"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

18 marzo 2021

Baghdad, a due settimane dal Papa crescono i contagi di Covid-19


A quasi due settimane dalla storica visita di Papa Francesco, in Iraq si registra un picco di contagi da nuovo coronavirus con numeri record e un tasso di incidenza definito “inusuale” dagli esperti. Un evento di dimensioni ridotte, con un numero limitato di partecipanti sia alle celebrazioni che in occasione degli incontri pubblici, che ha comunque richiamato l’attenzione di migliaia di persone, cristiani e musulmani, comportando inevitabili assembramenti.
Secondo i dati ufficiali forniti dal ministero della Sanità, il 17 marzo si sono registrati 5663 nuovi casi di positività al virus e 33 decessi in una nazione di circa 40 milioni di abitanti e alle prese con penurie e mancanze decennali di medicine, di dottori e di ospedali funzionanti. Da qui la scelta delle autorità di confermare il coprifuoco, per scongiurare occasioni di incontro e di contagio.
Interpellato da AsiaNews mons. Basilio Yaldo, ausiliare di Baghdad e stretto collaboratore del patriarca Louis Raphael Sako, sottolinea che “sono numeri che non si discostano di molto dalla normalità. Da tempo si registrano oltre 4mila casi, quindi non si è avuta una grande variazione” dopo il viaggio apostolico.
Inoltre, fa notare il prelato, “in Giordania si è registrata una crescita ancora maggiore, assai notevole in rapporto alla popolazione e di gran lunga maggiore rispetto all’Iraq in cui, questo è vero, dovremmo rafforzare le operazioni di test e tracciamento. Del resto - conclude - il Covid-19 è diventato ormai parte della nostra vita quotidiana. Prima la gente aveva molta paura, adesso sa che è un elemento come gli altri da affrontare”.
Dall’inizio della pandemia di Covid-19 si contano 768.352 casi di nuovo coronavirus e 13.827 vittime. Sempre secondo le cifre fornite dal ministero della Sanità, ogni giorno vengono effettuati circa 40mila test; un numero secondo gli esperti troppo esiguo in una nazione che conta diverse città con oltre due milioni di abitanti, in cui la densità della popolazione è alta e la promiscuità negli ambienti, soprattutto all’interno delle case, un fattore permanente.
Oltre alla mancanza di medicine, dottori e di attrezzature per curare i malati - tanto che, in genere, i contagiati preferiscono procurarsi bombole di ossigeno e restare a casa, invece di andare negli ospedali - vi sono anche forniture assai limitate di vaccini. Finora l’Iraq ha ricevuto un misero totale di 50mila dosi del cinese Sinopharm, arrivate alla vigilia della visita del pontefice.
Il governo intende acquistare 16 milioni di dosi, ma la mancata approvazione del budget 2021 da parte del Parlamento ha sinora bloccato le operazioni.
In occasione degli incontri e delle celebrazioni del papa, ma questo avviene anche nella quotidianità, era raro vedere persone indossare mascherine o dispositivi di protezione personale. La recente introduzione di una norma che invita all’uso è rimasta sinora in gran parte disattesa.

Papa in Iraq: p. Spadaro, “potente cambio di paradigma e forte messaggio spirituale a tutto il mondo”


 “La fratellanza non si affida a patti interessati a equilibri di potere o economici, ma solamente all’umanità più vera e autentica: è l’arca che può salvarci dal diluvio”.
Padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, conclude così il suo pezzo sul quaderno 4.098 della rivista, in uscita sabato.
Il gesuita, presente in Iraq al seguito del Pontefice, offre una testimonianza di prima mano del viaggio papale. Prima della cronaca e del commento, ricorda la genesi del progetto nel cuore di Papa Francesco: “Guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene co­mune di tutte le componenti anche religiose della società”, nucleo del viaggio. Spadaro sintetizza quindi gli elementi di contesto del viaggio: importanza geopolitica, tensioni nell’Iraq che accoglieva il Pontefice, presenza dei cristiani e loro fuga da una regione centrale nella storia dell’umanità, oltre che delle religioni. A seguire la cronaca delle giornate, con le parole più importanti, i segni più belli e gli incontri più significativi: il discorso alle autorità “per una nuova cittadinanza” all’arrivo a Baghdad; gli incontri con le comunità cristiane dell’Iraq che “sono come tanti singoli fili colorati di un unico bellis­simo tappeto”; la “indimenticabile” visita al Grande Ayatollah al-Sistani a Najaf; l’incontro interreligioso di Ur, cantiere di futuro fondato sulla memoria comune di Abramo; le tappe di Erbil, Mosul, Qaraqosh, dove, tra le macerie della guerra, è sbocciata di nuova la bellezza della diversità contro il fanatismo monocromo. Nello spirito dell’enciclica Fratelli tutti, l’analisi di Spadaro, “il viaggio rappresenta un potente cambio di paradigma rispetto alle narrative consolidate e alle strategie imperialiste sul Medio Oriente. E lancia un forte messaggio spirituale, valido per l’Iraq e per il mondo”.

17 marzo 2021

Iraqi woman who met the pope sees little chance for change

Samya Kullab
March 12, 2021

The story of Doha Sabah Abdallah’s personal tragedy and loss deeply resonated with Pope Francis during his historic visit last weekend to the northern Iraqi town of Qaraqosh, once devastated by Islamic State group militants.
Back in 2014, her son’s death alerted the town’s Christian community to the impending IS onslaught. A mortar shell fired by the militants as they approached Qaraqosh struck outside Abdallah’s house, killing her son and two cousins playing in the front yard.
The pope heard Abdallah’s testimony at a church ceremony in Qaraqosh last Sunday.
But just days after the pontiff’s visit — meant to give hope to Iraq’s dwindling Christian community and encourage its members to stay — Abdallah doubts the realities of life in Iraq will change. She said she would also leave if given a chance.
“The pope doesn’t have Moses’ staff, he can’t part the seas and solve our very difficult problems,” she told The Associated Press over the phone on Thursday. “If I had the resources or if someone gave me the chance to leave this country, I would never come back.”
Years after Iraqi forces declared victory over IS and drove militants from the area, Abdallah’s disabled daughter still cannot attend proper schools, homes are still shattered and in ruins. Jobs are hard to come by, and none of Abdallah’s relatives abroad plan to return.
Iraq’s Christian population, which has existed since the time of Christ, has dwindled from around 1.5 million before the 2003 U.S.-led invasion to just a few hundred thousand today. Estimates put the current population between 250,000-500,000.
As churches and Christian communities were increasingly targeted by extremist groups at the height of Iraq’s sectarian war that followed the invasion, the country saw an exodus of Christians. Even more fled after the brutal 2014 IS onslaught that emptied out entire Christian villages across the northern plains of Ninevah.
Francis’s four-day visit to Iraq ,including Qaraqosh, aimed to encourage Christians to stay, rebuild and restore what he called Iraq’s “intricately designed carpet” of faiths and ethnic groups.
Qaraqosh, a majority Christian town in Ninevah, is just one of many that was attacked by IS seven years ago. The militants overran the town, damaged its church and scrawled the proclamation “Islamic State will remain” on town walls.
The few Christians who returned after the liberation of Qaraqosh in 2016 found bullet-riddled mannequins and other signs that the militants had used the church premises as a firing range for target practice. Many homes were leveled in the battles to oust the group and basic services have yet to be restored. Most of the town’s Christians remain scattered elsewhere in Iraq or abroad.
Abdallah remembers vividly that August 2014, when IS militants rampaged through Christian communities across Ninevah. She remembers her son and his two cousins.
“Their souls saved the whole city,” she recounted to the pontiff on Sunday.
On the plane back to Rome, the pope singled her testimony and told reporters it had “touched me most.”
“She said one word: forgiveness. I was moved,” Francis said.
At every turn of his historic trip as he crisscrossed Iraq, Francis urged Iraqis to embrace diversity — from Najaf in the south, where he held a historic face-to-face meeting with powerful Shiite cleric Grand Ayatollah Ali al-Sistani, to Nineveh to the north, where he met with Christian victims like Abdallah.
But after the pontiff’s departure, Abdallah said, reality has set in.
“Our situation is difficult because there is no internal agreement within the government,” she said. “How could anyone come back? There are no basic services.”
Bahnam Yussef, another resident of Qaraqosh, echoed her concerns. “The pope’s visit drew the world’s attention to Iraq,” he said, but Christians need more assurances before returning.
“They must get help, some of them have houses destroyed and burned, all this loss has to be compensated,” he added.
Marking the pope’s visit, Prime Minister Mustafa al-Kadhimi declared March 6 a national day for tolerance and co-existence. But such gestures have not been accompanied by practical steps. So far, Iraq has not passed any legislation or enacted policies to entice Christians to return.
Abdallah said her wish is to live in an Iraq where Christians and other minorities are afforded equal rights — not today’s Iraq where the sectarian power-sharing system often marginalizes minorities.
“It was incredible to see the pope, I never dreamed I would be so close to him” she said. “But it hasn’t changed anything.”

Associated Press writer Nicole Winfield in Rome contributed to this report.

Vi racconto iI miracolo del papa in Iraq. Parla padre Spadaro

Francesco Gnagni

La storica visita apostolica di papa Francesco in Iraq, che si è svolta dal 5 all’8 marzo e che ha visto Bergoglio incontrare tutta una serie di leader politici e religiosi, e pregare in quelle terre, di fronte a luoghi fortemente simbolici, non è stata di certo solamente un viaggio di cortesia, ma al contrario è servita a molteplici scopi. Tra questi, certamente dimostrare la propria solidarietà a una comunità cristiana assediata, ma anche promuovere il dialogo con il mondo musulmano e sostenere gli sforzi per promuovere la pace e la riconciliazione in Medio Oriente.
Padre Antonio Spadaro lo ha spiegato durante l’evento online organizzato dal Berkley Center for Religion, Peace, and World Affairs della Georgetown University, insieme alla rivista da lui diretta, La Civiltà Cattolica, a cui ha partecipato in qualità di relatore insieme al giornalista Riccardo Cristiano, firma di Formiche.net. L’incontro è stato introdotto e moderato da Shaun Casey, direttore del Berkley Center for Religion, Peace, and World Affairs.
LA VISITA DEL PAPA IN UN PAESE DALLA STABILITÀ POLITICA MOLTO FRAGILE
 “Pensare alla visita del papa in Iraq poteva sembrare un miraggio”, ha spiegato fin da subito il gesuita, ricordando il desiderio di San Giovanni Paolo II di visitare il Paese e il contesto geopolitico dell’epoca, che vedeva gli Stati Uniti preoccupati per il fatto che la visita del papa polacco avrebbe potuto rafforzare la figura di Saddam Hussein, e non a caso Wojtyla alzò la voce contro la Guerra del Golfo, culminata nel 2003 proprio con la seconda spedizione americana e la destituzione del dittatore iracheno. Basta infatti guardare alla molteplicità degli itinerari di papa Bergoglio per capire l’importanza della sua presenza in un Paese la cui stabilità politica è ancora oggi molto fragile, e dove per questo la “ricostruzione della fiducia è essenziale” per la creazione di un ambiente favorevole ai cristiani, ha spiegato Spadaro. “Il Papa nel primo discorso che ha tenuto alle autorità irachene ha indicato un percorso per costruire una società sana in Iraq”, ha quindi commentato il gesuita. Che confessa: “È stato impressionante per me, ad essere onesto, vedere un Papa insieme alle autorità irachene a Baghdad”.
LE DUE STRADE INDICATE DA PAPA FRANCESCO SECONDO IL GESUITA ANTONIO SPADARO
Per Spadaro le strade indicate da Francesco sono due. La prima è quella della cittadinanza, ovvero dello spazio che va necessariamente garantito a tutti i cittadini che intendono costruire un futuro migliore per l’Iraq. “È essenziale in questo senso assicurare la partecipazione di tutti i gruppi politici, sociali o religiosi, e garantire i diritti fondamentali di tutti i cittadini”, perché “nessuno dovrebbe essere considerato un cittadino di seconda classe”, ha chiosato Spadaro durante l’incontro. La seconda sfida invece, ha proseguito il religioso, è esterna al Paese, ed ha a che fare con il bisogno di una cooperazione su scala globale, volta ad affrontare le disparità e le tensioni che influenzano la stabilità di queste terre. In questo senso, per il direttore della storica rivista dei gesuiti l’interpretazione dell’islam di Al-Sistani differisce dall’interpretazione che prevaleva in Iraq, ad esempio, quando nel 2004 l’ayatollah ha sostenuto le libere elezioni nel Paese, dando un importante contributo alla pianificazione del primo governo democratico del paese. Oppure quando nel 2014 ha chiamato gli iracheni ad unirsi e a lottare contro il nascente Stato islamico. Non a caso, al termine dell’incontro, durato 45 minuti, i due leader religiosi hanno parlato all’unisono dell’importanza della cooperazione tra comunità religiose di valori e solidarietà.
LA VISIONE COMUNE TRA BERGOGLIO E L’AYATOLLAH AL-SISTANI
“È così che possiamo contribuire al bene del Paese e di tutta l’umanità”, è il commento del gesuita. Che ne è certo: “Le visioni dei due uomini, Al-Sistani, novant’anni, e papa Francesco, ottantaquattro anni, sono simili”. Tanto che anche il premier iracheno ha commentato l’evento parlando di uno storico incontro interreligioso, al punto da dichiarare il 6 marzo Giornata nazionale di tolleranza e convivenza in Iraq. Ed è quindi così che il messaggio di Papa Francesco diventa azione che “distrugge le narrazioni di tutti i principali attori mondiali coinvolti nell’area. Come Stati Uniti e Russia, ma anche Francia e Regno Unito, Turchia, i militanti iraniani o pro-Iran, gli sciiti e ora anche la Cina, almeno dal punto di vista commerciale”. Tra queste, c’è ad esempio la narrazione che vuole i cristiani come una sorta di avamposto dell’Occidente, o quella religiosa di conflitto permanente. Oppure, ancora, la “complessa visione politica che ha come fulcro Baghdad”, di chi vuole controllare politicamente l’islam usandolo come strumento di potere per ambizioni “neo-ottomane”. Contro tutte queste visioni conflittuali, ha spiegato Spadaro, “il discorso del Papa è stato inclusivo”, con l’affermazione che “oggi ebrei, cristiani, musulmani sono fratelli e sorelle, di religioni diverse, ma tutti unificati sotto un padre comune che è Abramo, che diventa un modello di società e di un modo di fare politica”.
LA GIOIA PALPABILE DEGLI IRACHENI NEL VEDERE UN PONTEFICE IN UNA TERRA CHE ERA DISTRUTTA DALL’ISIS
Il messaggio del papa, insomma, è un vero e proprio “invito a lasciare quegli attaccamenti che chiudono nei propri gruppi impedendo di vedere gli altri, nostri fratelli e sorelle”. Perché è da qui che inizia il sentiero per la pace. Francesco non ha fatto altro che mostrare la strada, spiegando che “chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ma ha un solo nemico da affrontare, che però si trova sempre all’agguato, alla porta del cuore, e bussa per entrare”. Un’insieme di richiami che mostrano come la visione religiosa della vita non assomiglia di certo a “una simbologia del passato”, ma a “un cantiere del futuro”. Quando poi Francesco si è infine recato a Mosul, città che è stata occupata per tre anni dalle truppe dell’autoproclamato Stato islamico, finendo per tutto quel tempo oggetto di forti devastazioni, ed ha pregato per le vittime della guerra, proclamando che la vera identità della città è nella convivenza tra persone di origini e culture diverse, “la gioia era palpabile”. “È stata una gioia vedere il Papa lì, è stato un miracolo”, ha concluso padre Spadaro. “Ricordo ancora le persone, suore, preti, laici, che ballavano e cantavano in una città che era stata completamente distrutta dall’Isis. È stato un viaggio davvero intenso, dove il ritmo del papa è stato incredibile. Mi chiedo dove abbia trovato l’energia per essere così vitale ed energico”.
GLI INTERVENTI DI RICCARDO CRISTIANO E DI SHAUN CASEY
Il “discorso delle stelle nel cielo”, pronunciato da Bergoglio a Mosul, per il giornalista Riccardo Cristiano è il punto più alto del viaggio, in cui si esprime “lo sguardo cosmico di Francesco”, che invita a guardare alla “fratellanza”, a “non attribuire la colpa a nessuna comunità”. “Questo spiega meglio della teologia e della filosofia quanto accade dentro di noi”, dice Cristiano. “Le stelle sono diverse ma il firmamento è uno. Quelle parole ci insegnano che tutte le creature vivono insieme”.
Shaun Casey ha invece posto l’attenzione sul fatto che gran parte degli aspetti simbolici del viaggio di Francesco siano sfuggiti nella copertura mediatica dell’evento che ne è stata fatta in Occidente, e in particolare negli Stati Uniti. Negli Usa, infatti, alla ricchezza dei contenuti, che si è incrociata ad una sorta di alfabetizzazione rispetto a quanto stesse accadendo, si è tuttavia aggiunta anche la stanchezza degli statunitensi riguardo al tema dell’Iraq. “Troppi americani vogliono voltare le spalle alla storia che sta accadendo oggi, a causa del costo che in passato gli Usa hanno pagato con l’Iraq, oltre che alla vergogna e al senso di colpa. Penso che i media americani abbiano colto quella stanchezza”.
Diverso è invece il punto per quanto riguarda la figura di Al-Sistani. “Credo che l’impegno di Al-Sistani meriti una riflessione più approfondita”, ha concluso Casey. “Guardando indietro dalla prospettiva del 2021, uno dei maggiori fallimenti del governo degli Stati Uniti è stato quello di non capire completamente chi fosse Sistani, e di conseguenza di non essere riusciti a impegnarsi con lui. Ancora oggi mi chiedo come sarebbero andate le cose se ci fosse stato qualche impegno, da parte delle truppe e del governo americani, in quella direzione”.

16 marzo 2021

Il cardinale Ayuso: “Dopo il Papa, non penseremo all’Iraq solo per le immagini di devastazione”

Salvatore Cernuzio

Dopo la visita del Papa, il mondo non ricorderà l’Iraq solo per le immagini di sofferenza e devastazione. Per il cardinale Miguel Ángel Ayuso Guixot, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, è assolutamente positivo il bilancio dello storico pellegrinaggio di Francesco in Iraq. Il porporato spagnolo ha accompagnato il Pontefice in ogni tappa della visita, incluso l’importante incontro a porte chiuse con il Grande Ayatollah Al-Sistani: «Un incontro cordiale, caratterizzato da atteggiamenti per nulla protocollari».

A pochi giorni dall’ottavo anniversario dell’elezione, il Papa ha visitato l’Iraq. Molti lo hanno definito non un semplice viaggio ma “il” viaggio, il più importante del pontificato. Perché?

 «Il viaggio in Iraq ha avuto un sapore speciale, perché è proprio la situazione difficile in cui versa quel Paese ad aver reso particolare l’iniziativa del Santo Padre. È una terra a tutt’oggi non pacificata e che deve ancora riprendersi da decenni segnati da guerre, violenze, distruzioni. Tutti sappiamo quanto negli anni passati la situazione irachena sia stata al centro delle preoccupazioni della Santa Sede che tentò in ogni modo di evitare la guerra esplosa negli anni ’90, consapevole delle tragedie che ne sarebbero derivate. È noto pure il profondo desiderio di San Giovanni Paolo II di recarsi pellegrino a Ur dei Caldei in occasione del Giubileo del 2000. A tutto questo Papa Francesco ha aggiunto la sollecitudine del Pastore che desidera incontrare la sua gente: non è andato in Iraq per difendere la comunità cristiana ma per incoraggiarla. La sua visita è stata davvero un’occasione favorevole affinché i cristiani, anche se minoritari in questa terra, non si sentano emarginati ma effettivamente parte della vita di tutta la Chiesa universale, non si sentano più una minoranza chiusa che lotta per sopravvivere o fuggire ma cittadini attivi che hanno il diritto e il dovere di contribuire allo sviluppo della società».
Il Papa ha lanciato importanti appelli anche per le altre minoranze…
«L’Iraq, che è senza dubbio il Paese arabo più ricco dal punto di vista etnico, religioso, culturale e linguistico, costituisce un bel mosaico da ricomporre con attenzione e custodire con cura. Le legittime diversità, anche dal punto di vista religioso, sono una ricchezza e non devono essere percepite come una minaccia. È chiaro pertanto che il messaggio a favore del dialogo interreligioso, e della sua promozione, emerge da tutto il viaggio di Papa Francesco».
In Iraq è stato anche il primo viaggio di un Papa in un Paese a maggioranza sciita. Lei ha accompagnato il Pontefice in ogni tappa, incluso l’incontro privato a Najaf con il Grande Ayatollah Al-Sistani. Può raccontarci qualche dettaglio in più di quel colloquio?
«Sì, ho avuto il privilegio di essere uno dei testimoni dell’incontro tra Papa Francesco e il Grande Ayatollah Sayyid Ali Al-Husaymi Al-Sistani. Un incontro caratterizzato da atteggiamenti per nulla protocollari – a cominciare dalla durata protrattasi oltre il previsto – con il Grande Ayatollah che si è alzato per ricevere il Santo Padre e alla fine si è alzato di nuovo per accompagnarlo e ancora lo ha richiamato e si sono rincontrati più volte. Un chiaro clima di cortesia, di accoglienza. Papa Francesco ha riaffermato i princìpi di parità tra tutte le componenti etniche, sociali e religiose del Paese fondati sulla cittadinanza. Sappiamo che non si può capire il Medio Oriente senza i cristiani ma non è neanche possibile farlo senza il dialogo interreligioso. Ci tengo a sottolineare che su questa strada è stato accompagnato dallo stesso Al Sistani, il quale ha voluto assicurare il proprio impegno affinché i cittadini cristiani vivano come tutti gli iracheni in pace e sicurezza, con tutti i loro diritti costituzionali».
Che ripercussione avrà la visita ad Al Sistani e, in generale, l’intero viaggio del Papa per il dialogo con il mondo sciita?
«Conoscendo Papa Francesco e conoscendo la personalità di Al-Sistani ho potuto ancora una volta constatare quanto sia importante la possibilità di lavorare insieme in uno spirito di fratellanza per creare un mondo migliore. Un mondo che, attraverso la “cultura dell’inclusione”, mostri maggiore uguaglianza perché ci sia più benessere e solidarietà a favore dell’umanità intera. L’incontro tra il Papa e il Grande Ayatollah ha segnato un ulteriore passo nel cammino di fratellanza fra le diverse tradizioni religiose».
Non è stato, però, firmato nessun Documento congiunto come ad Abu Dhabi.
«Non è sempre necessario produrre documenti per sottolineare l’importanza di un evento. Ricordiamoci ciò che disse Papa Francesco nel 2016 quando ricevette in Vaticano il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb: “Il messaggio è l’incontro”. Del resto la Chiesa cattolica in Iraq è profondamente impegnata nel dialogo interreligioso anche grazie all’efficace azione del cardinale Louis Sako ed ha intessuto legami di amicizia e collaborazione con i credenti di altre tradizioni religiose da lungo tempo. Il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso che presiedo è da anni impegnato in un dialogo di rispetto ed amicizia con la comunità sciita sia in Iran che in Iraq».
Sempre dal punto di vista interreligioso, quali risultati sono stati già ottenuti con la visita del Papa?
«In Iraq già esiste una collaborazione interreligiosa ed è attivo nel Paese il Consiglio Iracheno per il Dialogo Interreligioso (Iraqi Council for Interfaith Dialogue). Da parte sua il Pontificio Consiglio ha avviato un dialogo ufficiale con le Sovrintendenze religiose dell’Iraq che comprendono tre dipartimenti autonomi e indipendenti: il waqf sciita, il waqf sunnita e un unico waqf per cristiani, yazidi, sabei-mandei. Si sono già tenuti due incontri a Roma nel 2013 e nel 2017. Le due delegazioni si sono messe d’accordo per creare un Comitato permanente per il dialogo. Va ricordato inoltre l’appuntamento di Ur che è stata l’occasione per pregare insieme ai credenti di altre tradizioni religiose, in particolare musulmani, per ritrovare le ragioni di una convivenza tra fratelli, ricostruire un tessuto sociale oltre fazioni ed etnie, lanciare un messaggio al Medio Oriente e al mondo. In Iraq, e in generale in Medio Oriente, è importante riprendere coscienza del fatto che siamo cittadini e credenti e, in quanto tali, dobbiamo costruire la società arricchendola con le nostre rispettive tradizioni religiose, passando dalla diversità rispettosa alla comunione dei valori condivisi a partire dai quali possiamo ricreare quella convivenza che non è tolleranza ma capacità di vivere nella diversità».
Molti avevano sconsigliato il Papa di andare in Iraq a causa dei rischi di sicurezza e del Covid. Secondo lei, a viaggio finito, ne è valsa la pena?
«È ovvio che ne è valsa la pena! Ho potuto constatare di persona la grande felicità del Santo Padre nell’essere riuscito a portare a termine questa missione. Che fosse rischioso era sotto gli occhi di tutti, ma non è stato un viaggio all’insegna dell’imprudenza. Ha avuto una lunga e attenta organizzazione che non ha lasciato nulla al caso. Un’immagine di pace, un messaggio di speranza, fraternità e rinnovamento si sono sostituiti alle immagini di dolore e di devastazione che a tutti noi venivano in mente solo al sentir nominare l’Iraq. I volti delle persone che hanno incontrato il Papa, pur segnati dal dolore e dalla fatica di vivere in una situazione difficile, erano volti gioiosi e non rassegnati».
Quali frutti si raccoglieranno dopo questa visita?
«Sono certo che la presenza del Pontefice in terra irachena ha non solo incoraggiato la comunità cattolica ma anche mostrato la presenza reale dei cristiani e la possibilità di vivere fianco a fianco con credenti di altre religioni. Tutte quelle persone riunite insieme, attorno al Papa, testimonieranno la fraternità umana e l’importanza del dialogo. Impariamo comunque dal Santo Padre ad avere la pazienza del seminatore. Oggi c’è chi semina, domani qualcun altro mieterà!».

La speranza dell’Iraq nel sorriso di una bambina

Massimiliano Menichetti

“Per noi è stato come svegliarci da un incubo, non credevamo ai nostri occhi, il Paese davvero può rialzarsi”. Si racchiude in queste semplici parole la speranza di un intero popolo, quello iracheno, che ha abbracciato il Papa dal cinque all’otto marzo scorsi. L’immagine di questo viaggio è scolpita in un’istantanea a Mosul, quella che fu la capitale dell’Isis, dove le macerie sono crivellate da migliaia di proiettili, dove guardando chiese, case, moschee distrutte e deturpate, si tocca la violenza dei combattimenti, la furia dell’uomo che distrugge, calpesta, annienta suo fratello.
In quel contesto, dove l’orrore è sembrato prevalere, il Papa è stato salutato dal canto dei bambini che agitavano ramoscelli d’ulivo. Altri, poco distanti da quell’incontro, giocavano su uno spiazzo sterrato; l’asfalto è rimasto solo nelle vie centrali. Una bambina di quattro, cinque anni, vestita con una tutina rosa a fiori ed un paio di ciabattine, si stacca dal gruppetto di compagni e cammina all’indietro. Inconsapevolmente si ferma davanti alle gambe di un militare. Lo guarda percorrendone con gli occhi tutta la figura, dai piedi alla testa.
Il militare con le bombe in vita, il casco, gli occhiali per proteggersi dal sole, piega il collo ed incontra lo sguardo della piccola, con il viso sporco di terra come il resto del corpo. Dietro di loro solo le macerie di quelle che erano case. Gli sguardi s’incrociano nonostante quelle lenti scure, l’uomo accarezza la piccola sulla testa e la solleva. Lei esplode in un sorriso, che un istante dopo lui ricambia. In quell’immagine c’è tutto il presente e futuro dell’Iraq.
Un viaggio memorabile quello di Francesco, primo Papa a mettere piede nella terra di Abramo. Ha incoraggiato e confermato nella fede la comunità cristiana, che insieme ai musulmani e alle minoranze presenti, come gli yazidi, ha vissuto sofferenze indicibili. Un viaggio storico per il ponte tracciato con gli sciiti dopo quello con i sunniti ad Abu Dhabi, per l’accoglienza che ha ricevuto, ma soprattutto per la luce di bene e riscatto che ha portato in un luogo devastato dalla guerra, dalle violenze e dalle persecuzioni perpetrate dall’Isis, e che ora vive le piaghe della povertà e della pandemia da covid-19.
Ciò che colpisce è la militarizzazione: ovunque uomini in assetto da guerra, con spessi giubbotti antiproiettile, cinture con bombe a mano, caschi con visiere di precisione ed armi pesanti; decine di pick-up lungo le strade con le mitragliatrici, carri armati e blindati. Lungo le vie, mentre passa il corteo papale, le persone non autorizzate a stare ai bordi con bandierine e striscioni, erano lontane decine di metri con le mani dietro la schiena. Tante le bandiere vaticane, gialle e bianche, fatte sventolare lungo i muri con il filo spinato a Baghdad, Nassirya, Ur, Mosul, Qaraqosh, Erbil.
L’Iraq ha subito nel 2020 circa millequattrocento azioni terroristiche, il lavoro è difficile da trovare, le difficoltà economiche sono una realtà drammatica, ma il Paese non è solo questo, anche se questa è la narrazione che prevale, spesso l’unica. Un racconto che non lascia spazio a chi aiuta l’altro, a chi s’impegna per una realtà fatta di condivisione e ricostruzione.
Il viaggio del Papa ha acceso una luce diversa sul Paese e per la prima volta dopo decenni si è parlato di Iraq anche in termini positivi, di accoglienza, di prospettive, di futuro. Cristiani e musulmani hanno consegnato a Francesco le proprie sofferenze, ma anche la propria fede, la propria forza, la volontà di voler rimanere, rimettendo in piedi una terra che nel passato è stata culla di antiche civiltà ed esempio di convivenza pacifica. Tutti hanno ascoltato quelle che hanno definito “le parole grandi” pronunciate da un uomo saggio.
I cristiani si sono ritrovati in preghiera con il Successore di Pietro, diventando una luce per il mondo intero. Un popolo concreto, segnato da storie di sofferenza indicibile, che cerca di vincere l’odio e non accetta di diventare un serbatoio di terrore e fondamentalismo. Il Papa ha portato un fermento nuovo, in una realtà abituata a sentirsi raccontare con colori scuri e mortiferi. A Baghdad dove muri e perimetri blindati proteggono i fedeli di chiese e moschee, i palazzi semi abitati si alternano a piazze illuminate a festa e quartieri poverissimi, dove l’architettura mostra la discontinuità degli stili e le crepe dei combattimenti.
Francesco ha ricordato i martiri, condannando ogni forma di fondamentalismo, si è stretto alla comunità cristiana e ad ogni persona che ha sofferto e continua a soffrire. Nonostante la pandemia, intere famiglie si sono radunate dietro i blindati chiamati a formare cordoni e separazioni, anche solo per vedere un istante “l’uomo di pace” venuto da lontano. Ad Ur dei Caldei, dove si è tenuto l’atteso incontro interreligioso, il vento del deserto soffiava tra le reti di protezione poste lungo il tragitto dall’aeroporto di Nassirya. Qui, dove la tradizione indica la casa di Abramo, alle cui spalle sorge una delle Ziggurat più grandi al mondo, si sono viste le stelle del cielo in pieno giorno, il firmamento che il Papa ha indicato come bussola, per camminare sulla terra, per costruire percorsi d’incontro, dialogo e pace.
I presenti hanno parlato di “incontro straordinario, inimmaginabile”, rendendo grazie a Dio in lingue diverse. Indimenticabili la gioia e la commozione della comunità di Qaraqosh, dove la maggioranza degli abitanti è cristiana. Il Papa ha ascoltato le ferite e la testimonianza di fede di chi ha visto uccidere dall’Isis: figli, mogli, fratelli. Ha sentito chiedere perdono per gli assassini. Qui, sui volti di anziani e giovani, vestiti a festa, sono scese le lacrime quando il Papa ha scandito le parole “Non siete soli”.
Il saluto di speranza dell’Iraq al Papa è diventato visibile nel grande stadio di Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove tanti iracheni e siriani hanno trovato rifugio. Oltre 10 mila persone, arrivate da ogni parte del Paese, hanno pregato con Francesco, aspettando in raccoglimento e silenzio, con una nuova speranza nel cuore: che un Iraq diverso è possibile.

Papa in Iraq: mons. Overbeck (Comece), “messaggio della fratellanza importante anche per l’Europa perché impari a superare i conflitti in maniera costruttiva”


 Il viaggio del Papa in Iraq è stato importante anche per l’Europa perché da quella terra martoriata e in cerca di futuro, Papa Francesco ha lanciato un messaggio di fratellanza universale essenziale anche per affrontare, in maniera costruttiva, le crisi che attraversano il nostro Continente. 
Questo, in estrema sintesi, il pensiero espresso da mons. Franz-Josef Overbeck, vescovo di Essen (Germania) e vice presidente della Commissione degli episcopati dell’Unione europea (Comece). Il vescovo è intervenuto ieri sera ad un webinar organizzato da Comece e Konrad-Adenauer-Stiftung (Kas) per parlare delle implicazioni politiche e religiose del viaggio apostolico di Papa Francesco in Iraq. All’incontro hanno preso la parola anche padre Jens Petzold dal monastero della Vergine Maria di Sulaymaniyah, in Iraq, e Stefan von Kempis, della redazione in lingua tedesca di Vatican News. 
“Fratellanza – ha detto mons. Overbeck è stata la parola-chiave di questo viaggio. Fratellanza non significa uguaglianza, assenza delle differenze, assenza dei conflitti. Significa imparare a risolvere le difficoltà in maniera costruttiva. Significa riconoscere che possono esserci differenze di punti di vista ma anche elementi comuni. Questo messaggio è utile anche in Europa soprattutto in questo momento di crisi pandemica ed economica. In questo senso, penso che il viaggio del Papa in Iraq sia stato per noi e per tutti un esempio perché ci insegna ad apprezzare la prospettiva dell’altro e a non sminuirla, a riconoscere le diversità reciproche senza farle divenire conflitto, a costruire una Europa sulla fratellanza universale”. 
Il vescovo fa notare che questa prospettiva ha le sue radici nella visione dell’Europa secondo i padri fondatori dell’Ue ma richiede ancora un “percorso lungo”. È anche il “sogno” espresso lo scorso anno ad ottobre da Papa Francesco nel messaggio inviato all’Ue, in occasione della visita del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin per il 40° anniversario della Commissione degli episcopati dell’Unione europea (Comece): il sogno di un’Europa come “una vera e propria famiglia di popoli, diversi tra loro eppure legati da una storia e da un destino comune”. Il Papa in Iraq ha lanciato anche messaggi molto chiari contro l’estremismo di matrice religiosa, ribandendo ancora una volta che la “barbarie è una perversione della religione”. “Un viaggio – ha detto Stefan von Kempische ha mostrato il coraggio di Papa Francesco che ha fortemente voluto partire, nonostante le sfide del Covid e della sicurezza”. “Una visita – ha aggiunto padre Jens Petzold – che ha illuminato la presenza dei cristiani in questa terra”. 
Nel 2003 erano 1.400.000 (6% della popolazione). Oggi sono meno di 300.000. Eppure, sono una parte essenziale di questo Paese, in quanto svolgono un ruolo di “legante” tra le diverse componenti della società irachena. E sulle prospettive future, padre Petzold ha parlato dell’urgenza di sostenere la formazione (scuole e università) e la lotta contro la disoccupazione giovanile per impedire ai giovani di lasciare il Paese in cerca di un futuro possibile.

Ricostruire l’anima dell’Iraq a pezzi

Francesca Mannocchi
15 marzo 2021

Dal tetto della chiesa di Nostra Signora dell’Ora, Saa’a in arabo, i campanili e i minareti si sorridono. Sono da poco passate le cinque, è l’ora in cui la luce in Medio oriente svela le ombre e tiene insieme le emozioni. Sul tetto della chiesa ci sono insieme preoccupazione e speranza, rovine e ricostruzione. 
Padre Olivier Poquillon cammina nella tonaca bianca a passi svelti, nell’urgenza di spiegare perché le mura siano così simboliche. Urgenza che non si trasforma mai in pura fretta di mostrare. Mancano poche ore alla visita a Mosul di Papa Francesco, padre Olivier cammina lungo le vie della città deserte per l’epidemia e per le misure di sicurezza. Le poche persone che incontra lo fermano, vogliono una fotografia, una parola per i bambini. Salam aleikum padre, gli dice un uomo invitandolo ad abbracciare il figlio. Aleikum salam ragazzo mio, risponde lui, e lo abbraccia. Ha vissuto a Mosul tra il 2003 e il 2004. Ha lasciato il paese per tornarvi quindici anni dopo per la missione più faticosa: riportare a casa chi se n’è andato. Rimettere insieme i pezzi.
Oggi supervisiona la ricostruzione della chiesa, almeno di quello che resta, nel progetto Revive the Spirit of Mosul, una partnership tra l’Unesco, gli Emirati Arabi Uniti e l’ordine domenicano cattolico romano. 
«Soffrire insieme significa condividere una responsabilità, non si tratta solo di rimettere un mattone dopo l’altro, ma di tessere un filo per il tappeto più bello, quello che farà tornare a casa le persone, tutte: cristiani e musulmani». 
La chiesa di Nostra Signora dell’Ora è stata la base della parrocchia cattolica romana nel nord dell’Iraq, a Mosul, sulla riva occidentale del Tigri, fino all’arrivo dell’Isis che ne ha danneggiato la struttura e saccheggiato l’antica biblioteca, che conteneva più di seimila volumi. Una chiesa danneggiata ma non distrutta perché usata come base dai miliziani. Sede di un tribunale, dunque anche di tortura. Quello che l’ha violata l’ha anche salvata.
«Qui c’era il primo orologio della Mesopotamia, regalo dell’imperatrice Eugenia, la moglie di Napoleone III, e anche la prima scuola per giovani donne in Mesopotamia, e il primo impianto di stampa della grammatica curda, della prima bibbia in arabo». Non è solo l’elenco di quello che è stato, è il preludio all’interrogativo su quello che sarà: e ora che facciamo? La domanda risuona sul tetto: davanti ai suoi occhi, di fronte alla chiesa, la moschea al-Nuri. Da lì nel 2014 Abu Bakr al Baghdadi ha chiesto ai musulmani di seguirlo come Califfo, autoproclamando lo stato che si sarebbe esteso al nord della Siria, e in profondità nel Nord e nell’Ovest dell’Iraq, fino alla fine del 2016, data di inizio della sanguinosa guerra di liberazione.
Oggi a Mosul sono rimaste solo cinquanta famiglie cristiane. Prima del 2014 erano cinquecento. Non tornano per paura, perché parte della città è ancora in macerie, perché non hanno fiducia nel governo che non garantisce né infrastrutture né la protezione di cui hanno bisogno.
Quelli che restano sono giovani. Metà della popolazione, qui, ha meno di quarant’anni. «È per tutti loro, non importa che religione professino, che dobbiamo ricostruire Mosul. La visita di Papa Francesco chiede a chi c’è di resistere, a chi se ne è andato di tornare. La ricostruzione è prima sociale che materiale», dice padre Olivier che oggi vive con due milioni di musulmani che condividono con lui la missione di restare. Papa Francesco domenica scorsa ha pregato per le vittime della guerra, tutte – musulmane, cristiane, yazide – uccise dal terrorismo, per gli sfollati.
La piazza in cui ha parlato ospita quattro chiese, la siro-cattolica, la armeno-ortodossa, la siro-ortodossa e la caldea, ognuna lasciata in rovina dall’Isis.
«In questa città vediamo due segni di perenne desiderio umano di vicinanza, la moschea di Al Nouri con il minareto di Al Hadba e la chiesa di Nostra Signora dell’Ora, il cui orologio per 100 anni ha ricordato ai passanti che la vita è breve e il tempo è prezioso», ha detto il Papa davanti alle mura della chiesa di Al-Tahira, l’Immacolata Concezione, anch’essa usata dall’Isis come prigione.
Ali al Baroodi ha resistito a Mosul quando era prigione e resiste oggi che Mosul è liberata. È tornato al suo lavoro, insegna inglese all’Università. Vive in una quotidianità che ha sempre due volti. «C’è un pezzo della città in rovina e un pezzo che prova a brillare come un tempo», dice, camminando lungo le vie delle botteghe e dei mercati. «Qui c’era il quartiere cristiano, i cristiani però non ci sono. Ci hanno portato via la cosa più preziosa cha aveva questa comunità: la sua natura multietnica, l’abbraccio che un campanile sapeva dare a un minareto. Con la fuga delle persone anche questa natura è stata espulsa».
Un cartello sulla via che lambisce la moschea al Nuri, recita: benvenuto Francesco, mentre la vita procede al passo lento della corruzione, della burocrazia, delle mancate compensazioni a tre anni dalla fine della guerra.
Le Nazioni Unite hanno stimato che più di ottomila case di Mosul siano state distrutte dagli attacchi aerei della guerra di liberazione, la città vecchia resta in macerie. Chi ha ricostruito l’ha fatto a proprie spese. Troppa la corruzione, troppe le lotte di potere: il governatore della provincia di Ninive è stato sostituito tre volte dalla fine della guerra.
Il Comitato per la Compensazione ha ricevuto 90 mila richieste di risarcimento, ma non ci sono fondi. A oggi sono state risarcite solo 2500 famiglie.
L’Iraq ha raccolto circa 30 miliardi di dollari dalle donazioni internazionali promesse nel 2018 in Kuwait per progetti di ricostruzione, eppure due anni e mezzo dopo pochissimi fondi sono stati erogati. Quelli effettivamente arrivati sono stati dirottati per aiutare il governo federale a combattere il coronavirus mentre le casse statali si sono ridotte con il crollo dei prezzi del petrolio e il governo di Baghdad faticava a raccogliere i soldi per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.
Ricostruire Mosul, evidentemente, non era in cima alla lista delle priorità.

Come permettere ai cittadini di tornare a casa.
È ai cittadini che parla il pontefice, è per i diritti civili che intercede.
Si è appellato allo Stato di diritto, ha chiesto, nei suoi discorsi e nei suoi incontri, non solo fratellanza ma diritti di cittadinanza.
Per questo l’incontro forse più importante del suo viaggio è stato a Najaf con l’Ayatollah Ali al-Sistani, una delle figure più autorevoli e influenti del mondo sciita.
La tappa più politica che prosegue lo sforzo di Bergoglio nella strategia di dialogo e di allacciamento dei rapporti nel mondo musulmano, una politica che però aveva finora realizzato quasi solo con interlocutori del mondo sunnita e aveva visto compiersi una tappa cruciale ad Abu Dhabi nel 2019, durante la prima visita nella penisola arabica da parte di un pontefice, quando Papa Francesco firmò una dichiarazione di Fraternità Umana con il Grande Imam di Al Azhar, Ahmed Al-Tayeb, considerato una delle massime autorità dell’Islam sunnita e che si era distinto per una presa di distanza forte dai fanatismi.
Quell’accordo equivaleva a un accordo di pace del capo della Chiesa cattolica romana e di un’influente figura sunnita che chiedeva la fine di «odio, violenza, estremismo e fanatismo cieco», in nome della religione.
Incontrando al-Sistani, il Papa marca un passaggio fondamentale anche col mondo sciita. Un passaggio politico di straordinaria importanza.
Nel corso degli anni, le dichiarazioni di al-Sistani hanno fortemente influenzato le vicende irachene. Nel 2019 il suo sostegno alle manifestazioni anticorruzione ha portato alle dimissioni dell’allora primo ministro al Mehdi, nel 2014 fu una sua fatwa a spingere decine di migliaia di giovani uomini a combattere contro l’Isis. Il reclutamento fu essenziale per la sconfitta dei miliziani di al Baghdadi ma ha determinato che le milizie, sostenute dall’Iran, consolidassero il loro potere aggravando il livello di corruzione del paese, minandone la stabilità.
L’incontro è ancor più significativo perché al-Sistani rappresenta la scuola di Najf, in contrasto con quella di Qom, in Iran, e spinge per una separazione netta tra politica e religione puntando alla costruzione di uno stato solido, con istituzioni affidabili. Al-Sistani riceve pochissime persone, la visita di cortesia del Papa avviene dopo il rifiuto del leader sciita di incontrare Embrahim Raisi, uno dei possibili successori di Al Khamenei, la massima autorità politica e religiosa in Iran.
La scelta di incontrare Papa Francesco e sottolineare in un comunicato che i cristiani in Iraq debbano vivere in pace in un quadro giuridico che garantisca loro protezione, rende Sistani l’interlocutore giusto di Papa Francesco nell’affermare la presenza dei cristiani come affermazione di piena cittadinanza, in uno stato laico che garantisca loro il pieno esercizio dei diritti.
Un risultato diplomatico, dunque, così importante per gli equilibri non solo iracheni ma di tutta la regione. Solo a gennaio, in Iraq, ci sono stati due attacchi contro basi militari occidentali.
Uno il 15 febbraio, a Erbil e uno due settimane dopo nella base aerea di Ain al Asad, in Anbar.
Entrambi gli attacchi per mano delle milizie appoggiate dall’Iran. 
È ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, che si è concluso il viaggio di Papa Francesco.
Alle 4 del pomeriggio il pontefice è entrato nello stadio Franso Hariri.
Ad attenderlo per una messa recitata in italiano, curdo, arabo e siriaco, c’erano diecimila persone.
«Prego per questo amato paese, prego perché i membri delle varie comunità religiose, insieme agli uomini di buona volontà, cooperino per la solidarietà al servizio di tutti», ha detto il Papa alla fine della celebrazione.
Salam. Salam. Salam. Scandisce tre volte la parola pace. Come un chiodo, fissato con potenza su un muro che però è un muro da abbattere.
Quello delle divisioni settarie. Lo stadio esulta. «Dio Benedica tutti. Dio benedica l’Iraq».
Eppure in quello stadio i fedeli erano solo cittadini cristiani. Per i musulmani prenotare un posto è stato impossibile.
Il muro delle divisioni settarie è scalfito, ma ancora molto alto.

12 marzo 2021

Il francobollo di Erbil

Adriano Sofri

Siamo al bellicoso affare dei francobolli curdi. La regione autonoma del Kurdistan iracheno ha emesso una serie di sei francobolli per celebrare l’arrivo di Papa Francesco a Erbil.
In uno dei francobolli figura una mappa del “grande Kurdistan”, che comprende cioè i territori di storia, lingua e popolazione curda inclusi nel territorio degli stati confinanti, Turchia, Iran e Siria. Il governo turco ha sentito oltraggiata e minacciata la propria integrità territoriale, e il governo turco al solo nome di curdo esce dai gangheri.
Il ministro degli Esteri turco ha tuonato mercoledì: “Qualche impudente autorità nel Krg (il governo regionale curdo, ndr) ha osato abusare della nota visita per esibire le sue irrealistiche aspirazioni contro l’integrità territoriale dei paesi confinanti con l’Iraq”. E poi, con una scoperta minaccia: “Le autorità del Krg si trovano nella posizione più appropriata per ricordarsi delle amare conseguenze di simili propositi illusori. Aspettiamo una immediata, chiara e urgente correzione del grave errore”.
Occorre ricordare che bombardamenti aerei e incursioni per terra nel territorio del Krg da parte delle forze armate turche sono pressoché quotidiani. I destinatari curdi si stavano ancora grattando il capo quando è sopraggiunta la nota analoga della Repubblica islamica dell’Iran, altro madornale confinante. Il cui ministero degli Esteri ha fatto sapere che i francobolli hanno violato “i princìpi e le regole internazionali”, e ha preteso “la revoca immediata di quest’atto ostile”.
A questo punto il Krg, attraverso il ministro dei Trasporti e delle Comunicazioni (il 37enne Ano Abdoka, che è un cattolico caldeo), e poi il portavoce del governo, Jotyar Adel, hanno spiegato che le raffigurazioni dei francobolli “non erano quelle finali”: artisti curdi hanno presentato i loro disegni al ministero, “che non li ha ancora approvati, attenendosi alle procedure legali”.
La giustificazione è decisamente imbarazzata: la serie era stata offerta il 5 marzo, all’arrivo di Francesco, e universalmente pubblicata – io, filatelico infantile, avevo raccomandato ai miei amici di Erbil di mettermela da parte. Dall’altroieri il valore del francobollo, diventato di colpo rarissimo, deve aver avuto un balzo. Collezionisti a parte, qualcuno avrà vagheggiato una campagna di cartoline illustrate così affrancate da spedire in Turchia e in Iran.
Da parte sua, l’Ufficio filatelico e numismatico del Vaticano aveva coniato una medaglia con la carta in regola dell’Iraq, i due fiumi, una palma, e Abramo a Ur, da regalare agli ospiti durante la visita. Voltaire deplorava le guerre di religione, “guerre per un paragrafo”. Nel 1870 il “telegramma di Ems”, rifinito da Bismarck, scatenò la guerra franco-prussiana. Noi siamo al francobollo di Erbil. Tra tutti i rischi cui il viaggio era esposto, questo del francobollo curdo (una svista? una malizia?) era del tutto imprevisto: il diavolo ci ha messo la coda.

Perché il papa in Iraq sugli ebrei ha dovuto tacere

Sandro Magister

Nella foto scattata nella piana di Ur la mattina del 6 marzo, accanto a papa Francesco si scorgono musulmani ed esponenti di altre religioni, ma non ebrei. E neppure avrebbero potuto esserci, anche perché il giorno prescelto – intenzionalmente? – per quel grande incontro tra “i figli di Abramo” era Shabbat, un sabato.
Le rovine di quella che viene chiamata la Casa di Abramo erano lì a pochi passi, ma nessuno dei partecipanti all’incontro ha dedicato una parola a quel popolo d’Israele che di Abramo fu il primogenito e che nella terra dei due fiumi ha abitato per secoli. Solo il papa, nel discorso e poi nella preghiera, come anche con le autorità politiche a Baghdad, ha fatto un cenno fuggevole a un “noi” che affratellava ebraismo, cristianesimo e islam. Salvo poi correggersi, nel discorso di bilancio del viaggio, il 10 marzo a Roma, e riconoscere che a Ur c’erano solo cristiani e musulmani.
Gli ebrei sono stati il tabù dell’intero viaggio di papa Francesco in Iraq. Una rimozione tanto più impressionante in quanto quel viaggio era stato concepito fin dalle origini, con Giovanni Paolo II, proprio come un ritorno geografico e spirituale alla fonte comune delle tre religioni monoteiste, tutte e tre con padre Abramo.
La censura antiebraica ha fatto ancor più colpo sullo sfondo di quegli “accordi di Abramo” che in questi ultimi tempi hanno visto alcuni paesi arabi sunniti, dagli Emirati al Marocco, far pace con Israele. A questi accordi, l’Iraq e più ancora il confinante Iran sono fortemente ostili, per ragioni geopolitiche ma primariamente religiose – perché entrambi a dominante islamica sciita –, e ciò fa capire come i diplomatici vaticani e lo stesso pontefice si siano piegati al loro volere anche per garantire la sicurezza del viaggio, durante il quale in effetti le milizie sciite d’obbedienza iraniana hanno osservato una tregua.
Il paradosso del viaggio di Francesco in Iraq è che, tacendo sugli ebrei, il papa ha fatto di tutto per preservare i cristiani proprio da quella totale espulsione dalla terra dei due fiumi che per la comunità ebraica si è già compiuta.
Negli ultimi vent’anni i cristiani in Iraq sono drammaticamente diminuiti. Da un milione e mezzo sono calati a 200-300 mila, presi come sono stati tra due fuochi, dalle milizie sciite da un lato e dall’altro dallo Stato islamico sunnita, che per tre anni, dal 2014 al 2017, ha invaso e devastato uno dei loro luoghi storici d’insediamento, la piana di Ninive.
Ma per gli ebrei dell’Iraq non si può parlare di calo, ma di scomparsa. Ne sono rimasti talmente pochi – ha notato Seth J. Frantzman sul “Jerusalem Post” del 7 marzo – che a Baghdad già dal 2008 non ci sono più nemmeno quei dieci maschi adulti che consentono la rituale preghiera comune.
Eppure è una grande storia, quella dell’ebraismo nella terra dei due fiumi. Ha scritto Vittorio Robiati Bendaud, allievo di Giuseppe Laras, rabbino di grande autorevolezza in Italia e in Europa, in un commento su “Formiche” al viaggio del papa in Iraq:
“Quando si parla di Baghdad, del bacino del Tigri e dell’Eufrate, nessun ebreo che abbia coscienza della sua storia, della sua religione e della sua cultura può sentirsi estraneo. L’ebraismo attuale si è plasmato anche in quella terra, e il Talmud ebbe la sua stesura e redazione più estesa e completa nelle antiche accademie rabbiniche di Bavèl, Babilonia. Successivamente fu lì che nacque, in lingua araba, il pensiero ebraico post-talmudico. Fu sempre lì che si fissò il vigente rituale di preghiera. Lì si depositò e organizzò la normativa rabbinica e lì si modulò, a contatto diretto con l’Islam, la mistica ebraica, pur essendo gli ebrei assoggettati a uno statuto di subalternità, non diversamente dai cristiani”.
L’eredità della lingua aramaica, l’antica lingua parlata dagli ebrei in Giudea e Galilea ai tempi di Gesù, era condivisa – e lo è tuttora – anche da molti cristiani iracheni.
Poi però vennero gli anni della tragedia, per gli uni come per altri. Nel 1915 un genocidio coevo a quello degli armeni sterminò circa 800 mila cristiani assiri. E nel 1941 un pogrom fece quasi 200 morti e migliaia di feriti tra gli ebrei. Pochi anni dopo, la nascita dello Stato d’Israele segnò la fine: non ci fu più posto per gli ebrei in Iraq. Curiosamente, per vari decenni la guida sefardita del Rabbinato centrale di Israele è stata detenuta proprio da rabbini emigrati a Gerusalemme da Baghdad.
La visita del papa e in particolare l’incontro interreligioso a Ur, la città d’origine di Abramo, avrebbe potuto ridare visibilità e voce a qualche esponente della minima presenza ebraica in Iraq. Ma così non è stato, per volere delle autorità di Baghdad e dietro di loro di Teheran, a cui Francesco ha dovuto ubbidire.
Anche nella tappa a Mosul e nella piana di Ninive, dove in passato viveva una comunità ebraica fiorente e dove vi sono le rovine di numerose sinagoghe e della tomba del profeta Giona, distrutta dall’ISIS, tutto ciò è passato sotto silenzio.
L'auspicio di molti è che almeno per i cristiani che ancora vivono in Iraq la pari dignità e i pieni diritti invocati dal papa e assicurati dal grande ayatollah sciita Al-Sistani – autorevole e inflessibile antagonista dell’islamismo teocratico iraniano – possa incoraggiarli a restare. A differenza di quanto è accaduto per i loro fratelli ebrei, figli primogeniti di Abramo.
Un segno di speranza può essere la tomba del profeta biblico Naum, ad Al-Qosh presso Mosul, recentemente restaurata e meta di pellegrinaggio non solo per gli ebrei di ieri e forse di domani, ma già oggi per cristiani e musulmani.
Intanto, da Gerusalemme, il rabbino israeliano David Rosen, figura di spicco nel dialogo con la Chiesa cattolica, ha detto ad “Asia News”:
“Questa visita di papa Francesco si ricollega alla Dichiarazione sulla fratellanza firmata ad Abu Dhabi due anni fa: è un gesto che spero porti frutti. Dalla mia prospettiva, però, mi auguro anche che questo percorso si espanda ulteriormente, perché al momento resta ancora un’iniziativa solo tra cristiani e musulmani. Sono contento che ora coinvolga tutto il mondo islamico. Ma sarebbe altrettanto importante che questo riconoscimento di fratellanza includesse anche una rappresentanza ufficiale dell’ebraismo. E questo non solo per il legame profondo che esiste con il cristianesimo, ma anche per quanto significherebbe per l’islam. Fino a quando non ci si arriverà la Dichiarazione sulla fratellanza resterà esposta al rischio di essere male interpretata”.

“Con il Papa, al-Sistani si è fatto garante dei cristiani in Iraq”

Giuseppe Acconcia

Lo scorso lunedì si è conclusa l’importante e attesa visita durata quattro giorni di Papa Francesco in Iraq. Questa visita è stata realizzata in un contesto storico che sembrava impedirla per motivi sanitari e di sicurezza. La pandemia non ha certo risparmiato il claudicante sistema sanitario iracheno mentre a pochi passi dal confine l’Iran, con le sue relazioni strettissime per motivi commerciali e religiosi con l’Iraq, è il paese con il numero più alto di vittime per Covid-19 nella regione. Eppure per un istante, nel momento in cui Francesco ha salutato a Erbil la folla che, seppure con numeri contingentati, era venuta a incontrarlo, la pandemia è sembrata un ricordo del passato.
Di tutte le immagini quella che più resterà nella memoria di questa visita è l’incontro nella città santa sciita di Najaf di Francesco nella dimora dimessa dell’ayatollah, Ali al-Sistani. Al di là del significato religioso di un riconoscimento reciproco, quell’immagine mostra la volontà solida di permettere alla, ormai piccola ma con radici antiche, minoranza cristiana in Iraq, di avere pieno diritto di cittadinanza, dopo essere stata decimata o costretta all’esilio durante i conflitti che hanno attraversato la regione.
Ne abbiamo parlato con uno dei principali esperti di Medio Oriente, il docente iracheno di Storia all’Università di Londra (Birkbeck), Sami Zubaida.

Perché la visita di Papa Francesco in Iraq è stata così significativa?
È stato molto importante dare sostegno e supporto ai cristiani in Iraq. I cristiani iracheni sono ancora minacciati e hanno subito tremende persecuzioni. Negli ultimi anni sono stati continui gli attacchi contro i cristiani e le altre minoranze religiose, in centinaia di migliaia hanno lasciato il paese. Vi invito ad approfondire i dilemmi che hanno affrontato i cristiani iracheni dopo l’invasione del 2003, raccontati magistralmente dallo scrittore, Sinan Antoon, nel libro “Ave Maria”. Per questo, è particolarmente rilevante l’incontro di Francesco con al-Sistani. È stato significativo sentire al-Sistani dire che tutti i cristiani hanno gli stessi diritti degli iracheni, come sicurezza e libertà, sebbene spesso neppure le altre comunità in Iraq godano di quei diritti.
Qual è il rapporto dei cristiani iracheni con le comunità sciite irachene?
Non c’è una comunità sciita unita in Iraq, governo e opposizione sono entrambi interni alle comunità sciite. Ci sono vari gruppi paramilitari che guardano all’Iran, politici sciiti con connessioni con le istituzioni iraniane, e i meccanismi di potere controllati da al-Sistani. Lo stesso Al-Sistani è fortemente critico della situazione, ed è in favore dell’integrazione e per l’uguaglianza dei cristiani iracheni, così come dei giovani che scendono in piazza per chiedere uno stato civile e non uno stato controllato dalla religione. Questo sarebbe in favore anche dei cristiani.
Qual è il rapporto tra al-Sistani e la guida suprema iraniana, Ali Khamenei?
Al-Sistani e le istituzioni che controlla sono implicitamente rivali dell’Iran, mentre molti tra gli sciiti iracheni, incluse le milizie, sono leali all’Iran e a Khamenei. Ma al-Sistani ha un’importante influenza sugli sciiti che lo seguono in Iraq, Iran e nel Golfo. L’incontro del Papa ha rafforzato al-Sistani come leader degli sciiti in competizione con la guida suprema iraniana, Ali Khamenei. Per esempio, al-Sistani si è sempre opposto alla velayat e-faqih (il governo dell’esperto concepito da Khomeini, ndr).
L’Iraq è anche dilaniato da una grave crisi economica che ha portato proteste diffuse soprattutto tra i giovani, stanno continuando?
Ci sono grande scontento e frustrazione diffuse. Sono centinaia di migliaia i giovani iracheni laureati disoccupati, senza servizi, sicurezza. Il governo di Mustafa al-Kadhimi, anche se in verità non c’è un governo coerente in Iraq, non si occupa di questo. Credo che le proteste continueranno. C’è grande malcontento in Iraq per istituzioni frammentate e corrotte, che non funzionano. E per politici che sono impegnati a fare soldi solo nell’interesse delle loro cricche. Nel 2019, migliaia di giovani iracheni sono scesi in piazza non solo per protestare contro le interferenze statunitensi nel paese ma anche per stigmatizzare proprio il ruolo iraniano nei casi di corruzione e di mala gestione economica e finanziaria del paese.
La seconda tappa di questo viaggio, riconosciuto dallo stesso presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, come “storico”, “una speranza per il mondo”, è stata la visita alle macerie di Mosul. L’immagine di Francesco in preghiera nei luoghi dove la ferocia di Isis è stata più cruenta tra il 2014 e il 2017 ha cambiato le carte in tavola?
Ancora una volta si tratta di una questione di umanizzazione, in questo caso, delle conseguenze del terrorismo. Isis è stato anche un fenomeno mediatico con gli sgozzamenti, le decapitazioni, le chiese date alle fiamme, i giornalisti usati dai jihadisti per fare propaganda. Eppure con la liberazione di Raqqa tutto è improvvisamente scomparso dalle pagine dei giornali, come se fosse tutto risolto, se non ci fossero le mine, i morti, i feriti, le vittime di stupro, le macerie, la continua guerra turca contro i curdi, l’abbandono da parte della comunità internazionale, la violazione dei diritti delle donne yazide e non solo. Quell’immagine tra le macerie di Mosul ci ha ricordato che Isis non è stato solo un fenomeno mediatico ma ha distrutto intere città e la vita di migliaia di persone che di certo vorrebbero ricostruire i loro quartieri ma ancora non hanno la completa possibilità per farlo.
L’incontro tra Papa Francesco con Massoud e Masrour Barzani, che volevano guidare il Kurdistan iracheno verso l’indipendenza dopo il referendum del 2017 a Erbil, ha legittimato, agli occhi della comunità internazionale, le loro richieste, già messe in pratica in ambito commerciale, di autonomia rispetto alle autorità di Baghdad?
Penso che il regime di Barzani sia corrotto tanto quanto il governo iracheno. Allo stesso tempo, è in grave difficoltà economica in questa fase, perché le autorità curde irachene puntano quasi esclusivamente sul petrolio. È solo dello scorso 15 febbraio, la notizia dell’ultimo attacco turco contro il partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) che ha causato la morte di 13 turchi, inclusi militari e poliziotti, presi in ostaggio dai curdi, e di 44 combattenti del Pkk. La notizia ha sollevato grandi polemiche ad Ankara, mentre le autorità turche continuano ad accusare dell’uccisione dei 13 turchi le forze curde. Pochi giorni prima, l’aviazione turca aveva bombardato le città di Priz, Bergare e Siyane nella zona di difesa di Medya a Gare. Le azioni turche nel Kurdistan iracheno sono partite lo scorso anno in seguito all’accordo di Sinjar che, con il lascia passare del governo autonomo del Kurdistan iracheno, ha permesso all’esercito turco di attaccare i sostenitori del leader curdo, Abdullah Ӧcalan, in prigione in isolamento in Turchia, presenti nelle montagne irachene.
Quindi la visita di Francesco ci ricorda che la guerra non è finita, il dolore e la distruzione non sono svaniti. Proseguono in altre forme, in molti casi con violenze contro i combattenti curdi e i cittadini curdi siriani che avevano dato un sostegno essenziale per sconfiggere lo Stato islamico nella regione a maggioranza curda di Rojava nel Nord della Siria, dopo l’occupazione di Afrin per mano turca con l’Operazione ramoscello d’Ulivo (2018, ndr). Invece di continuare a vedere distruzione e macerie, tutti noi vorremmo, al contrario, che non fosse messo a rischio quel progetto ecologico, di uguaglianza tra uomini e donne, confederale e accademico con l’apertura dell’Università di Kobane.
 L’ultimo incontro di Francesco prima del rientro in Italia è stato con Abdullah, il padre del piccolo, Alan Kurdi, il cui corpo è stato ritrovato sulle coste di Bodrum nel sud della Turchia nel settembre del 2015. Quell’immagine di un bambino naufrago, di un rifugiato che avrebbe avuto tutto il diritto di essere accolto con la sua famiglia perché scappava da anni di conflitti, ha fatto immediatamente il giro del mondo. Ci sono milioni di migranti siriani e curdi che sono stati costretti a lasciare i loro paesi? Le élite politiche irachene e turche come gestiscono la crisi migratoria?
Torna ancora una volta il tema dell’umanizzazione delle migrazioni, del ricordo del dolore della famiglia di un bambino che a distanza di anni si sarebbe perso nell’infinita contabilità dei morti e dispersi nel Mediterraneo degli ultimi anni, ha assunto un significato centrale. In realtà, i politici iracheni sono preoccupati principalmente delle migrazioni all’interno del paese, a Erbil e nelle regioni curde, ci sono migliaia e migliaia di sfollati interni, soprattutto cristiani, yadizi e di altre minoranze, attaccate da Isis. I migranti sono rimasti bloccati in un limbo che li ha costretti in questi anni a fare di tutto per sfuggire al disumano conflitto siriano e cercare di raggiungere per esempio le isole greche con lo scopo di arrivare in Europa. Eppure il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha fatto ancora una volta leva sulla retorica dell’invasione per ottenere sostegno economico da Germania e Unione europea. I migranti, trattati come cittadini di serie B, con la loro presenza hanno alimentato il nazionalismo di cui si nutre Erdoğan per accrescere a dismisura il suo consenso populista e controllare l’intero sistema politico turco. E poi ci sono molti fattori per cui i curdi turchi continuano a subire arresti di massa e repressione. Erdoğan sta perdendo sostegno elettorale, ci sono molte divisioni nel suo partito, mentre i suoi ex alleati che stanno formando nuovi partiti. Vuole mantenere una forte coalizione con gli ultra-nazionalisti. E il prezzo per fare questo è essere molto duro con i curdi.

Dialogo interreligioso in Iraq, il leader yazida: “Papa Francesco è molto coraggioso”

Domenico Agasso

 In Iraq papa Francesco ha ricordato più volte le ferite inferte dal fondamentalismo, e tra coloro che «hanno sofferto» di più cita spesso «gli yazidi, vittime innocenti di insensata e disumana barbarie, perseguitati e uccisi a motivo della loro appartenenza religiosa».
All’incontro interreligioso del 6 marzo sulla Piana di Ur dei Caldei Bergoglio ha invitato anche Cheikh Farouk Kalil, capo spirituale yazida sulla piana di Ninive, membro dello Yazidi Spiritual Council.
Quanto è stata importante quella conferenza?
«Ha una rilevanza mondiale. Trasmette un messaggio di pace dalla portata storica, innanzitutto per la popolazione irachena, e poi a tutti i fratelli delle altre religioni».
Come definirebbe l’atteggiamento di Bergoglio con le altre fedi?
«Il Papa è molto coraggioso. E lo ha dimostrato ancora una volta con quel meeting così intenso e profondo in un luogo altamente simbolico: la terra di Abramo».
E adesso che cosa bisogna fare?
«Camminare tutti insieme per portare in tutto il pianeta questo spirito di pace che soffiava quel giorno».
Un esempio concreto da cui partire?
«Mostrare qui in Iraq che la pace è possibile. Vivere la relazione con gli altri esseri umani con la consapevolezza che siamo tutti sulla stessa barca. E i leader religiosi devono diventare uomini di riconciliazione, essere d’esempio, testimoniare che l’amore per il proprio dio può solo unire».
Quali benefici potrà portare alla comunità yazida questo incontro tra fedi?
«Noi minoranze in Iraq speriamo che possa aprire opportunità politiche per dare un svolta positiva alla convivenza civile».

Francescano di Terra Santa: il Papa in Iraq ha ‘incontrato il nuovo santuario di Dio’

By Asia News

 Nelle macerie, nei capitelli divelti, nelle teste mozzate delle statue della Madonna, nei luoghi della storia cancellati dalla devastazione di Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico, SI] “ha incontrato il nuovo santuario di Dio”. E ha toccato con mano una “popolazione che, nella fede, è rimasta aggrappata alla propria terra”. È quanto sottolinea in una lettera inviata ad AsiaNews p. Ibrahim Faltas, discreto della Custodia francescana e direttore delle scuole cristiane di Terra Santa, commentando la visita di papa Francesco in Iraq dei giorni scorsi. 
La “grandezza” del pontefice, prosegue il religioso, è anche “nel pensiero che lui rivolge continuamente al Medio oriente, facendosi pellegrino nella nostra Terra Santa”.
Commentando la prima, storica visita di un papa “nell’antica terra di Abramo, padre comune riconosciuto da ebrei, cristiani e musulmani” sottolinea il suo essere “pellegrino di pace” fra genti di fede diversa. Francesco è anche “il primo papa che fa visita a un Paese a maggioranza sciita”, in una terra dove i cristiani “hanno subito inaudite violenze” sotto l’Isis. Ed è “un viaggio che incarna [...] le parole e il documento firmato nell’incontro ad Abu Dhabi con il grande imam sunnita di al-Azhar” quale “primo passo vero la ‘fratellanza universale’ come delineato nell’enciclica”.
Per il sacerdote francescano il valore più profondo di questo viaggio apostolico è il messaggio che reca con sé: “Il Medio oriente - scrive - senza i cristiani non esisterebbe” e “continuerà ad esistere solo con la presenza dei cristiani”. “In molti - prosegue p. Ibrahim - pensavano che il viaggio fosse rinviato per i molti problemi che presentava: insicurezza e instabilità del Paese, la pandemia mondiale in atto, la salute stessa del papa”.
Tuttavia, il pontefice ha mostrato “molto coraggio e con determinazione è andato controcorrente, perché ha sentito forte il dovere di visitare la popolazione irakena, cristiani e musulmani che vivono sulla stessa terra, per portare una parola di speranza, di fratellanza, una carezza di Dio”. Grazie alla sua testimonianza, i cittadini possono ora aiutarsi a “ricostruire insieme dalle macerie” per dare vita a una “terra di pace”
In quest’ottica va letto anche l’ incontro con il grande ayatollah Ali al-Sistani, il “grande saggio” dell’islam sciita nella città sacra di Najaf. “Papa Francesco - sottolinea - sta seguendo un cammino intrapreso 800 anni fa da san Francesco, abbracciando le due anime dell'islam: il mondo sunnita con l’incontro di Al-Azhar e il mondo sciita con al-Sistani”. Per poi trovare una sintesi concreta nella preghiera interreligiosa nella piana di Ur dei Caldei, la “patria” di Abramo, incontrandosi e pregando “per essere strumenti di riconciliazione e di pace”.
In chiusura il religioso francescano apprezza l’invio di un messaggio “di pace e di preghiera e un saluto fraterno” al presidente della Palestina Mahmoud Abbas e al suo popolo, durante il volo che da Roma lo ha portato a Baghdad. “La notizia - rivela - ha fatto il giro in Palestina come un lampo, perché ricevere un messaggio di pace, un pensiero rivolto ai palestinesi, mentre si appresta a fare un viaggio così difficile e complesso, ha lasciato tutti stupefatti! Grande papa Francesco!”. “Il viaggio apostolico in Iraq di papa Francesco- conclude p. Ibrahim - oltre a essere un messaggio al mondo per la situazione irakena, è un appello alla comunità internazionale per far cessare le guerre, le occupazioni e le divisioni in tutto il Medio oriente”.

“Atlantide”, la storica visita del Papa in Iraq

Andrea Fagioli 

A volte, anzi spesso, si abusa di sostantivi e di aggettivi. Si definisce evento qualsiasi iniziativa di un certo rilievo e si aggettiva come storico un fatto appena fuori dall'ordinario. Così facendo succede che di contro non si colga la reale portata degli eventi storici veri. Può allora succedere che un pellegrinaggio evento storico come quello del Papa in Iraq non abbia goduto di adeguato spazio nei telegiornali, mentre lo ha trovato, ad esempio, nella puntata di Atlantide mercoledì scorso in prima serata su La7, con Andrea Purgatori a insistere sulla portata storica del viaggio apostolico e soprattutto dell'incontro con l'ayatollah sciita al-Sistani, impensabile fino a qualche mese fa.
A confermare sostantivi e aggettivi, usati a proposito dal conduttore di Atlantide, la presenza in collegamento di padre Antonio Spadaro, direttore de "La civiltà cattolica", ospite anche in altre occasioni del programma di La7.
Spadaro, con la lucidità che lo contraddistingue, ha spiegato prima di tutto che «il Papa ragiona pregando» e poi che la vera grande novità dell'incontro con al-Sistani, al di là del dialogo tra cristiani e musulmani sciiti, è il fatto che Francesco sia diventato «l'enzima di un processo di riconciliazione tra sunniti e sciiti».
Di fatto un paradosso: il Papa cattolico che fa da ponte tra due visioni e forme diverse della stessa religione fondata da Maometto e dà in qualche modo cittadinanza a un pluralismo dell'Islam. A parte questo, la lunga puntata di Atlantide ha proposto un vero e proprio «Viaggio nella polveriera mediorientale», con reportage di Francesca Mannocchi non solo dall'Iraq, ma anche dal Libano per anticipare in qualche modo il prossimo auspicato pellegrinaggio di Papa Francesco. Interessante anche la scelta di Purgatori di fare ascoltare direttamente alcune delle frasi pronunciate dal Papa in Iraq (tra cui l'invocazione a far tacere le armi per dare voce agli artigiani della pace) e poi di proporre immagini della visita contrapposte a scene di guerra con il solo commento musicale.

Papa in Iraq: card. Sako (patriarca), “ora mettere in pratica le parole del Pontefice”

11 marzo 2021

 “Con le sue parole il Papa ha saputo aprire i cuori degli iracheni e dimostrare con i suoi messaggi di fratellanza e riavvicinamento che le religioni sono un messaggio di pace”.
Ma adesso “è il momento di mettere in pratica quanto ha detto il Pontefice traducendo le sue parole in uguaglianza, diritti e cittadinanza. Non devono esserci cittadini di prima e seconda classe”.
Il patriarca caldeo di Baghdad, card. Louis Raphael Sako, torna sulla recentissima visita di Papa Francesco in Iraq e in un comunicato diffuso poco fa dal Patriarcato invoca “un cambiamento di mentalità e di pensiero che può essere raggiunto attraverso campagne e iniziative progettate per consolidare la fratellanza, la diversità, il rispetto, la tolleranza e la convivenza, nonché per incoraggiare investimenti e progetti che faranno avanzare l’economia e offriranno opportunità di lavoro”.
Il cardinale richiama le parole che sono state il filo conduttore della visita di Papa Francesco, “fratellanza, amore, tolleranza, riavvicinamento, perdono, riconciliazione, pace e stabilità”. Sono queste le chiavi per “mettere a tacere le armi e la cultura dell’odio, della violenza, dell’ingiustizia e della corruzione”. Nell’opera di rinnovamento della mentalità Mar Sako ribadisce l’impegno degli iracheni di fede cristiana per i quali la visita è stata di grande sostegno, soprattutto quando Papa Francesco ha detto: ‘la Chiesa in Iraq è viva e forte’”. Parole che fanno il paio con quelle del presidente iracheno Salih che nel suo discorso di benvenuto al Papa tenuto al Palazzo presidenziale davanti a più di 220 personalità irachene davanti agli occhi del mondo, ha ricordato che i cristiani sono abitanti di questa terra e il suo sale.

11 marzo 2021

Il Papa ha fatto tornare il mondo in Iraq 18 anni dopo la guerra

By Inside Over
Mauro Indelicato

 

In Italia era da poco passata l’ora di pranzo.
Giovanna Botteri, da un balcone dell’Hotel Palestine, chiede la linea mentre era ancora in corso il Tg3 perché nota alcuni movimenti all’interno del centro di Baghdad. Erano i primi carri armati statunitensi che entravano nella capitale irachena. Da lì a breve viene abbattuta la statua che raffigurava Saddam Hussein e da quel momento cessa l’era del Raìs. Forse è questa l’ultima vera immagine proiettata dall’Iraq nel resto del mondo.
È il 9 aprile 2003 e da allora sono passati 18 anni. Il dopoguerra per il Paese arabo è un continuo stillicidio di altre guerre e altre cruente battaglie.
Forse anche per questo motivo, fino alla visita di Papa Francesco dei giorni scorsi il mondo ha considerato l’Iraq come una macchia anonima della carta geografica. Nessuno infatti, tra leader e capi di governo, si è trattenuto dal 2003 in poi per più di qualche ora all’interno del territorio iracheno. E nessuno ha potuto osservare in diretta immagini provenienti dal cuore del Paese mediorientale.

Il significato della visita del Papa

Va riconosciuto a papa Francesco il merito di aver voluto insistere nell’organizzare il viaggio apostolico in Iraq. Nessuno forse, senza essere animato dalla convinzione dell’importanza di una simile trasferta, si sarebbe avventurato in un periodo del genere fin laggiù. Recarsi in Iraq ha voluto dire esporsi a precarie condizioni di sicurezza e al rischio coronavirus. Il Pontefice era però ben consapevole del significato che avrebbero assunto le immagini delle cerimonie e degli incontri fatti lì dove fino a pochi anni fa regnava il terrore dell’Isis. Ma, cosa forse ancora più importante, la presenza del Papa ha riportato il mondo in Iraq. La messa celebrata domenica ad Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, è stata trasmessa da più di cinquanta televisioni internazionali, in Italia anche alcune reti nazionali hanno modificato i propri palinsesti per seguire l’atto conclusivo della visita apostolica. L’opinione pubblica ha quindi potuto osservare da vicino cosa sta accadendo all’interno del Paese, si è potuta rendere conto che l’Iraq non è più soltanto quell’indicazione geografica capace di richiamare i ricordi delle guerre delle scorse decadi (Guarda il
reportage di Fausto Biloslavo).
Così come l’Iraq non è più solamente nelle immagini di una Baghdad senza le statue di Saddam e con i carri armati statunitensi circolanti all’interno delle sue strade principali. Adesso è anche nella visione di una Mosul ridotta in cumuli di macerie dall’Isis, con le principali chiese cristiane profanate e distrutte dalla furia jihadista. Ed è anche nella speranza di una Qaraqosh, la cui cattedrale è stata ricostruita dopo che i terroristi nel 2014 l’avevano trasformata in carcere e poligono di tiro. Sono questi tutti luoghi in cui il Papa si è recato, portando con sé telecamere e riflettori. L’Iraq non è quindi più un enigma, perché per tre giorni non è stato più solo un Paese lontano rievocante guerre lontane. Si è potuto osservarlo nella sua quotidianità, nelle sue sofferenze e nelle sue speranze. In poche parole, dopo quasi 20 anni l’Iraq si è potuto vedere nella sua realtà.

Come cambierà l’Iraq?
Oltre all’aspetto mediatico, occorrerà capire cosa resterà sul fronte politico e sociale della visita di Papa Francesco. Caduto Saddam, il primo vero problema del Paese è stato rappresentato dalle divisioni settoriali e dall’avanzata delle ideologie fondamentaliste. Sciiti contro sunniti, terroristi contro cristiani, musulmani contro minoranze etniche e religiose, governo centrale contro autorità autonome curde. In Iraq ciascuna comunità si è chiusa in sé stessa, tra rivalse, estremismi, egoismi e violenze. In pochi hanno lavorato per ricucire atavici strappi e ridare un senso ai richiami alla comune identità nazionale. Il Papa nella sua visita ha incontrato le comunità cristiane falcidiate e perseguitate dall’Isis, ma ha anche incontrato i principali leader politici e religiosi di tutte le varie componenti della società irachena. Un segnale preciso del messaggio che ha voluto lasciare prima di rientrare a Roma, puntato soprattutto sulla necessità futura di un ritorno al dialogo e alla riconciliazione.
Saprà l’Iraq cogliere questo messaggio? É possibile vedere nella visita di Bergoglio un nuovo punto di ripartenza del Paese? Soltanto il tempo potrà dare indicazioni in tal senso. Spetterà ai tanti giovani che popolano questo martoriato territorio smarcarsi da quanto fatto dalle precedenti generazioni. Ripartendo da quel senso di sdegno e stanchezza per quanto vissuto fino ad oggi.

10 marzo 2021

PAPA IN IRAQ. Articoli 10 marzo 2021

By Baghdadhope*

AGENSIR





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