By L'Osservatore Romano in Il Sismografo blogspot
C’è
uno stile cristiano «di stare in Medio oriente» e bisogna aiutare
pastori e fedeli a riscoprirlo e a viverlo. Questo stile è quello che il
Papa ha posto come chiave di volta del suo pontificato: Evangelii
gaudium. Lo ha sottolineato il cardinale Leonardo Sandri a conclusione
dell’incontro di lavoro sulla crisi in Iraq, in Siria e nei paesi
limitrofi, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano
integrale.
Il
prefetto della Congregazione per le Chiese orientali — intervenendo
venerdì 14 settembre, alla Pontificia università Urbaniana, con una
riflessione sul tema «Nel deserto preparate la via al Signore: percorsi
per il ritorno, pellegrinaggio alle sorgenti» — ha ribadito quello che
Papa Francesco ha più volte ripetuto: un Medio oriente senza i cristiani
non sarà più Medio oriente. Questa affermazione, ha aggiunto, «si fa
eco della visione della Santa Sede, che solo nel 2010 aveva dedicato un
intero sinodo speciale per il Medio oriente», volendo rilanciare la
regione sotto il binomio “comunione e testimonianza”.
Alcuni processi che il sinodo «aveva solo indicato, sono rimasti come congelati». Anche per questo, ha constatato, si è ancora «costretti ad assistere da un lato a forme di imposizione dall’esterno di democrazie molto sterili se non controproducenti», e dall’altro «al sorgere di forme di fondamentalismo, talora combattute solo a parole dagli attori internazionali che avrebbero il potere di arginarne il dilagare».
Purtroppo, è l’analisi del porporato, «sul discernimento delle situazioni concrete c’è stata e a volte rimane almeno qualche perplessità fra la disamina che fanno coloro che abitano quelle regioni» — come testimoniano tanti interventi di patriarchi e vescovi — e «i tanti osservatori internazionali». Di fatto, ogni sofferenza «rimane sofferenza indipendentemente da chi la viva e come tale va evitata o alleviata». Ma alcune di queste sofferenze, ha sottolineato il cardinale, sono state di fatto «provocate da politiche internazionali dissennate e alimentate da schieramenti contrapposti».
«Oltre ad aiutare — ha aggiunto — non possiamo se non portare avanti oggi il “metodo” fortemente voluto e inaugurato» dal Papa con l’incontro di Bari del 7 luglio: «ritrovarsi, pregare, ascoltarsi, non avendo paura di chiamare per nome il male nelle sue diverse forme» ma tenendo insieme una «capacità profetica che offre una parola anche al nostro essere Chiese in e del Medio oriente», senza rinchiudersi quindi soltanto «nel recinto del libro delle lamentazioni». Perché il deserto «può essere inteso in modo soltanto umano: luogo di aridità, di pericolo, di mancanza di risorse e di morte». Ma per i credenti «è il luogo dell’incontro con Dio, del cammino di liberazione, del dono delle dieci parole, della provvidenza di Dio che ci consente di superare le prove e le tentazioni». Il prefetto ha poi ricordato la visita compiuta in Siria lo scorso anno dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Cyril Vasil’, che ha incontrato ad Aleppo una famiglia composta da due sposi e tre ragazzi. Tutti avevano il passaporto venezuelano. Gli hanno detto: «Padre, lei conosce la situazione del Venezuela oggi. Abbiamo scelto di tornare a casa, ad Aleppo, per iniziare qui una nuova vita». E grazie al progetto “Aleppo vi aspetta”, circa sessanta famiglie sono già tornate.
In ogni caso, ha chiarito il cardinale, il recupero degli spazi abitativi per «un possibile e auspicato ritorno», benché «in una prima fase forse non potrà evitare di essere protetto anche militarmente», non deve portare in alcun modo «all’istituzione di “zone protette” quasi come le riserve dei nativi americani di una volta». Infatti, il «principio di coabitazione e di comune cittadinanza» — che tra l’altro ha trovato accoglienza almeno formale nel mondo islamico dopo il convegno dell’Università Al-Ahzar cui ha partecipato lo stesso Pontefice — deve «essere salvaguardato come ci chiedono giustamente i pastori del Medio oriente». Certamente si tratta di un cammino lungo, che «volendo essere realisti non farà tornare tutto come era prima, tuttavia è iniziato».
In questo senso, «vanno sostenuti tutti gli sforzi di patriarchi e vescovi», anche se il «solo livello materiale alla lunga si rivelerà fragile e insufficiente». Infatti, secondo il porporato, immaginare di essere «Chiesa in Medio oriente evitando o fuggendo i conflitti, o tentando di risolverli con logiche non evangeliche forse preserverà le nostre strutture» ma non «alimenterà la fede e la speranza dei nostri cristiani». Per questo, ha sottolineato, non possiamo più concepire «il nostro stare in Medio oriente soltanto e semplicemente come un diritto, che ci renderebbe fatalmente parte fragile di un conflitto e di una guerra». Stare e restare nel territorio «delle nostre Chiese, lacerato da ogni forma di violenza e conflitti, sarà sempre più per noi vocazione e scelta». Bisogna dunque partire non tanto «dalla situazione delle nostre Chiese e comunità che può a volte preoccupare», ma dalla vocazione che «le nostre Chiese hanno in questo contesto così difficile».
Alcuni processi che il sinodo «aveva solo indicato, sono rimasti come congelati». Anche per questo, ha constatato, si è ancora «costretti ad assistere da un lato a forme di imposizione dall’esterno di democrazie molto sterili se non controproducenti», e dall’altro «al sorgere di forme di fondamentalismo, talora combattute solo a parole dagli attori internazionali che avrebbero il potere di arginarne il dilagare».
Purtroppo, è l’analisi del porporato, «sul discernimento delle situazioni concrete c’è stata e a volte rimane almeno qualche perplessità fra la disamina che fanno coloro che abitano quelle regioni» — come testimoniano tanti interventi di patriarchi e vescovi — e «i tanti osservatori internazionali». Di fatto, ogni sofferenza «rimane sofferenza indipendentemente da chi la viva e come tale va evitata o alleviata». Ma alcune di queste sofferenze, ha sottolineato il cardinale, sono state di fatto «provocate da politiche internazionali dissennate e alimentate da schieramenti contrapposti».
«Oltre ad aiutare — ha aggiunto — non possiamo se non portare avanti oggi il “metodo” fortemente voluto e inaugurato» dal Papa con l’incontro di Bari del 7 luglio: «ritrovarsi, pregare, ascoltarsi, non avendo paura di chiamare per nome il male nelle sue diverse forme» ma tenendo insieme una «capacità profetica che offre una parola anche al nostro essere Chiese in e del Medio oriente», senza rinchiudersi quindi soltanto «nel recinto del libro delle lamentazioni». Perché il deserto «può essere inteso in modo soltanto umano: luogo di aridità, di pericolo, di mancanza di risorse e di morte». Ma per i credenti «è il luogo dell’incontro con Dio, del cammino di liberazione, del dono delle dieci parole, della provvidenza di Dio che ci consente di superare le prove e le tentazioni». Il prefetto ha poi ricordato la visita compiuta in Siria lo scorso anno dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Cyril Vasil’, che ha incontrato ad Aleppo una famiglia composta da due sposi e tre ragazzi. Tutti avevano il passaporto venezuelano. Gli hanno detto: «Padre, lei conosce la situazione del Venezuela oggi. Abbiamo scelto di tornare a casa, ad Aleppo, per iniziare qui una nuova vita». E grazie al progetto “Aleppo vi aspetta”, circa sessanta famiglie sono già tornate.
In ogni caso, ha chiarito il cardinale, il recupero degli spazi abitativi per «un possibile e auspicato ritorno», benché «in una prima fase forse non potrà evitare di essere protetto anche militarmente», non deve portare in alcun modo «all’istituzione di “zone protette” quasi come le riserve dei nativi americani di una volta». Infatti, il «principio di coabitazione e di comune cittadinanza» — che tra l’altro ha trovato accoglienza almeno formale nel mondo islamico dopo il convegno dell’Università Al-Ahzar cui ha partecipato lo stesso Pontefice — deve «essere salvaguardato come ci chiedono giustamente i pastori del Medio oriente». Certamente si tratta di un cammino lungo, che «volendo essere realisti non farà tornare tutto come era prima, tuttavia è iniziato».
In questo senso, «vanno sostenuti tutti gli sforzi di patriarchi e vescovi», anche se il «solo livello materiale alla lunga si rivelerà fragile e insufficiente». Infatti, secondo il porporato, immaginare di essere «Chiesa in Medio oriente evitando o fuggendo i conflitti, o tentando di risolverli con logiche non evangeliche forse preserverà le nostre strutture» ma non «alimenterà la fede e la speranza dei nostri cristiani». Per questo, ha sottolineato, non possiamo più concepire «il nostro stare in Medio oriente soltanto e semplicemente come un diritto, che ci renderebbe fatalmente parte fragile di un conflitto e di una guerra». Stare e restare nel territorio «delle nostre Chiese, lacerato da ogni forma di violenza e conflitti, sarà sempre più per noi vocazione e scelta». Bisogna dunque partire non tanto «dalla situazione delle nostre Chiese e comunità che può a volte preoccupare», ma dalla vocazione che «le nostre Chiese hanno in questo contesto così difficile».