By Luigia Storti
Monsignor Jacques Isaac, Vescovo Ausiliare per gli Affari Culturali del Patriarcato di Babilonia dei Caldei e Rettore del Babel College, l’unica facoltà cristiana di studi teologici in Iraq, e dell’annesso Istituto di Scienze Religiose, è a Torino per qualche giorno ed ha accettato di rispondere a qualche domanda.
Secondo quanto riportato qualche giorno fa da un organo di informazione curdo il Patriarca dei Caldei, Mar Emmanuel III Delly, ha incontrato il Presidente della Repubblica Irachena, Jalal Talabani, ed ha sollevato alcune questioni che riguardano l’insegnamento della religione cristiana nelle scuole del paese, come la necessità che essa sia garantita nelle scuole pubbliche in cui la percentuale degli studenti cristiani sia del 25% del totale, e la richiesta che anche agli studenti cristiani sia consentito di sostenere gli esami in materia di religione come già fanno i loro colleghi musulmani. Può chiarire meglio i due punti in questione?
Il Presidente Talabani ha promesso al Patriarca Mar Emmanuel III Delly di intervenire presso il Ministero dell’Istruzione affinché anche gli alunni cristiani possano sostenere a fine anno gli esami di religione – cristiana, ovviamente – che permetterebbero loro di ottenere votazioni finali maggiori.
Il sistema educativo iracheno è basato sulla valutazione centesimale data dalla somma dei voti finali in ogni materia studiata. In molte scuole l’unico insegnamento religioso impartito è quello islamico e di conseguenza – in mancanza di una materia e di una sua valutazione – per gli studenti cristiani è molto difficile avere votazioni finali uguali a quelli dei loro compagni musulmani che invece sostengono un esame in più.
Per quanto riguarda invece la percentuale degli studenti cristiani nelle scuole l’argomento è più delicato. Per prima cosa bisogna parlare di due situazioni diverse: quella del centro e del sud del paese e quella del nord governato dal Governo Regionale Curdo. Per quanto riguarda il centro ed il sud la questione della percentuale ci tocca come minoranza. In nessuna parte del paese – tranne, appunto che in Kurdistan – gli studenti cristiani superano di numero quelli musulmani. Se anche così fosse, però, all’eventuale minoranza di studenti musulmani verrebbe garantito l’insegnamento della loro religione, garanzia non estesa all’ipotetica minoranza cristiana. Per questa ragione si è arrivati ad un compromesso sui numeri ipotizzando una percentuale del 25% di studenti cristiani cui impartire per legge l’istruzione religiosa, proprio la richiesta fatta dal Patriarca al Presidente.
Clicca su "leggi tutto" per l'intervista Monsignor Jacques Isaac
Il 25% è la stessa percentuale garantita – almeno sulla carta – dal regime di Saddam Hussein prima della sua caduta, quando si diceva che la mancata ammissione di studenti cristiani da parte dei direttori scolastici che portava la percentuale sempre sotto il 25% stabilito da un decreto del 1972 fosse dovuta alla necessità di non gravare sul bilancio scolastico con uno stipendio in più. Era quella l’unica ragione, o era l’unica all’epoca “dichiarabile?”
Non si può escludere che a volte l’esclusione sia stata dettata più da motivi “politici” che economici, e questo malgrado il fatto che durante il regime di Saddam Hussein fosse stato nominato dal governo un responsabile dell’insegnamento della religione cristiana legato al Ministero dell’Istruzione ed incaricato proprio di sorvegliare che il decreto del 1972 fosse rispettato. A fianco di questo responsabile lavorava un comitato formato da rappresentanti di tutte le chiese cristiane in qualità di consiglieri. Certo però non era possibile controllare l’operato dei singoli direttori scolastici che dichiaravano di non avere avuto tante richieste di iscrizione da parte di studenti cristiani.
In ogni caso la percentuale stabilita, se alta o bassa, non è il solo problema. Di questi tempi è difficile ad esempio trovare professori in grado di insegnare la religione cristiana. In passato i vescovi avevano stabilito che ad insegnare potessero essere solo quei laici in possesso del certificato rilasciato dopo la frequenza dei corsi triennali dell’Istituto delle Scienze Religiose del Babel College. I fenomeni della fuga e dell’emigrazione forzata dei cristiani, uniti al trasferimento dello stesso Istituto nel nord per ragioni di sicurezza, però, hanno fatto scomparire dal paese molte di queste figure professionalmente preparate, ed in alcuni casi si propongono dei laici che però abbiano almeno seguito dei corsi intensivi di 2 o 3 mesi nelle chiese.
Ci sono poi i problemi del caos che regna a Baghdad e che non ha risparmiato il Ministero dell’Istruzione, e quello dell’appartenenza politica dei responsabili di tali decisioni che a volte può ostacolare o rallentare la messa in pratica di leggi favorevoli alla minoranza cristiana.
C’è quindi una soluzione che possa garantire agli studenti cristiani le opportunità di istruzione in materia religiosa per ora date solo a quelli musulmani?
Soluzione no, speranza sì. Ciò che ci vorrebbe sarebbe, sempre che la percentuale del 25% sia confermata così come la possibilità di sostenere gli esami finali, un responsabile coraggioso, che non abbia paura di denunciare gli eventuali casi di violazione delle leggi stabilite. Per adesso però rimane un sogno, l’Iraq è ancora, purtroppo, un paese dove l’opposizione alla legge del più forte viene pagata con la morte.
Tra i problemi che ha citato c’è quello della preparazione dei laici destinati all’insegnamento dei principi del cristianesimo. E’ per questa ragione che ha espresso l’intenzione di riaprire i corsi dell’Istituto di Scienze Religiose a Baghdad dopo la loro chiusura forzata per ragioni di sicurezza?
Si, il programma e la guida degli studenti sono già pronti. Certo ci saranno delle difficoltà. La vecchia sede dell’Istituto, che era anche quella del Babel College, a Dora, è inavvicinabile perché ormai diventata sede operativa delle truppe americane, ma ce la faremo. Ed a questo proposito si sono già svolte delle riunioni che hanno coinvolto sacerdoti – ex alunni del Babel College – non solo caldei. I principi che ci guidano, infatti, sono quelli dell’ecumenismo, dell’unione tra le chiese martiri dell’Iraq, della testimonianza della Parola di Cristo.
Ricordo di aver visitato nel 2001 una piccola chiesa a Baghdad e di avervi trovato molti bambini, ma anche ragazzi più grandi, impegnati nelle lezioni di catechismo. La presenza dei giovani nelle chiese, pur con le difficoltà che state vivendo, è ancora alta?
Si, anche se purtroppo sono molti quelli che ormai hanno lasciato le proprie case – e le proprie chiese - per ragioni di sicurezza. Se pensiamo alla zona di Dora, ad esempio, si calcola che più di 2000 famiglie cristiane abbiano lasciato volontariamente o siano state costrette a lasciare la zona, ma dove possono i giovani frequentano le chiese che sono anche diventate luoghi di ritrovo in quartieri dove altrimenti il tempo trascorre in casa per paura.
Per quanto riguarda il catechismo c’è da precisare che ci sono alcune differenze tra il nostro rito, quello Caldeo, e quello Latino. Il sacramento della Cresima, ad esempio, viene impartito insieme a quello del Battesimo. I bambini quindi iniziano a frequentare i corsi di catechismo a circa 8/9 anni per poi fare la Prima Comunione una volta finita la scuola elementare. Ma il catechismo non si ferma con la Comunione, particolari corsi sono dedicati ai ragazzi ed alle ragazze fino ai 18 anni ed anche per gli universitari si organizzano degli incontri. Naturalmente dopo la Prima comunione cessa l’obbligo di frequenza ma i ragazzi amano andare in chiesa per studiare ed anche trovare gli amici, e molto dipende anche dal rapporto che si instaura con il sacerdote.
Sembrerebbe una vita normale…
Purtroppo non lo è più. La guerra ha distrutto tante cose e tante persone. Nessuno di noi, specialmente a Baghdad, è sicuro di tornare a casa la sera, e neanche il rimanervi a volte salva dai pericoli, ma tutti cerchiamo di farci forza, i ragazzi hanno bisogno di punti fermi e la chiesa può essere uno di essi.
Parlando dell’istruzione cristiana ha detto che la situazione è diversa nel nord del paese..
Nel nord, sia quello sotto il controllo del Governo Regionale Curdo, sia quello controllato da Baghdad, ci sono cittadine e villaggi interamente cristiani. Ad esempio nel Kurdistan il G.R.C. ha approvato due ore di insegnamento a settimana di religione cristiana e due di lingua siriaca, e questo a prescindere dall’appartenenza percentuale degli studenti ad una fede od ad un’altra.
Nel nord però ci sono cittadine dove ad essere in maggioranza sono i caldei e quelle dove invece sono siro-cattolici, siro-ortodossi o appartenenti alla Chiesa Assira dell’Est. Come sono i rapporti tra le diverse confessioni cristiane?
In linea di massima direi buoni ma anche in questo caso bisogna parlare di alcune differenze.
Prendiamo la questione dei libri di testo religiosi. Il governo centrale ha approvato la loro stampa che però è per ora bloccata da alcune obiezioni sollevate dagli ortodossi che ne richiedono la revisione considerandoli troppo orientati verso il cattolicesimo. Nel nord, invece, forse perché malgrado tutto la situazione è più rilassata, queste tensioni sono minori.
Quali sono le obiezioni sollevate dagli Ortodossi?
Riguardano le diversità che esistono. Così ad esempio, essi non accettano che nel libro ci sia la storia di Yohanna Sulaka, l’abate del monastero di Rabban Hormizd che nel 1553 diede inizio alla Chiesa Cattolica Caldea staccata dalla Chiesa dell’Est e fedele a Roma, e che esso sia definito “martire dell’unione” (con Roma n.d.r.) o le storie dei santi cattolici. Anche le questioni dogmatiche rappresentano un problema perché se i cattolici riconoscono a Maria il titolo di Theotokos (Madre di Dio) la Chiesa Assira dell’Est le riconosce solo quello di Christotokos (Madre di Cristo), se nel Credo di Nicea caro ai cattolici si recita che “lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio” per gli Ortodossi esso procede solo dal Padre. Persino lo stesso Purgatorio, negato dall’Ortodossia, è fonte di discussione.
E’ difficile che queste contese dogmatiche si possano risolvere, ciò vuol dire che questo testo così importante non verrà mai utilizzato, o Lei ha una soluzione da proporre?
La soluzione deve prevedere prima di tutto la buona volontà di ambo le parti. In secondo luogo si potrebbe raggiungere un compromesso pratico: un testo che nella sua parte principale preveda un sentire comune, ed un’appendice che spieghi le differenze fondamentali. Certo, come ho detto, si tratterebbe di un compromesso, ma è pur sempre meglio che rinunciare all’educazione cristiana dei nostri giovani.
In ogni caso anche se ci sono delle differenze tra noi stiamo facendo di tutto per risolverle. A Baghdad, ad esempio, ci sono due consigli che trattano delle questioni dei cristiani. Il Consiglio dei capi delle comunità cristiane il cui Segretario è Monsignor Avak Asadorian, il Vescovo della Chiesa Armena Apostolica, ed il Consiglio dei Vescovi Cattolici, il cui Segretario è Monsignor Jean Sleiman, Vescovo Latino di Baghdad, e di cui fanno parte il Patriarca della Chiesa Cattolica Caldea, Mar Emmanuel III Delly con i suoi ausiliari, (Monsignor Jacques Isaac, Monsignor Shleimun Warduni e Monisgnor Adraous Abouna, n.d.r) Monsignor Matti Shaba Matoka, Vescovo della Chiesa Siro Cattolica, Padre Vincent Van Vossel in rappresentanza della Chiesa Melchita e l’Arciprete Emmanuel Dabbaghian della Chiesa Armeno Cattolica, nominato a gennaio del 2007 nuovo vescovo di Baghdad ma ancora non arrivato in sede.
A proposito di “comunità cristiane,” su alcuni siti cristiani iracheni è nato proprio in questi giorni un dibattito circa il termine usato in Iraq per definire i cristiani da parte del Primo Ministro Nouri Al Maliki, vuole spiegarci ciò che sta succedendo?
I vescovi cristiani hanno presentato al Primo Ministro Nouri Al Maliki una serie di richieste riguardanti le loro comunità. Come risposta la Segreteria ha inviato una lettera ad ogni ministero in cui è stato usato il termine “Ğāliyah” che, se volessimo tradurlo in italiano, equivale a “colonia di emigrati” e questo riferito agli iracheni cristiani. L’uso di un tale termine ha ovviamente causato delle proteste perché i cristiani in Iraq sono i primi abitanti del paese e non certo dei profughi arrivati da chissà dove. La Segreteria del Primo Ministro ha quindi riconosciuto l’errore, chiesto scusa attribuendolo ad una svista, e corretto il termine sostituendolo con quello di “Tā’ifah” anche questo, a mio parere, non corretto visto che significa comunità ma anche setta o minoranza religiosa. Quando è nato il Consiglio dei Capi delle Comunità Cristiane io sono stato incaricato di redigerne lo statuto e la mia proposta era stata infatti: Consiglio dei capi delle Chiese Cristiane.
Ma non è stata accettata…
Per questo prima ho parlato di buona volontà da ambo le parti, della necessità di venirsi incontro, quella volta alle richieste degli ortodossi che invece hanno caldamente sostenuto l’uso del termine “comunità” perché era il termine già usato ai tempi del passato regime quando le diverse chiese erano state elencate con il termine “Tā’ifah” in uno degli organi di stampa ufficiali del governo.
Lo spirito ecumenico ha sempre caratterizzato il Babel College. Nonostante queste divergenze di vedute in seno di consigli tra le più alte autorità religiose all’interno della facoltà questo spirito è riuscito a sopravvivere?
Si. Il primo ottobre scorso sono iniziati i corsi del Babel College ad Ankawa che già durante lo scorso anno accademico sono stati svolti regolarmente ed addirittura aumentati nelle ore. I docenti sono in tutto 35 di cui 14 in possesso di dottorato. Tra essi – e questo è lo spirito interreligioso – come gli altri anni ben 6 sono di religione islamica ed insegnano del Dipartimento di Filosofia. Per quanto riguarda gli altri – ed ecco l’ecumenismo – si tratta di caldei, siro cattolici, domenicani ed un siro-ortodosso, così come di suore caldee, domenicane e del Sacro Cuore. Tra i docenti, inoltre, ben tre sono stranieri, due sono Padri Redentoristi belgi, Padre Lucien Cop e Padre Vincent Van Vossel, ed uno è un gesuita statunitense, Padre Dennis Como, che impartisce le sue lezioni in inglese dando così la possibilità agli studenti di mettere in pratica la lingua e che è anche Padre Spirituale del Seminario Maggiore Caldeo anch’esso trasferito da Baghdad ad Ankawa. Per quanto riguarda gli studenti – 63 per l’anno accademico in corso – essi sono caldei, siro-cattolici, ma anche appartenenti alla Chiesa Assira dell’Est, a quella Assira Antica dell’Est ed a quella Armeno Ortodossa. Il miglior modo per praticare l’ecumenismo, così come il dialogo tra appartenenti a religioni diverse, è proprio nel confronto quotidiano, nelle amicizie che in un ambiente culturale si sviluppano e crescono.
63 studenti e 35 docenti rappresentano un numero di successo considerando le difficoltà ed il trasferimento forzato dell’istituzione da Baghdad ad Ankawa. Ci può parlare della nuova sede?
Quando, all’inizio del 2007, siamo stati costretti a lasciare la sede di Baghdad dopo 16 anni di attività è stato difficile. Non potevamo però fare altrimenti visto che la zona dove si trovava, Dora, era diventata troppo pericolosa. Ad Ankawa il Governo Regionale Curdo, attraverso il suo Ministro delle Finanze, Sarkis Aghajan, ci ha messo a disposizione un edificio in cui abbiamo iniziato i corsi ed a cui ora ne è stato affiancato un altro dove si trovano la biblioteca, un’aula magna e altre quattro aule per l’insegnamento.
Il Babel College è aperto a tutte le chiese , non appartiene alla sola Chiesa Caldea anche se è gestito da essa. Quando siamo stati costretti a trasferirci pensavo che un tale cambiamento sarebbe stato difficile e, sebbene dal punto di vista pratico lo sia stato, come è ovvio, ho poi pensato che in realtà sia stato un intervento provvidenziale. Nel nord, i cristiani che già vi abitavano e quelli che dal centro e dal sud del paese vi sono arrivati, specialmente nell’ultimo anno, ora hanno un’istituzione dove approfondire la propria cultura cristiana. Non dobbiamo dimenticare che del Babel College fa parte l’Istituto di Scienze Religiose che prepara i laici a diventare futuri catechisti ed il cui bisogno è testimoniato dagli iscritti - già più di 90 al primo anno - e dal fatto che, ad esempio lo scorso anno, alcuni studenti hanno frequentato i corsi bisettimanali affrontando il viaggio di 250 Km da e per Kirkuk. Una cosa che non sarebbe stata possibile se l’Istituto fosse rimasto a Baghdad.
Il bisogno che gli iracheni cristiani hanno, e dimostrano, di essere vicini alla Chiesa studiandone la storia ed i principi ci ha addirittura spinto a pensare ad altre sedi per l’Istituto nel nord, magari a Karamles ed ad Al Qosh, due villaggi cristiani che si trovano nei pressi di Mosul, nella zona controllata dal governo di Baghdad.
Sono progetti, sogni, lo so, ma come fare a non sognare quando si vede la sete di fede che i nostri fedeli, e soprattutto i giovani hanno? E questo senza abbandonare il sogno di poter tornare a Baghdad.
Succederà?
Se il governo centrale potrà riprendere il controllo della zona succederà. Ma questo non vuol dire che la sede di Ankawa chiuderà. Anche il Seminario Maggiore potrà forse rinascere nella sua sede originaria di Dora. Il Seminario è la speranza del Patriarcato, la certezza che la chiesa continuerà a vivere in Iraq attraverso i suoi pastori.
Monsignore, il Babel College è nato nel 1991, cosa ha rappresentato per il clero iracheno?
Prima del Babel College gli studi ecclesiastici avvenivano nei seminari. Io, per esempio ho frequentato il seminario domenicano di Mosul. Proseguire ed approfondire gli studi voleva dire all’epoca andare all’estero, come è successo anche a me che ho studiato presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma. La nascita del Babel College ha rappresentato la possibilità di uno studio mirato più approfondito per i nostri religiosi nel proprio paese. Un punto di svolta poi è da far risalire al 1997 quando il College è stato affiliato all’Università Urbaniana di Roma. Prima di quella data, infatti, l’accettazione di uno studente iracheno del collegio che volesse conseguire un dottorato dipendeva dalle singole università all’estero, ma dal 1997 il certificato rilasciato dal Babel College apre le porte delle varie università perché riconosciuto come valido.
L’Arcidiocesi di Torino ha un progetto di sostegno per il Babel College Che rapporti ci sono tra la Diocesi ed il Patriarcato di Babilonia dei Caldei?
Il rapporto è ottimo. Proprio durante questa mia ultima visita ho incontrato il Vescovo Ausiliare, Monsignor Guido Fiandino e Don Fredo Olivero, Direttore dell’Ufficio Pastorale Migranti. A gestire il progetto di sostegno nell’ambito di quelli legati alla Quaresima di Fraternità è però l’Ufficio Missionario Diocesano diretto da Don Bartolo Perlo. Devo dire che l’accoglienza che i sacerdoti e la stessa città mi riservano è sempre calorosa. Ho sempre trovato nei miei fratelli torinesi la volontà di capire i nostri problemi e di aiutarci a risolverli. Così negli anni il rapporto, iniziato nel 2002, si è rafforzato. Dal 2004 è attivo un progetto di sostegno annuale a 10 giovani sacerdoti caldei di Baghdad curato dall’Ufficio Pastorale Migranti che si è occupato anche di un progetto di scambio di disegni tra bambini di Torino e di Baghdad e di una raccolta fondi destinata all’acquisto di regali di Natale per i bambini di alcune nostre parrocchie della capitale. Da breve tempo, inoltre, un sacerdote caldeo di Baghdad, Padre Douglas Dawood è collaboratore della Chiesa di San Vincenzo Ferreri a Moncalieri, una tappa questa che cementa un rapporto già fraterno.
Tutti questi progetti di sostegno sono importanti ma ciò che voglio sottolineare è l’importanza che essi hanno dal punto di vista morale. Essi testimoniano agli iracheni cristiani il loro non essere soli, l’avere nei fratelli torinesi delle persone sconosciute ma amorevoli nelle attenzioni che dimostrano.
Monsignore, gli iracheni cristiani hanno sempre avuto un ruolo culturale importante nel paese ma ora le cose sembrano essere cambiate, complice la “fuga di cervelli” dal paese e l’affermarsi, almeno in alcune zone, di una mentalità che riconosce i meriti altrui solo se “l’altro” appartiene al proprio gruppo religioso ed etnico. Ci sono speranze che queste tendenze possano cambiare?
Certo i problemi ci sono, ma i cristiani sono ancora percepiti come “portatori di cultura.” Tutti sanno che prima della nazionalizzazione delle scuole da parte del passato regime nel 1972 le scuole cristiane erano considerate le migliori del paese tanto che le famiglie musulmane più in vista vi mandavano i propri figli a studiare, ed alcuni dei protagonisti dell’attuale scena politica irachena, seppure di fede islamica, hanno studiato in esse. La nazionalizzazione ha decretato la fine delle scuole confessionali ma esse non sono sparite del tutto. Prendiamo il caso di una scuola primaria e secondaria nel centro di Baghdad. Prima del 1972 si chiamava Mar Yohanna ed era gestita dalla suore caldee, dopo il 1972 è diventata una scuola pubblica ma la direttrice ha continuato ad essere una suora così come alcune delle insegnanti, e tuttora sono molte le famiglie musulmane che fanno a gare per iscrivervi i propri figli, specialmente le ragazze, perché riconoscono che l’istruzione impartita è di alto livello. Gli iracheni, “tutti” gli iracheni, hanno sempre dato e, nonostante i problemi danno, una grande importanza all’istruzione dei figli, quelle nuove generazioni che rappresentano il futuro del paese.
Per quanto riguarda la fuga dei cervelli essa è innegabile. I professionisti, e quindi i docenti ma anche i medici, gli ingegneri, gli avvocati, ecc. sono fuggiti dal paese perché minacciati, e molti sono stati uccisi. E’ vero anche però, ed in questo caso parlo di cristiani, che molti si sono spostati nel nord in attesa di poter tornare a Baghdad. Un medico cristiano che conosco, ad esempio, pur avendo ottenuto il visto per l’estero dopo averci vissuto per un certo periodo è tornato nel nord Iraq sognando di poter riaprire la sua clinica a Baghdad che ora è chiusa.
Se poi parliamo dell’accettazione dell’“altro” bisogna dire che se è vero che i problemi ci sono mi sembra di avere notato ultimamente un seppur piccolo cambiamento di atteggiamento. Di fronte alle violenze che ogni giorno insanguinano il paese e che colpiscono anche i musulmani alcuni di loro cominciano a percepire l’elemento cristiano come un elemento di equilibrio, una religione di pace. Cominciano a capire che è l’amore che ci guida e che la pace deve essere per noi, e per loro, il risultato del nostro cammino.