"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

30 marzo 2007

“La pace non la si può costruire da soli”, afferma l’Arcivescovo di Baghdad

Fonte: Zenit Codice: ZI07032912

Intervista a monsignor Jean Benjamin Sleiman
BAGHDAD, giovedì, 29 marzo 2007

Nel quarto anniversario della presenza americana in Iraq, la situazione irachena sembra correre a passi da gigante verso una maggiore complessità, e all’ombra di questa situazione difficile sorgono molte domande sulla situazione e sul destino dei cristiani e sulle possibili vie d’uscita. ZENIT ha intervistato l’Arcivescovo di Baghdad, monsignor Jean Benjamin Sleiman, per cercare di intravedere insieme a lui una prospettiva di lettura e di speranza nel turbolento scenario iracheno.
Monsignor Sleiman, 57 anni, libanese di origine maronita, ha ottenuto la Licenza in Sociologia all'Università di Lione, ha conseguito il Magistero in Scienze Sociali all'Università di Beirut e il Dottorato in Antropologia sociale e culturale all'Università di Parigi V - Sorbonne. Definitore Generale dell'Ordine carmelitano dal 1991 al 1997, è stato rieletto per un altro sessennio fino al 2003. Ha insegnato Scienze Sociali all'Università St. Joseph dei Padri Gesuiti di Beirut e Antropologia sociale e culturale al "Teresianum" di Roma. Dal 2001 è Arcivescovo dei cattolici di rito latino a Baghdad. L’Arcidiocesi Latina di Baghdad abbraccia tutto il territorio iracheno.
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Alla vigilia dell’invasione americana dell’Iraq c’erano molte speranze che finalmente l’Iraq si sarebbe riscattato dalla dittatura e avrebbe vissuto una rinascita economica e sociale. Come mai tutte queste attese sono state deluse? Mons. Sleiman: Come premessa direi che, al momento dell’invasione, l'Iraq non era conosciuto per quello che è. Durante il regime di Saddam Hussein, si aveva l’impressione di una società che funzionava bene. Pochi sapevano che l'Iraq era poco omogeneo e che c'erano delle violenze saltuarie. L'Iraq, in fondo, è rimasto tribale dal punto di vista antropologico. Gli americani, accolti come salvatori, hanno progressivamente deluso la popolazione. Dopo la caduta di Baghdad, hanno lasciato stare i saccheggiatori che sono partiti dai saccheggi delle sedi del governo baathista, fino ad arrivare a saccheggiare e ad umiliare la gente. La gente era ferita nella sua dignità: i saccheggiatori entravano anche negli ospedali e umiliavano la gente. L'ammirazione di tanti per gli americani è mutata in odio e paura. Per tre mesi l'Iraq è stato vuoto di istituzioni: nessun governo, nessuna istituzione, nessuna sicurezza. Questi tre mesi sono stati molto negativi per il seguito, tanto che molti gruppi e milizie si sono formati e armati. Le infrastrutture andavano di male in peggio. Mancavano la benzina, il gasolio, il gas e l’elettricità. Sono cose che alla lunga stancano. C’è poi la sicurezza: la polizia difende se stessa, ma la popolazione civile non ha nessuno che la difenda. Alla vigilia dell’invasione americana ho affermato in un’intervista alla radio che stavo pregando intensamente per la pace, e il giornalista mi disse: “Ma la guerra sarà facile”, e la mia risposta è stata questa: “La guerra sarà facile, ma costruire la pace sarà difficile”. E questa non era una profezia ma una semplice constatazione. La guerra la si può fare da soli, ma la pace non la si può costruire da soli, c’è bisogno del contributo di tutti, e l'ultimo dei kamikaze può rovesciare un piano di pace. Difatti ora la ricostruzione non si fa, in quanto i fondi destinati alla ricostruzione vengono spesi per la difesa e per la sicurezza.
Lei ha scritto ultimamente un libro nel quale presenta la sua visione sulla questione irachena. Il titolo è già suggestivo: “Dans la Piège Irakien” [Nella trappola irachena]. Perché parla di “trappola”?
Mons. Sleiman: Parlo di trappola perché mi sono reso conto che tutti i protagonisti dell'Iraq si trovano ora davanti a una via senza uscita. Gli sciiti hanno stravinto, possiedono il potere, ma non possono andare avanti, sia per le resistenze interne che per le resistenze esterne e per le contraddizioni. Sono la maggioranza, ma non sono tutti d'accordo fra loro, la lotta per il potere fa dividere. I sunniti hanno causato tanta violenza, hanno resistito, ma non sono riusciti a rovesciare il corso delle cose. E si trovano davanti a una scelta da fare: o continuare con la violenza o fermarsi senza aver ottenuto ancora ciò a cui aspiravano. I curdi forse sono i grandi vincitori. Loro che erano emarginati, partecipano ora in maniera effettiva al governo dell'Iraq con un Presidente e un Ministro degli Affari esteri. Ma anche loro non sono arrivati a realizzare tutto ciò che sognavano. Perché il federalismo non ha il placet di tutte le fazioni. Le minoranze cristiane e non cristiane sono intrappolate nella loro paura, sono sequestrate e intrappolate nel loro Paese.
E in che situazione si trovano gli americani?
Mons. Sleiman: Gli americani sono sempre protagonisti, ma questo non vuol dire che possano tutto; anche loro danno l'impressione di essere divisi di fronte a una scelta difficile da fare: o uscire dall'Iraq e perdere tutto, o continuare per realizzare una vittoria affrontando una violenza che non dà ancora segni di stanchezza. Bisogna notare che c'è molta gioventù, e i ribelli fanno molte reclute. Gli americani mettono in prigione i ribelli, ma i ribelli continuano ad agire comunque. Queste cose fanno dire che il treno è andato troppo veloce, e che gli americani sono nella trappola irachena come tutti gli altri.
Che differenza riscontra tra la situazione dei cristiani in Iraq prima della caduta del regime di Saddam e dopo l’invasione americana? Mons. Sleiman: Sotto il regime non c'era libertà, ma c'era sicurezza. E come in tutti i Paesi islamici si rispettavano certe libertà delle minoranze come il culto, ma solo entro le mura dei luoghi di culto. C'era comunque la paura di esprimere il proprio parere. Come ogni regime nel mondo arabo, il regime di Saddam ha cercato una sua continuità, il trionfo e la sicurezza. Chi era contro il regime veniva minacciato, punito e ucciso. Questo dipendeva non dalla religione, ma dalla posizione politica. Tra gli sciiti ci sono stati i grandi ayatollah, che hanno rifiutato certe posizioni del regime e sono stati perseguitati. C'era una regola non scritta: non pensate alla politica, fate liberamente tutto il resto. Dopo la caduta di Saddam, i cristiani hanno la libertà, ma non la possono esprimere. C'è la libertà, ma ci sono le condizioni prive di libertà. L'ultimo armato con un fucile può toglierla. Il cristiano, in mancanza di uno Stato di diritto, è debole. È caduto lo Stato di diritto, e i cristiani si trovano eccessivamente vulnerabili. Non creano milizie e non fanno guerra per proteggersi perché non hanno la cultura della violenza come mezzo di potere. Se ci fosse uno Stato, i cristiani contribuirebbero molto, perché la loro esistenza è pacifica, aperta agli altri. Nelle ultime elezioni non erano uniti e non hanno avuto liste proprie, ci sono pochi cristiani eletti ma su liste sciite o curde, non possono esprimere quello che vogliono, ma quello che vuole la loro lista.
Negli ultimi due anni ben sette chiese evangeliche sono state aperte a Baghdad. Giunti sulla scia dei soldati americani, i predicatori riformati si sono inseriti in un contesto in cui cristiani e musulmani convivono con il tacito accordo di non tentare di convertirsi a vicenda. Come influiscono questi predicatori sulla situazione attuale dei cristiani in Iraq?
Mons. Sleiman: Bisogna dire che questo fenomeno dei predicatori è un fenomeno mondiale. In Iraq sono arrivati all’indomani del crollo del regime. Hanno un argomento: la libertà religiosa, ma secondo me non hanno rispetto per le chiese antiche che sono lì. E volendo convertire i musulmani creano molti sospetti. Il loro proselitismo non rispetta la mentalità dell'Iraq. I cristiani iracheni hanno radici e vissuti culturali simili a quelli dei musulmani. Non si può venire così in una maniera imperialista per impiantare il cristianesimo. Questo atteggiamento aumenta la dose di sospetto contro i cristiani e danneggia ingiustamente i cristiani dell’Iraq. La cristianità irachena è nella sua maggioranza apostolica del primo secolo, a parte le Chiesa latina, protestante o la Chiesa armena che è diventata importante durante la prima guerra. I cristiani in Iraq non sono un microbo nel corpo, ma sono il corpo, e come tali sono circondati da altre realtà. Basti ricordare l'apporto di civiltà ai tempi dei califfi: i grandi medici di allora erano cristiani ed ebrei. La traduzione dei classici greci l'hanno fatta i cristiani. Storicamente, il viaggio della filosofia dei greci per via degli arabi verso l’Europa è stato mediato dalle traduzioni dei monaci cristiani. I cristiani dell’Iraq non vengono da altrove, ma sono i figli più antichi di quella terra. Recentemente, il mensile iracheno “Al-Fikr Al-Masihi” (“Pensiero Cristiano”) ha vinto la prestigiosa Medaglia d’Oro 2007 attribuita dall’International Catholic Union of the Press (UCIP). Che significato ha questo premio la rivista e per i cristiani iracheni?
Mons. Sleiman: “Al-Fikr Al-Masihi” nasce in Iraq nel 1964 dalla Congregazione di Cristo Re, e poi viene affidata ai padri domenicani. Come rivista cristiana ha il suo impatto e quelli che vi lavorano, lavorano con coraggio. Perciò credo che nel premiare “Al-Fikr Al-Masihi” l’UCIP ha voluto certamente premiare la resistenza e la volontà di continuare dei cristiani in Iraq.
Da poco è ricorso il quarto anniversario dell’invasione americana dell’Iraq. La situazione sembra stagnante, anzi sembra peggiorare. Qual è il messaggio che le preme lanciare ai protagonisti del dilemma iracheno al fine di uscire da questa “trappola”?
Mons. Sleiman: Il mio auspicio più grande è che si giunga a una soluzione di questo dilemma umano. Bisogna capire che la questione irachena non è più soltanto irachena, è diventata una questione mediorientale; se non la si risolve, potrebbe diventare un incendio che si espanderà fino al mediterraneo, e forse anche fino all'Africa del nord. Bisogna accettare la collaborazione dei Paesi limitrofi, che hanno i loro interessi e le loro paure. Penso che non si possa ricostruire la pace da soli, un consenso delle Nazioni è sempre importante. Bisogna costruire la pace in Iraq, per proteggerla altrove. Se c'è una guerra tra sunniti e sciiti in Iraq, un incendio enorme infiammerà tutta la zona. Sicuramente si estenderà ad altri Paesi. L'America impedisce uno scontro generalizzato tra fazioni, ma essa potrebbe fare di più se favorisse la riconciliazione che vuole il governo attuale. Bisogna favorire l’incontro politico per giungere alla riconciliazione. Anche il generale delle forze americane in Iraq, David Petreus, afferma che la soluzione della crisi non può essere militare. Bisogna mettere ordine, ma perché l'ordine continui ci vogliono misure politiche.
Lei ha scritto un libro sulla santa carmelitana, Teresa Benedetta della Croce, dal titolo “Edith Stein: Testimone per oggi, profeta per domani”. La spiritualità cristiana ha una parola da dire in tutta questa sofferenza? Come può un cristiano essere profeta per il domani in Iraq?
Mons. Sleiman: Non si può resistere al male senza l'esperienza spirituale. Tanti vedono in Edith Stein la figura della martire, ma lei non è soltanto una martire ad Auschwitz. Edith Stein è una donna che porta una speranza, lei viveva il cristianesimo in maniera profetica. Un profeta, nell’accezione biblica e cristiana, diventa lo specchio di Dio; non è qualcuno che conosce necessariamente ciò che sarà. È uno che capisce e vive la parola di Dio e ne rivela le ricchezze. Edith si deve scoprire come maestra di vita spirituale e di vita di speranza. Come martire lei ci testimonia che il Signore è più grande di qualsiasi male, ci fa capire che il male non è l’ultima parola. Tutti siamo scandalizzati dal male e dalla potenza dei cattivi, ma chi approfondisce capisce che il male è un non essere, il male esiste perché il bene non ha fatto la sua parte. Nelle mie omelie cerco di aiutare la gente a vivere la speranza, che è il dono di Dio. La speranza è che malgrado tutto ciò che subiamo di male e di ingiustizia, non è questa l'ultima parola. La mia preghiera è semplice: "venga il tuo regno" e quando dico così ho davanti agli occhi persone che a nome di Dio stanno uccidendo, a nome di Dio vogliono fare la pulizia etnica. Per essi prego affinché il Regno di Dio si riveli in loro come regno di pace, di perdono e di amore.