Luciano Zanardini
Nei loro occhi il terrore, nelle loro parole la drammaticità di chi ha vissuto e sta vivendo una tragedia. I profughi iracheni, scappati dall’inferno della guerra e della persecuzione, non hanno ancora trovato la pace. Si sentono ostaggio di una nazione. Le ferite del loro calvario, che dura da anni, sono curate dalla presenza di tre religiose che si fanno semplicemente compagne di strada di un popolo in fuga. Nel 2016 suor Diba Kupeli delle Missionarie Francescane del Verbo Incarnato, insieme a due Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, ha iniziato un lavoro intercongregazionale a Uchisar, con «l’obiettivo di garantire una presenza e sostenere i profughi cristiani. Siamo venute in Cappadocia per farci vicine ai nostri fratelli costretti all’esilio e, contemporaneamente, costruire un nuovo percorso»: pur rimanendo legate alla propria Famiglia spirituale, hanno abitato sotto lo stesso tetto per tre mesi. In questo periodo hanno incontrato molte nuclei familiari (sono 40mila i cristiani iracheni in Turchia). L’esperienza, riuscita, è stata riproposta anche l’anno successivo. La scelta è ricaduta sulla città di Kirsehir dove le religiose accompagnano 170 famiglie che appartengono a diverse confessioni cristiane (caldei, cattolici, siriaci, ortodossi…).
Nei loro occhi il terrore, nelle loro parole la drammaticità di chi ha vissuto e sta vivendo una tragedia. I profughi iracheni, scappati dall’inferno della guerra e della persecuzione, non hanno ancora trovato la pace. Si sentono ostaggio di una nazione. Le ferite del loro calvario, che dura da anni, sono curate dalla presenza di tre religiose che si fanno semplicemente compagne di strada di un popolo in fuga. Nel 2016 suor Diba Kupeli delle Missionarie Francescane del Verbo Incarnato, insieme a due Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, ha iniziato un lavoro intercongregazionale a Uchisar, con «l’obiettivo di garantire una presenza e sostenere i profughi cristiani. Siamo venute in Cappadocia per farci vicine ai nostri fratelli costretti all’esilio e, contemporaneamente, costruire un nuovo percorso»: pur rimanendo legate alla propria Famiglia spirituale, hanno abitato sotto lo stesso tetto per tre mesi. In questo periodo hanno incontrato molte nuclei familiari (sono 40mila i cristiani iracheni in Turchia). L’esperienza, riuscita, è stata riproposta anche l’anno successivo. La scelta è ricaduta sulla città di Kirsehir dove le religiose accompagnano 170 famiglie che appartengono a diverse confessioni cristiane (caldei, cattolici, siriaci, ortodossi…).
I rifugiati si «sentono abbandonati.
Hanno lasciato il loro Paese, il lavoro e la casa per salvarsi la vita.
La Turchia li ha accolti, ma loro si sentono in prigione, assegnati a
una residenza, perché non possono muoversi senza un’autorizzazione della
Polizia». Hanno, però, le idee chiare sul loro futuro. «Vivono
nell’attesa di ricevere un visto per i Paesi dell’Occidente, non pensano
di ritornare nelle loro abitazioni distrutte e non pensano di rimanere
qui: sono senza lavoro o malpagati e non mandano i loro figli a scuola
per evitare ogni assimilazione o umiliazione religiosa».
È difficile «raccontare il dramma di tante persone, le
centinaia di storie, ascoltate più con il cuore che con le orecchie, di
persecuzione, di rifiuto e di dolore. Penso ad esempio a chi era
proprietario di diversi negozi in Iraq e, in una notte, ha perso tutto
ed è fuggito con la sua macchina, con sua moglie e con i suoi tre figli,
di cui uno disabile; qui in Turchia ha trovato lavoro come semplice
operaio per uno stipendio da fame, aspettando un visto che non arriva.
Penso al pianto di due genitori per il loro figlio, giovane prete, sgozzato mentre celebrava l’eucaristia». E poi ci sono le lacrime versate: «Non
possiamo comprendere le sofferenze che hanno subito e ci limitiamo a
rispondere baciando le mani di persone che, nonostante tutto, non hanno
perso la fiducia in Dio e nell’essere umano».
Sono profughi che, sulla carta, hanno ottenuto lo status di
protezione internazionale, ma attendono, a volte senza grandi illusioni,
di essere sistemati in un’altra nazione.
«Alcune famiglie sono in Turchia da sei anni. Aspettano di andare in Australia, in Canada, negli Stati Uniti o in Europa dove si trovano i loro parenti». Il Paese natale non offre ancora adeguate garanzie. «Non vogliono tornare nella terra dalla quale sono stati brutalmente sradicati, anche perché oggi hanno ancora troppa paura». Fino a dicembre 2018 suor Diba, di origine turca, ha collaborato con le Piccole Sorelle, ora con due Missionarie Comboniane. «Siamo qui per loro, per i profughi esiliati, per essere presenza di Chiesa vicina». Nella quotidianità visitano le famiglie, le sostengono «nella speranza» e le aiutano «in un inserimento non facile visto che sono prive di ogni sostegno pratico e spirituale». E nel loro servizio li hanno coinvolti nelle lezioni di turco, arabo e inglese e nelle attività con i giovani, compresi i campi estivi. «Non abbiamo un luogo dove poterci incontrare, così ci riuniamo nelle case, mentre i giochi e i laboratori per i bambini si fanno in una palestra che dobbiamo affittare». Non hanno una chiesa dove pregare insieme e non possono celebrare la Messa. «Ogni tanto passa un prete o il Vescovo. I momenti di preghiera sono preziosi. Abbiamo tentato di “leggere” il loro vissuto alla luce del Popolo di Dio in esilio: la Parola di Dio illumina la vita e la vita vissuta aiuta a capire la Parola».
«Alcune famiglie sono in Turchia da sei anni. Aspettano di andare in Australia, in Canada, negli Stati Uniti o in Europa dove si trovano i loro parenti». Il Paese natale non offre ancora adeguate garanzie. «Non vogliono tornare nella terra dalla quale sono stati brutalmente sradicati, anche perché oggi hanno ancora troppa paura». Fino a dicembre 2018 suor Diba, di origine turca, ha collaborato con le Piccole Sorelle, ora con due Missionarie Comboniane. «Siamo qui per loro, per i profughi esiliati, per essere presenza di Chiesa vicina». Nella quotidianità visitano le famiglie, le sostengono «nella speranza» e le aiutano «in un inserimento non facile visto che sono prive di ogni sostegno pratico e spirituale». E nel loro servizio li hanno coinvolti nelle lezioni di turco, arabo e inglese e nelle attività con i giovani, compresi i campi estivi. «Non abbiamo un luogo dove poterci incontrare, così ci riuniamo nelle case, mentre i giochi e i laboratori per i bambini si fanno in una palestra che dobbiamo affittare». Non hanno una chiesa dove pregare insieme e non possono celebrare la Messa. «Ogni tanto passa un prete o il Vescovo. I momenti di preghiera sono preziosi. Abbiamo tentato di “leggere” il loro vissuto alla luce del Popolo di Dio in esilio: la Parola di Dio illumina la vita e la vita vissuta aiuta a capire la Parola».