Fonte: Avvenire
di Claudio Monici
Anche Amir è partito. Il suo posto è vuoto, nell’antica sala del caffè in al-Mutanabbi street, la via dei librai ambulanti. Il cuore di una Baghdad dove lo sguardo, ovunque si soffermi, riesce ancora a gettare un tuffo all’indietro nel tempo. Si accomodava laggiù, Amir. Sulla panca di legno, accanto ai narghilè che profumano di tabacco aromatizzato al miele. Sorseggiava il tradizionale bicchiere di tè iracheno, forte di zucchero, e, intanto, dalla tasca della vecchia giacca, estraeva un taccuino da riempire di parole. Gli amici che lo andavano a trovare, li intratteneva parlando di letteratura americana e di cinema italiano. Pietro Germi, Rossellini, Fellini. Ma lui non si era mai mosso da qui. Poi c’era la partita di backgammon, accompagnata dai racconti sui cristiani in Iraq: «Una delle più antiche comunità d’Oriente». Sembrava diventare triste, quando ricordava della «mancata visita di papa Giovanni Paolo II, nel 2000 a Ur». Sulle tracce del cammino di Abramo. Come molti iracheni, anche lui non ce l’ha fatta. La promessa, quella di non ascoltare la tentazione dell’“hajra”, dell’esodo, «non andare mai via dal mio Iraq che nella storia ha goduto fama di città della pace e della prosperità», forse si è definitivamente spezzata anche quando il caffè più antico di Baghdad, lo Shahbandar cafè, una delle meraviglie che ancora sopravvivono agli anni del disastro iracheno, un giorno è stato sventrato dalla vigliaccheria di un attentatore suicida esploso con la sua auto bomba e una trentina di vittime innocenti. Quel luogo, era un rifugio, non solo per Amir. Un posto dove tenere lontano i pensieri e gli incubi della violenza. Le paure restavano fuori dallo Shahbandar e da Mutanabbi street. Ritrovo attorno al quale si raccoglievano, e dopo la ricostruzione dall’attentato ancora lo fanno, studenti universitari, intellettuali, religiosi, scrittori e poeti iracheni. Proprio li e solo li, così come era negli anni del duro embargo internazionale, che colpiva anche la cultura irachena, la gente di Baghdad, può trovare un testo universitario, una rivista, un romanzo con qualche pagina perduta, una Bibbia o il Corano. Libri usati. Ancora adesso, l’Iraq che studia o che cerca un saggio, non ha alternative alla via dei librai ambulanti di Mutanabbi. Cristiano caldeo, Amir Nasef Toma, che appena arrivate le truppe americane, sognava un giorno di organizzare un laboratorio per giovani artigiani iracheni da dedicare allo scrittore americano Sydney Sheldon, oggi, di lui, nessuno ci sa dire nulla più di: «Se ne è andato in Canada, per riunirsi alla moglie e ai figli». Un’altra ferita: la delusione. Amir Toma, non si stancava di ripetere che «quello di cui gli iracheni del dopo Saddam hanno bisogno è di essere rieducati: non i bambini, che cresceranno. Ma gli adulti che sono stati privati del tempo». Aveva fiducia, ma come sempre accade, di fronte alla paura che giorno dopo giorno si insinua nelle pieghe più resistenti della vita, alla fine ha ceduto.Non è facile essere cristiani a Baghdad, come nel resto dell’Iraq, a Kirkuk, Erbil, e la dolente Mosul, l’antica Ninive. Un presenza piccola, ma una fede antica, fatta risalire direttamente all’apostolo Tommaso, ritenuto il fondatore del cristianesimo in Iraq. E il suo nome in iracheno è appunto Toma. Quella di Amir è la storia di tanti iracheni cristiani, che un giorno della loro vita, come un incubo che hanno creduto di potere tenere lontano, drammaticamente, hanno invece preso coscienza che era troppo vicino quel soffio di morte che ha già mietuto tanti lutti. Cristiani rapiti o uccisi mentre sorseggiano il tè seduti al Shahbandar, oppure spazzati via mentre salgono la scalinata di una chiesa, per raccogliersi nel silenzio della meditazione; della preghiera, nella ricerca della pace. Falciati a tradimento dalle schegge di una autobomba che mano assassina ha “sapientemente” parcheggiato sul piazzale. La strategia del terrore. Accanto al cratere che ha squarciato l’asfalto, è rimasta una pozza nera d’acqua mista ad olio. I due cadaveri dei ragazzi li hanno trovati li vicino, attorno a una corona di una trentina di feriti che si lamentavano nell’inferno di dolore, sangue e fuoco: «Purtroppo c’è gente che non crede nella pace. Che non ha Dio nel cuore. Ma solo odio, forse il potere, di sicuro la guerra», dice un uomo mentre passa e se ne va dal luogo dove a metà luglio, davanti alla chiesa caldea della Madonna del sacro cuore, in Palestine street, è stato fatto esplodere l’ennesimo ordigno contro una chiesa cristiana. Monsignor Slamon Warduni, vescovo caldeo di Baghdad, è nel suo ufficio. Quel giorno è scampato alla morte: «Non chiedete a noi perché l’uomo è così furioso contro l’uomo. Domandatelo al mondo là fuori. Che forse ha perso la propria coscienza umana, prima della fede».Da lui i cristiani ci vanno per dirgli: «Padre, noi partiamo». Un viaggio disperato per l’Europa, il Canada, l’Australia, ma che spesso si arresta in Siria o Giordania. Senza più soldi o la garanzia di un visto straniero. Fermi, arenati nel mare della diaspora irachena. Parcheggiati su una linea di confine. C’è solo una cosa che il vescovo può fare, cercare di diassuaderli: «La too hajron», non andate via. «Se invito i miei fedeli a non emigrare, a non prosciugare questa terra della loro presenza millenaria, della loro ricchezza umana, del loro sale; se cerco di rassicurarli che le cose cambieranno – spiega monsignor Warduni, allargando le braccia –, mi rispondono: “Padre, garantisci tu per la mia vita? Il lavoro ai miei figli? Il mio futuro?” E quando insisto, e ripeto che la situazione un giorno migliorerà, rispondono così: "Padre, mi vuoi fare uccidere dalle bombe?". Dopo gli ultimi attacchi mortali contro i cristiani, chi solo vagamente pensava di lasciare l’Iraq, oggi ha deciso di farlo definitivamente. Resto ancora sorpreso dell’afflusso dei fedeli nelle chiese, ma molte altre famiglie mi hanno già comunicato: “Padre, è troppo pericoloso per noi e i nostri bambini: a messa non ci veniamo più”. C’è una malattia peggiore del terrorismo?».«Siamo una minoranza, anche se in Iraq per numero di cristiani abbiamo più chiese che a Roma», osserva uno dei guardiani che vigilano il perimetro della parrocchia. Una presenza disarmata che poco o nulla può fare, di fronte alla minaccia terroristica. Qualche metro più in là, oltre la solita jeep della polizia ci sono uno o al massimo due poliziotti armati di mitra. Davanti a un’auto bomba o a una improvvisa minaccia di colpi di mortaio che cadono dal cielo, non rimane che il fuggi-fuggi.
«Noi cristiani iracheni siamo prevalentemente una classe sociale formata da dottori, ingegneri, professori, commercianti. In questi ultimi sei anni c’è stato un notevole mutamento della nostra società, con una forte radicalizzazione islamica della maggioranza sciita che in passato ha subito la repressione – racconta un docente universitario che chiede di restare anonimo –. Se al tempo del sunnita Saddam Hussein, il suo vice primo ministro era il caldeo Tarek Aziz, così come c’erano anche ministri sciiti o curdi, allora eravamo solo e comunque tutti iracheni. Oggi non è più così, ci siamo dimenticati dei matrimoni misti e ci troviamo di fronte al fenomeno del settarismo, dell’emigrazione e delle bombe contro le chiese e le moschee. Dobbiamo anche ricordare che in Iraq c’è più d’una generazione che ha vissuto tre guerre contro l’Iran, tra il 1980 e il 1988; poi quella del Golfo del 1991 e l’ultima del 2003. Senza dimenticare che nel mezzo ci sono stati 13 anni di pesante embargo internazionale. Adesso le conseguenze le paghiamo tutti».«C’è una cosa di cui mi meraviglio ogni giorno: i nostri cristiani restano pacifici – osserva monsignor Warduni –. Non c’è fanatismo, né rancore. Continuano a vivere aiutando quelli che hanno bisogno. Ma ci sono anche tanti musulmani che entrano nel mio cortile per chiedere aiuto, meditando davanti alla grotta dedicata alla Madonna di Lourdes: musulmani che mi confidano di essere stati esauditi nelle loro suppliche». Sei anni fa il problema di cosa fare di Saddam Hussein, si risolveva con le sue statue che venivano abbattute; sei anni dopo sono in molti a chiedersi che cosa fare della vita degli iracheni sciiti, sunniti, curdi e cristiani.