"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

8 marzo 2007

DORA: Il paradiso perduto dei cristiani di Baghdad

Fonte: Ufficio Pastorale Migranti, Arcidiocesi di Torino, voce: IRAQ

di Luigia Storti

All’inizio del 2007 il Patriarcato Caldeo ha reso ufficiale il trasferimento del Seminario Maggiore di Saint Peter e del Babel College, l’unica facoltà teologica cristiana, da Baghdad ad Ankawa, nel nord dell’Iraq controllato dal Governo Regionale Curdo. Una decisione sofferta ma resa necessaria dal precipitare degli eventi che soprattutto negli ultimi mesi era stato vorticoso.
Entrambe le istituzioni, infatti, si trovavano a Dora, un quartiere meridionale della capitale da tempo palcoscenico di atti di violenza efferati dei quali molti cristiani erano rimasti vittime.

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La situazione a Dora aveva cominciato a peggiorare il 1 agosto del 2004 quando, a seguito degli attentati che quel giorno avevano colpito simultaneamente cinque chiese di Baghdad, proprio lì si erano registrati quindici vittime tra i fedeli che al momento delle esplosioni stavano lasciando le chiese dopo la funzione pomeridiana. A quella strage erano seguiti diversi episodi di uccisioni mirate, rapimenti, minacce ed estorsioni che, in quel quartiere come in altri, miravano e mirano a rendere le zone della città omogenee dal punto di vista religioso e che l’hanno già praticamente divisa tra un ovest sunnita ed un est sciita. In quel vortice di violenza la comunità cristiana di Dora, una comunità numerosa e ben radicata, si è trovata improvvisamente esposta e vulnerabile ad ogni attacco e sopruso. Eppure il desiderio era quello di rimanere, di lasciare che le acque si calmassero per riprendere la vita di sempre, e simbolo di questa resistenza erano proprio le istituzioni cristiane: le chiese, e soprattutto il seminario e l’università. Ma con il passare dei mesi la vita di sempre divenne sempre più un ricordo senza futuro. Sempre più cristiani abbandonarono Dora. I più abbienti verso l’estero o verso il nord del paese, i più poveri verso altri quartieri al momento più sicuri. E le chiese con sempre meno fedeli iniziarono a chiudere. Ma il seminario maggiore e la facoltà teologica resistevano, e con essi la speranza.

LA SPERANZA MUORE A DORA

Poi arrivò il 15 agosto del 2006, la data che ha segnato una svolta per la chiesa cattolica caldea. Una svolta che malgrado tutti si augurino temporanea alla luce del caos che avvelena il paese e che nessuno sembra poter fermare potrebbe essere definitiva: abbandonare Baghdad. Quel giorno infatti fu rapito, proprio a Dora, Padre Saad Sirop Hanna, parroco della chiesa di Saint Jacob e vice rettore del seminario maggiore. All’inizio quello di Padre Saad sembrò inserirsi nella scia di altri episodi di rapimenti che avevano colpito esponenti religiosi e che si erano conclusi in breve tempo: due monaci ed un sacerdote caldeo a Baghdad ed il vescovo Siro Cattolico di Mosul. Invece era solo l’inizio di una nuova strategia: colpire i simboli per terrorizzare tutti, ed accelerare il processo di pulizia religiosa del quartiere. Una strategia che ha funzionato, visto che solo i cristiani che davvero non hanno avuto alternative ancora vi vivono, ma a cui la chiesa non aveva i mezzi per opporsi. Con il rapimento di Padre Saad ancora in corso, infatti, (si sarebbe concluso l’11 settembre con il pagamento di un riscatto) fu impossibile riattivare i corsi di studio del Babel College, e divenne ancor più pericoloso tenere nel quartiere i seminaristi, praticamente reclusi nel seminario. Eppure ancora c’era speranza, si “voleva” che ci fosse speranza. Il seminario minore caldeo, situato nella zona nord-orientale di Baghdad, era già chiuso da mesi per ragioni di sicurezza, e chiudere anche quello maggiore sarebbe stato il segnale della sconfitta. Fermare i corsi del Babel College per mancanza di studenti e docenti, molte volte fisicamente impossibilitati a raggiungere la struttura, avrebbe significato la fine di un’istituzione che negli anni si era costruita una solida reputazione nel campo culturale, ma anche ecumenico ed interreligioso.
Nato nel 1991 per volere dell’allora Patriarca Caldeo, Mar Raphael Bedawed I, allo scopo di formare, anche a Baghdad e non solo all’estero, una elite religiosa in grado di guidare la chiesa, il Babel College aveva accolto negli anni studenti e docenti di altre chiese, cattoliche e non, e vantava tra i docenti di filosofia anche alcuni professori di fede islamica. Con il rilascio di Padre Saad la volontà di riaprire le iscrizioni ed i corsi rinacque, ma, a soli cinque giorni da quella data felice un altro rapimento la cancellò. Ad essere rapito fu Padre Basel Salem Yaldo, docente di Mariologia preso il College, vice rettore del seminario e segretario particolare del Patriarca caldeo, Mar Emmanuel III Delly. Il rapimento di Padre Basel dimostrò definitivamente che quello di Padre Saad non era stato dovuto al caso. Padre Basel, infatti, proprio perché consapevole, per il suo ruolo nella Chiesa, di essere un bersaglio, ormai da un mese era costretto a vivere con i seminaristi nel Seminario Maggiore, senza neanche rispondere al telefono. Il 18 di settembre, però, aveva deciso di recarsi presso la sede del Patriarcato ad abbracciare Padre Saad, ma la macchina che lo trasportava non riuscì neanche a varcare i confini di Dora, e fu fermata da uomini armati che lo prelevarono. Il rilascio ci fu dopo solo due giorni, si dice senza il pagamento di nessun riscatto in denaro, ma con l’obbligo per Padre Basel di riferire alcuni messaggi al suo Patriarca ed anche a Papa Benedetto XVI. Non si deve dimenticare, infatti, che il periodo era quello immediatamente successivo al discorso sulla fede e la ragione che il Pontefice aveva tenuto a Ratisbona, e che aveva infiammato il mondo islamico che vi aveva letto un’offesa al suo Profeta, Maometto.
I contenuti dei messaggi di cui Padre Basel fu costretto a fare da latore non sono mai stati resi noti ufficialmente, ma certo è che lo stesso sacerdote insieme a Mar Emmanuel, incontrò nel corso di un’udienza privata il Santo Padre già alla fine di settembre.
Due rapimenti a Dora segnarono la fine di ogni speranza di rimanere in quel quartiere. Era necessario trovare un’alternativa.

DA BAGHDAD JADIDA AD ANKAWA

Il Seminario Maggiore fu chiuso ed i seminaristi trasferiti nel nord del paese per un ritiro spirituale. Anche il Babel College fu chiuso, e si decise di riaprirlo presso la chiesa di Mar Ghorkhis, nel quartiere più centrale di Baghdad Jadida. La chiesa ha annesso un edificio che serviva come asilo e scuola di catechesi e che nel giro di un mese, con un frenetico lavoro, fu adattato ad ospitare i seminaristi ed anche a tenere le lezioni. Certo non era una soluzione perfetta, ma al momento era l’unica. Anche Baghdad Jadida, però, era destinata a diventare zona pericolosa per i cristiani. Ed anche lì venne applicata la stessa strategia vista a Dora: colpire i simboli per terrorizzare tutti. Così a novembre fu rapito Padre Douglas Al Bazi, parroco della chiesa di Mar Eliya, a Baghdad Jadida, direttore dell’Istituto della Catechesi del Babel College e referente iracheno del progetto dell’Ufficio Pastorale Migranti dell’Arcidiocesi di Torino diretto da Don Fredo Olivero,
“Io ho un nuovo amico, un sacerdote caldeo iracheno.”
A dicembre fu poi la volta di Padre Sami Al Rays, Rettore del Seminario Maggiore, sequestrato mentre si recava alla chiesa di Mar Ghorkhis. Entrambi i rapimenti si sono conclusi bene grazie al pagamento dei riscatti richiesti, ma hanno rappresentato il segnale definitivo che tutti temevano: neanche Baghdad Jadida era ormai sicura. In questa atmosfera si impose l’unica scelta al momento possibile: trasferire le due istituzioni nel nord del paese per garantirne la continuità.
E’ presto per dire che il nord del paese controllato dal Governo Regionale Curdo, di fatto semi-indipendente da Baghdad, sarà il rifugio dei cristiani iracheni. Se per ora la zona è calma perché controllata militarmente dalle milizie curde, non è detto che lo rimanga per sempre. Tensioni ora solo sulla carta potrebbero diventare un giorno motivo di scontri sanguinosi di cui i cristiani, come minoranza, potrebbero essere le prime vittime. Due su tutte: l’indipendenza curda ed il possesso di Kirkuk.

KURDISTAN: PARADISO O INFERNO PER I CRISTIANI IRACHENI?

Che i curdi iracheni sognino l’indipendenza non è un segreto, ma un volere più volte espresso anche dalle massime autorità del Governo Regionale Curdo, di fatto uno “stato nello stato” semi indipendente dal governo centrale. Un desiderio però che si scontra con il volere degli stati confinanti, Siria, Iran e Turchia che temono simili richieste da parte delle proprie minoranze curde che nel caso della Turchia, ad esempio, ammontano a milioni di persone da sempre considerati curdi di serie B o “turchi di montagna” come sono stati ufficialmente definiti nel tentativo di negare la loro identità etnica e culturale ed assimilarli a quella turca.
Per quanto riguarda Kirkuk per questa città dell’Iraq settentrionale si affaccia la solita maledizione irachena: il petrolio. Se il territorio su cui si trova Kirkuk producesse broccoli - il paragone usato per il Kuwait invaso dall’Iraq nel 1991 - a nessuno importerebbe averla. Si dà il caso però che Kirkuk “galleggi” letteralmente su uno dei più grandi giacimenti del paese e quindi sia preda ambita dai curdi, che vorrebbero annetterla al proprio territorio in nome di una sua pretesa “kurdistanità storica” e gli arabi che la considerano parte integrante del proprio. Un gioco in cui si inserisce anche la Turchia che rifiuta nettamente l’annessione di Kirkuk al Kurdistan che diventerebbe non solo più vasto estendendo il proprio territorio, quanto più forte grazie alle ulteriori rendite petrolifere. Secondo la costituzione irachena alla fine del 2007 un referendum deciderà delle sorti di Kirkuk, e la parte perdente dovrà decidere se reagire alla sconfitta in modo pacifico o nell’unico modo in cui da decenni si regolano i conti in Iraq: la violenza.
Se dovesse deflagrare un conflitto tra il governo centrale e quello curdo, se se frange armate di arabi pretendessero la “restituzione” della città, o se anche la Turchia decidesse di intervenire, i cristiani si troverebbero di nuovo presi in mezzo, minoranza indifesa che anche se non fosse principale bersaglio di queste lotte certamente ne diverrebbe vittima.

C’E’ UN FUTURO PER LA CRISTIANITA’ IN IRAQ?

Da quando la religione cristiana, che in quelle terre è stata assorbita fin dai primi secoli, ha perduto la sua influenza riducendosi a religione di minoranza sono stati molti i periodi di crisi. Certamente però gli ultimi anni sono stati tragici. In un paese dove vige la legge del più forte, del più armato, di chi può schierare sul campo più vite desiderose o costrette ad immolarsi per le proprie, o le altrui, idee, essa può e sa solo rispondere con l’amore che Dio ha riversato su tutte le Sue creature. Una moneta che vale poco nell’inferno iracheno. La speranza però non muore, la fede nella Divina Provvidenza neanche, ed il Babel College ne è l’esempio. La determinazione con la quale, nonostante tutto e tutti, il suo rettore, Monsignor Jacques Isaac, ha lottato per farlo sopravvivere deve far riflettere. Ciò che noi, cristiani cattolici in terra d’Italia diamo per scontato è altrove una conquista, una prova di coraggio, la convinzione dei cristiani iracheni di appartenere a quel paese e di avere ogni diritto di contribuire alla sua rinascita.