By Avvenire
Luca Geronico
Khidir Azzo Abada, il volto scavato dietro i soliti occhiali scuri, è seduto al tavolino dello spaccio all’ingresso di Ankawa Mall. Aspetta anche lui, come gli altri 1.700 profughi giunti da Qaraqosh, il trasloco anche se i suoi occhi, offesi dalla malattia e uno da un intervento sbagliato nel 1963 a Baghdad, non possono vedere la fila dei bianchi container già montati ad Ashti camp.
È iniziato il rimpallo delle date, ma tra pochi giorni il governo farà aprire il cancello principale: un container a famiglia, mentre dietro la rete di metallo, un rullo spiana la terra dei viali fra le baracche. Difficile, dopo sette mesi dalla fuga da Qaraqosh, pensare al futuro: la promessa è di circa 10 metri quadrati in più, suddivisi in due vani con un piccolo w.c.. Qualcosa di meglio, si spera, dei circa 15 metri quadrati senza servizi ricavati nel cantiere dimesso di Ankawa Mall. Il centro commerciale dovrà essere completato e la proprietà non ha rinnovato il contratto di affitto.
«Ci hanno detto che andremo. Siamo dei profughi», risponde con poco voce Khidir, il viso quasi immobile. Avrà poco più di 50 anni, anche se ne dimostra una decina in più. Come invalido aveva un posto da usciere al tribunale della sua città, di certo non una macchina da guidare per scappare: «Sono rimasto a casa mia fino al 22 agosto», circa due settimane nella città in mano allo Stato islamico. «Avevano chiuso tutti i negozi, ci davano loro qualcosa da mangiare ogni giorno – racconta –. Un giorno ci hanno detto: vi portiamo via. Ci hanno radunati in un ambulatorio vicino alla moschea». Erano in tutto 33 persone fatte salire su dei pulmini.
Seduto allo spaccio Khidir non può vedere all’ingresso di Ankawa Mall, lo sciame continuo di operatori umanitari e cronisti: è il campo simbolo della fuga da Ninive, un luogo obbligato per la macchina della solidarietà internazionale. Un meccanismo che davanti alla luce dei riflettori pare ben oliato, anche se nel quartiere generale delle Nazioni Unite si suona la sirena d’allarme: sono 2 milioni i profughi in Iraq, quasi la metà nel Kurdistan iracheno e l’offensiva di primavera, stimano gli esperti, provocherà altri 700mila “displaced people”.
Se ad agosto le autorità curde hanno aperto le frontiere accogliendo tutti, ora la pressione potrebbe diventare insostenibile: il piano totale dei soccorsi è stimato in due 2,2 miliardi si dollari, mentre i 500 milioni messi a disposizione lo scorso anno dall’Arabia Saudita si sono ormai esauriti. Le raccolte dei donatori istituzionali hanno coperto finora il 37% del totale. L’allarme, sui bollettini ufficiali distribuiti dai responsabili di coordinare gli aiuti umanitari, è che il 60% dei soccorsi potrebbe essere bloccato o drasticamente ridotto, se gli aiuti non verranno trovati nelle prossime settimane. È la macchina della solidarietà internazionale a rischio implosione, di fronte a una crisi di proporzioni e complessità che rischiano di divenire ingovernabili.
Intanto l’instabilità regionale accresce rischi e problemi: 710 famiglie sono bloccate a un posto di blocco sulla strada fra Kirkuk ed Erbil. Sono scappati dalla battaglia a Tikrit, ma certo il timore di possibili infiltrazioni di terroristi dell’Is deve aver pesato non poco nella decisione di Erbil di chiudere la frontiera. Intanto, stime sempre delle Nazioni Unite, sono almeno 100mila i profughi, quasi tutti musulmani sunniti, non lontano da Ramadi, nel pieno deserto dell’Ambar. Là è logisticamente quasi impossibile far giungere aiuti non occasionali.
«Siamo profughi, è normale che ci spostino», ripete a bassa voce Khidir. Difficile chiamarlo fortunato, anche se secondo le statistiche solo uno su dieci ha trovato rifugio nei campi. I più benestanti e chi ha ancora uno stipendio, pagano affitti che sfiorano i 600 dollari al mese anche nella periferia di Erbil. Molti sono ancora in ripari di fortuna e occasionali, confidando nella solidarietà dei parenti, delle chiese e delle associazioni locali. Sembra una gare di resistenza, allo sfinimento. Aspettando il trasloco.
Per mangiare a tutti è assicurato un voucher di 30mila dinari, 25 dollari al mese in famiglie in media di otto persone. Sovvenzioni che valgono circa duecento dollari al mese, mentre per un lavoro non qualificato lo Stato paga a un neo-assunto salari pari a 600 dollari al mese.
Khidir sopravvive con la moglie e due figlie, ma il dolore gli scava l’anima mentre raddrizza il bastone di legno con una manopola avvolta in uno sdrucito nastro bianco. «Quando l’autista ci ha portato via da Qaraqosh hanno preso la mia terza figlia: Cristina di tre anni. A mia moglie, che ha protestato per due volte, hanno detto: se parli ancora ti uccidiamo». Poi li hanno portati a un posto di blocco. Anche Khidir con il suo bastone da cieco, ha camminato per ore prima di trovare un soccorso.
Lui con la moglie in salvo e con una figlia rapita: «Mi hanno detto che adesso è a Mosul, è proprietà di un certo Abu Niswah. Ho mandato due milioni di dinari per liberare la bimba. Non è servito a nulla», dice mentre si accende una sigaretta. Da allora ha parlato con una ventina di operatori umanitari: «Una volta è venuto anche un avvocato. Non so poi che cosa abbia fatto», continua sempre con lo stesso timbro di voce. Come tutti vorrebbe tornare a casa, ma «non ci fidiamo più di alcune tribù, come i mera che ci hanno derubato di tutto. Ci vuole una protezione molto forte».
«Sì, sono cristiano. Ma questa Pasqua non è in un tempo per fare festa». Tra pochi giorni anche il suo dolore traslocherà in un container all’Ashti camp, in curdo “Campo della pace”.
Luca Geronico
Khidir Azzo Abada, il volto scavato dietro i soliti occhiali scuri, è seduto al tavolino dello spaccio all’ingresso di Ankawa Mall. Aspetta anche lui, come gli altri 1.700 profughi giunti da Qaraqosh, il trasloco anche se i suoi occhi, offesi dalla malattia e uno da un intervento sbagliato nel 1963 a Baghdad, non possono vedere la fila dei bianchi container già montati ad Ashti camp.
È iniziato il rimpallo delle date, ma tra pochi giorni il governo farà aprire il cancello principale: un container a famiglia, mentre dietro la rete di metallo, un rullo spiana la terra dei viali fra le baracche. Difficile, dopo sette mesi dalla fuga da Qaraqosh, pensare al futuro: la promessa è di circa 10 metri quadrati in più, suddivisi in due vani con un piccolo w.c.. Qualcosa di meglio, si spera, dei circa 15 metri quadrati senza servizi ricavati nel cantiere dimesso di Ankawa Mall. Il centro commerciale dovrà essere completato e la proprietà non ha rinnovato il contratto di affitto.
«Ci hanno detto che andremo. Siamo dei profughi», risponde con poco voce Khidir, il viso quasi immobile. Avrà poco più di 50 anni, anche se ne dimostra una decina in più. Come invalido aveva un posto da usciere al tribunale della sua città, di certo non una macchina da guidare per scappare: «Sono rimasto a casa mia fino al 22 agosto», circa due settimane nella città in mano allo Stato islamico. «Avevano chiuso tutti i negozi, ci davano loro qualcosa da mangiare ogni giorno – racconta –. Un giorno ci hanno detto: vi portiamo via. Ci hanno radunati in un ambulatorio vicino alla moschea». Erano in tutto 33 persone fatte salire su dei pulmini.
Seduto allo spaccio Khidir non può vedere all’ingresso di Ankawa Mall, lo sciame continuo di operatori umanitari e cronisti: è il campo simbolo della fuga da Ninive, un luogo obbligato per la macchina della solidarietà internazionale. Un meccanismo che davanti alla luce dei riflettori pare ben oliato, anche se nel quartiere generale delle Nazioni Unite si suona la sirena d’allarme: sono 2 milioni i profughi in Iraq, quasi la metà nel Kurdistan iracheno e l’offensiva di primavera, stimano gli esperti, provocherà altri 700mila “displaced people”.
Se ad agosto le autorità curde hanno aperto le frontiere accogliendo tutti, ora la pressione potrebbe diventare insostenibile: il piano totale dei soccorsi è stimato in due 2,2 miliardi si dollari, mentre i 500 milioni messi a disposizione lo scorso anno dall’Arabia Saudita si sono ormai esauriti. Le raccolte dei donatori istituzionali hanno coperto finora il 37% del totale. L’allarme, sui bollettini ufficiali distribuiti dai responsabili di coordinare gli aiuti umanitari, è che il 60% dei soccorsi potrebbe essere bloccato o drasticamente ridotto, se gli aiuti non verranno trovati nelle prossime settimane. È la macchina della solidarietà internazionale a rischio implosione, di fronte a una crisi di proporzioni e complessità che rischiano di divenire ingovernabili.
Intanto l’instabilità regionale accresce rischi e problemi: 710 famiglie sono bloccate a un posto di blocco sulla strada fra Kirkuk ed Erbil. Sono scappati dalla battaglia a Tikrit, ma certo il timore di possibili infiltrazioni di terroristi dell’Is deve aver pesato non poco nella decisione di Erbil di chiudere la frontiera. Intanto, stime sempre delle Nazioni Unite, sono almeno 100mila i profughi, quasi tutti musulmani sunniti, non lontano da Ramadi, nel pieno deserto dell’Ambar. Là è logisticamente quasi impossibile far giungere aiuti non occasionali.
«Siamo profughi, è normale che ci spostino», ripete a bassa voce Khidir. Difficile chiamarlo fortunato, anche se secondo le statistiche solo uno su dieci ha trovato rifugio nei campi. I più benestanti e chi ha ancora uno stipendio, pagano affitti che sfiorano i 600 dollari al mese anche nella periferia di Erbil. Molti sono ancora in ripari di fortuna e occasionali, confidando nella solidarietà dei parenti, delle chiese e delle associazioni locali. Sembra una gare di resistenza, allo sfinimento. Aspettando il trasloco.
Per mangiare a tutti è assicurato un voucher di 30mila dinari, 25 dollari al mese in famiglie in media di otto persone. Sovvenzioni che valgono circa duecento dollari al mese, mentre per un lavoro non qualificato lo Stato paga a un neo-assunto salari pari a 600 dollari al mese.
Khidir sopravvive con la moglie e due figlie, ma il dolore gli scava l’anima mentre raddrizza il bastone di legno con una manopola avvolta in uno sdrucito nastro bianco. «Quando l’autista ci ha portato via da Qaraqosh hanno preso la mia terza figlia: Cristina di tre anni. A mia moglie, che ha protestato per due volte, hanno detto: se parli ancora ti uccidiamo». Poi li hanno portati a un posto di blocco. Anche Khidir con il suo bastone da cieco, ha camminato per ore prima di trovare un soccorso.
Lui con la moglie in salvo e con una figlia rapita: «Mi hanno detto che adesso è a Mosul, è proprietà di un certo Abu Niswah. Ho mandato due milioni di dinari per liberare la bimba. Non è servito a nulla», dice mentre si accende una sigaretta. Da allora ha parlato con una ventina di operatori umanitari: «Una volta è venuto anche un avvocato. Non so poi che cosa abbia fatto», continua sempre con lo stesso timbro di voce. Come tutti vorrebbe tornare a casa, ma «non ci fidiamo più di alcune tribù, come i mera che ci hanno derubato di tutto. Ci vuole una protezione molto forte».
«Sì, sono cristiano. Ma questa Pasqua non è in un tempo per fare festa». Tra pochi giorni anche il suo dolore traslocherà in un container all’Ashti camp, in curdo “Campo della pace”.