"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

8 luglio 2020

Iraq, don Karam: le comunità cristiane chiedono sicurezza e stabilità

By Vatican News
Marco Guerra


In Iraq, senza un intervento tempestivo della comunità internazionale, l’emigrazione forzata dei cristiani potrebbe ridurne la presenza dell’80%. E’ quanto emerge nel rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) dal titolo “La vita dopo l’Isis, le nuove sfide per i cristiani in Iraq”, che esamina le minacce che incombono sui cristiani tornati nelle loro case della Piana di Ninive.

Il difficile ritorno ai villaggi cristiani
Dopo l’allontanamento forzato avvenuto nel 2014, per fuggire dalle persecuzioni del sedicente Stato Islamico, i cristiani hanno fatto ritorno nei villaggi del nord dell’Iraq, dove la loro presenza è attestata fin dai primi secoli del Cristianesimo. Gli aiuti di Acs, di tutte le Chiese del mondo e di altri donatori internazionali hanno consentito la ricostruzione di numerose infrastrutture – chiese, case, scuole, strade – ma le comunità cristiane presenti nell’area avvertono ancora la mancanza di sicurezza. Una condizione aggravata dalle piaghe della disoccupazione (70%), della corruzione finanziaria e amministrativa (51%) e della discriminazione religiosa.
Insicurezza primo problema

Il problema dell’insicurezza e delle violenze anticristiane, emerge anche dalla testimonianza rilasciata a Vatican News dal sacerdote iracheno
don Karam Shamasha, originario della piana di Ninive:Una prima grande minaccia è quella delle milizie, che purtroppo non pensano a mantenere la sicurezza dell’area. Ci sono infatti sempre intimidazioni e richieste di denaro. Le milizie non forniscono quella protezione che invece le truppe governative possono dare. Poi abbiamo ancora la minaccia dell’Isis. I miliziani del Califfato ogni tanto appaiono in qualche zona, uccidendo sia soldati, sia civili.

C'è anche la questione economica e della discriminazione religiosa che rende più debole la comunità cristiana…
Molti non ricevono il loro stipendio o lo ricevono in ritardo, perché il costo del petrolio è sceso e il 90% degli incassi dell’Iraq dipende dal petrolio, ma questo è un problema presente per tutti gli iracheni. Invece la discriminazione si avverte a tutti i livelli: tanti, ad esempio, che sono nelle università vengono discriminati. Per un cristiano non è facile avere ruoli apicali, perché al cristiano non danno l’autorità di comandare sugli altri. E poi ancora posso raccontare che nella mia diocesi nel Nord dell’Iraq non puoi spostarti da una parrocchia all’altra, perché metà diocesi sta sotto il controllo della milizie sciite, che operano con il permesso del governo centrale, mentre l’altra metà della diocesi ricade sotto il controllo della milizie curde, che fanno riferimento al governo del Kurdistan iracheno, sono i cosiddetti peshmerga. Non possiamo spostarci liberamente, perché non c’è accordo tra queste due realtà.
Quindi lei sta raccontando la situazione nella Piana di Ninive?
Esattamente, io vengo da Tellesqof, nella diocesi di Alqosh. La Chiesa e tanti benefattori, come anche si diceva in questo rapporto di Acs, stanno ricostruendo i villaggi, ma con il coronavirus quasi tutto è sì fermato. Le famiglie hanno molta difficoltà a ristabilirsi in questi luoghi per tutti i motivi che abbiamo elencato.
Che cosa le raccontano i parenti e gli amici che sono rimasti nella Piana di Ninive? Ci sono altri problemi importanti che impediscono il ritorno alla normalità?

Il nostro patriarca e tutti i vescovi della Chiesa hanno sempre detto che per noi l’unità dell’Iraq è la cosa più importante, perciò hanno sempre esortato i giovani ad arruolarsi nella polizia e nell’esercito. Perciò non abbiamo milizie che ci difendono, l’unico nostro difensore è Gesù Cristo, che ci ha sempre protetto e aiutato. Però da parte del governo non abbiamo visto interventi pratici. Tutti parlano, vengono a farsi le foto, ma poi siamo quasi sempre da soli. Noi non vogliamo essere difesi in quanto cristiani, noi vogliamo vivere come tutti gli altri iracheni, non devono esserci cittadini di prima e seconda classe. Questa situazione impedisce ai cristiani di vivere in quelle terre che sono la nostra patria, perché tutti sanno che siamo lì fin dal primo secolo dopo Cristo.