Fonte: Radiovaticana
12/08/2009
In Iraq bisogna dare maggiore spazio alla speranza. “Se fosse persa, non c’è dubbio che la presenza cristiana in breve si estinguerebbe”. E’ quanto afferma l’arcivescovo Fernando Filoni, sostituto della Segreteria di Stato e nunzio apostolico in Iraq dal 2001 al 2006, in un’intervista rilasciata all’Osservatore Romano in occasione della traduzione in francese del libro “La Chiesa nella terra di Abramo”, pubblicato in italiano nel 2006.
"Il nunzio non è uno spettatore ma è coinvolto dalla realtà ed il Paese in cui si trova un po’ gli appartiene." Sono parole di mons. Fernando Filoni che, ricordando gli anni trascorsi in Iraq, afferma di essersi sentito un iracheno tra gli iracheni. Anche in una terra deturpata dalla guerra e dalle violenze non mancano solidarietà e stima. L’arcivescovo ricorda in particolare un episodio: nel 2006, quando un’autobomba è esplosa accanto alla nunziatura, un musulmano è arrivato con 30 operai per riparare i danni. Il suo contributo – racconta – è stato un tangibile segno di affetto. La decisione di rimanere a Baghdad durante la guerra - spiega poi il presule - è stata una scelta sacerdotale: “Se il pastore fugge nei momenti di difficoltà – afferma mons. Fernando Filoni – si disperde anche il gregge”. Rimanere in Iraq è stato anche un modo “per incoraggiare la Chiesa irachena”. Mons. Filoni si sofferma quindi su vicende storiche millenarie per focalizzare poi la propria attenzione sulla complessità della realtà contemporanea. La popolazione irachena - osserva l’arcivescovo - continua ad essere purtroppo sconvolta da esplosioni e gravi disagi: agli attentati si aggiunge spesso “la penuria d’acqua o della corrente elettrica”. C’è la “difficoltà di trovare lavoro”, “l’inadeguatezza della scuola” e soprattutto “manca la sicurezza”. Ma il futuro – aggiunge - è nelle mani degli iracheni e quando il sistema educativo potrà funzionare a pieno ritmo, “l’Iraq potrà fare molto anche con le proprie forze”. Mons. Fernando Filoni afferma infine che i cristiani, comunità originaria dell’Iraq, hanno “il diritto a vivere e di vivere rispettati nella loro dignità”. Se la comunità cristiana migrasse, il danno culturale e religioso sarebbe “incalcolabile”. "Per questo – conclude l’arcivescovo – "abbiamo il dovere di aiutare i cristiani iracheni” e di “offrire loro una speranza”.