By La Stampa - Vatican Insider
by Giacomo Galeazzi
by Giacomo Galeazzi
Il Papa in campo per la Siria. Attraverso le nunziature in Medio
Oriente arriva a Roma il grido d’allarme dei cristiani e la Santa Sede
avverte: un attacco straniero rischia di far scoppiare una guerra
mondiale. «La soluzione dei problemi non può essere l’intervento armato -
afferma a Radio Vaticana il vescovo Mario Toso, numero due del
dicastero Giustizia e Pace -. La situazione di violenza non ne sarebbe
diminuita, c’è, anzi, il rischio che deflagri e si estenda ad altri
Paesi».
Dunque «il conflitto in Siria contiene tutti gli ingredienti per esplodere in una guerra di dimensioni mondiali e nessuno uscirebbe indenne da un’esperienza di violenza». Mentre il Papa ripete su Twitter il suo grido per la pace («Mai più la guerra!») il Vaticano lancia l’allarme per una deflagrazione dello scontro a livello globale. Intanto l’appello papale contro un’escalation in Siria ottiene una pioggia di adesioni, sia tra i cristiani, sia dalle altre religioni (incluso il gran muftì siriano) e anche dal mondo politico. La giornata di preghiera e digiuno di sabato a San Pietro si preannuncia un evento di massiccia mobilitazione popolare e di pressione sui potenti della Terra.
No all’attacco armato contro Damasco, decisione su cui gli Usa e gli altri governi occidentali si interrogano. Anche il ministro degli Esteri Emma Bonino parteciperà al digiuno ma non alla preghiera. Ieri Francesco ha twittato «vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace» e «quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi». Insomma «i leader mondiali devono fare tutto per evitare la guerra», esorta Bergoglio ricevendo il «World Jewish Congress». Assistenza umanitaria, secondo il Papa, va garantita a chi è colpito dal conflitto, aiuti agli sfollati e ai profughi, possibilità di agire agli operatori impegnati «per alleviare le sofferenze della popolazione».
Cosa si può fare per la pace? Bergoglio torna a Roncalli e alla sua «Pacem in terris» del 1963: «A tutti spetta il compito di ricomporre i rapporti di convivenza nella giustizia e nell’amore».
Da qui, il richiamo all’intera umanità ad unirsi in «una catena di impegno per la pace». Una visione grandiosa, quella di Francesco, per sottolineare che «la pace è un bene che supera ogni barriera, perché è un bene di tutta l’umanità». E «non è la cultura dello scontro e del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma la cultura dell’incontro e del dialogo: questa è l’unica strada per la pace». Quindi, «tutti depongano le armi».
Contro un attacco militare delle forze armate occidentali in Siria e «per la pace e per il rifiuto di ogni violenza» pregano anche i monaci e le monache del monastero di Deir Mar Musa (San Mosè l’etiope), a Nord di Damasco, rifondato da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita sequestrato un mese fa nell’area di Raqqa e di cui si sono perse le tracce. Nella diplomazia pontificia assicurano: «Francesco ci ha chiesto di tentare ogni strada per fermare il bagno di sangue».
Per la Chiesa caldea «un intervento in Siria sarebbe una sciagura, come far scoppiare un vulcano con un’esplosione destinata a travolgere l’Iraq, il Libano, la Palestina». Perciò «non si ripeta la drammatica storia dell’Iraq, dieci anni fa invaso dagli Usa per abbattere Saddam: il Paese è ancora martoriato dalle bombe, dai problemi di sicurezza, dall’instabilità».
Dunque «il conflitto in Siria contiene tutti gli ingredienti per esplodere in una guerra di dimensioni mondiali e nessuno uscirebbe indenne da un’esperienza di violenza». Mentre il Papa ripete su Twitter il suo grido per la pace («Mai più la guerra!») il Vaticano lancia l’allarme per una deflagrazione dello scontro a livello globale. Intanto l’appello papale contro un’escalation in Siria ottiene una pioggia di adesioni, sia tra i cristiani, sia dalle altre religioni (incluso il gran muftì siriano) e anche dal mondo politico. La giornata di preghiera e digiuno di sabato a San Pietro si preannuncia un evento di massiccia mobilitazione popolare e di pressione sui potenti della Terra.
No all’attacco armato contro Damasco, decisione su cui gli Usa e gli altri governi occidentali si interrogano. Anche il ministro degli Esteri Emma Bonino parteciperà al digiuno ma non alla preghiera. Ieri Francesco ha twittato «vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace» e «quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi». Insomma «i leader mondiali devono fare tutto per evitare la guerra», esorta Bergoglio ricevendo il «World Jewish Congress». Assistenza umanitaria, secondo il Papa, va garantita a chi è colpito dal conflitto, aiuti agli sfollati e ai profughi, possibilità di agire agli operatori impegnati «per alleviare le sofferenze della popolazione».
Cosa si può fare per la pace? Bergoglio torna a Roncalli e alla sua «Pacem in terris» del 1963: «A tutti spetta il compito di ricomporre i rapporti di convivenza nella giustizia e nell’amore».
Da qui, il richiamo all’intera umanità ad unirsi in «una catena di impegno per la pace». Una visione grandiosa, quella di Francesco, per sottolineare che «la pace è un bene che supera ogni barriera, perché è un bene di tutta l’umanità». E «non è la cultura dello scontro e del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma la cultura dell’incontro e del dialogo: questa è l’unica strada per la pace». Quindi, «tutti depongano le armi».
Contro un attacco militare delle forze armate occidentali in Siria e «per la pace e per il rifiuto di ogni violenza» pregano anche i monaci e le monache del monastero di Deir Mar Musa (San Mosè l’etiope), a Nord di Damasco, rifondato da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita sequestrato un mese fa nell’area di Raqqa e di cui si sono perse le tracce. Nella diplomazia pontificia assicurano: «Francesco ci ha chiesto di tentare ogni strada per fermare il bagno di sangue».
Per la Chiesa caldea «un intervento in Siria sarebbe una sciagura, come far scoppiare un vulcano con un’esplosione destinata a travolgere l’Iraq, il Libano, la Palestina». Perciò «non si ripeta la drammatica storia dell’Iraq, dieci anni fa invaso dagli Usa per abbattere Saddam: il Paese è ancora martoriato dalle bombe, dai problemi di sicurezza, dall’instabilità».