma il primo vescovo italiano ad andare in Iraq, al di là dei Nunzi e degli Ordinari militari, è stato il presidente di Pax Christi, nel giugno scorso. Si, un po’ vi abbiamo lasciati soli, scusa Shahrazād.
Certo qualcuno dirà di no, che vi abbiamo dato anche tanti soldi. Che ci siamo impegnati come Stato, in occasione di rapimenti e uccisioni di italiani, donne e uomini. Certo. Ma resta il fatto che con l’Iraq abbiamo, noi dell’Occidente, cercato di fare businnes, affari: con il petrolio e con le armi. Quante ne abbiamo vendute a Saddam? Me lo chiedeva nel 2002, una catechista di Mosul.
Ti saluto Shahrazād, e nel tuo nome racchiudo tutti i nomi e i volti delle tante persone incontrate in Iraq, nelle grandi città come Baghdad, Mosul, Bassora, Kirkuk, Erbil, fino ai più piccoli paesi come Karemles, Piracca. Batnaia, Mergasor.
Grazie. E non addio, ma arrivederci.