by Stefano Nanni
Tra tutti i paesi del Medio Oriente l’Iraq è quello che ospita al suo interno il maggior numero di minoranze.
Arabi, assiri, curdi, turkomani, cristiani, yazidi, palestinesi, mandeani, shabaki, bahaii e kakayi, solo per citarne alcuni, hanno vissuto in modo relativamente pacifico fino all’avvento del partito Ba’ath, giunto al potere con un colpo di stato nel 1968.
La politica di 'arabizzazione' condotta da Saddam Hussein ha inevitabilmente forzato le minoranze a nascondere, o quantomeno a non mostrare, la propria identità in nome dell’unità nazionale.
Paura, privazioni e discriminazioni di ogni genere erano praticamente all’ordine del giorno.
Ora - a dieci anni dalla caduta del regime di Saddam - appare difficile parlare di un vero e proprio miglioramento delle loro condizioni di vita.
Un rapporto presentato il 25 settembre da al Messala - Center for Human Resource and Civil Development Organization, partner storico di Un ponte per..., conclude che "la continua spirale di violenza contro le minoranze ha creato un sentimento diffuso di abbandono totale da parte del governo".
Redatto a partire da interviste fatte ad un campione di 376 cittadini appartenenti a sei diverse minoranze - ed ai relativi sottogruppi religiosi - localizzate tra sei province, il rapporto tenta di individuare i principali ostacoli che si frappongono al raggiungimento di un’uguaglianza giuridica con la maggioranza arabo-sunnita.
Le difficoltà emergono sin dalla premessa.
Innanzitutto la mancanza di dati ufficiali, sintomo del poco interesse che le istituzioni di Baghdad nutrono verso le proprie minoranze.
Inoltre va sottolineata la molteplicità delle organizzazioni che le rappresentano, nonché la loro dispersione demografica, politica, religiosa e culturale.
Ma soprattutto il rapporto segnala quanto sia stato difficile intervistare persone che mostravano una reale paura nel parlare della propria identità.
Timore, ma soprattutto sfiducia: diverse persone hanno espresso riserve nel discutere apertamente dei loro problemi di discriminazione, dopo averlo fatto già altre volte senza aver visto alcun risultato concreto.
Un’eccezione significativa va fatta per la minoranza curda, la cui condizione è effettivamente migliorata in seguito alla prima Guerra del Golfo del 1991 - quando le tre province del nord furono 'liberate e formarono la regione autonoma del Kurdistan'.
Nel resto del paese, la caduta di Saddam Hussein nel 2003 non ha che riproposto con forza il problema della tutela delle diverse minoranze che per secoli hanno abitato l'antica Mesopotamia.
Da allora si registra un aumento esponenziale delle violenze contro i gruppi religiosi ed etnici diversi dalla maggioranza araba e musulmano-sunnita (il 96% circa della popolazione).
Ed anche nel 'pacifico e sicuro’ Kurdistan, le minoranze non si sentono (e non sono) più al sicuro.
A tal proposito basta ricordare gli attacchi subiti dai cristiani e dagli yazidi nel dicembre 2011: 37 esercizi commerciali furono incendiati in una spirale di violenza che durò per diversi giorni ed interessò anche la minoranza turkmena.
Il problema principale, secondo la ricerca, risiede principalmente nella natura della legislazione irachena che prende spunto dalla shari'a e poco dai principi di diritto civile: "un aspetto già presente nella Costituzione provvisoria post-2003 e che ha visto sicuramente dei miglioramenti nella nuova Carta del 2005. Ciononostante, ci sono ostacoli evidenti all’applicazione pratica delle disposizioni previste".
Durante le cerimonie religiose nei rispettivi luoghi di culto, soltanto il 30% degli intervistati ammette di sentirsi al sicuro ed al riparo da eventuali aggressioni.
E se non sono violenze, sono comunque discriminazioni: il libero esercizio delle proprie attività economiche e professionali si scontra - secondo i kakayi - con enormi pregiudizi che interessano la loro comunità.
"E’ praticamente impossibile aprire un ristorante, sappiamo già che non ci verrà nessuno, come è avvenuto in passato. Il motivo? La nostra usanza di portare dei lunghi baffi, che per noi rappresenta una norma culturale di notevole importanza, mentre è mal vista dal resto della popolazione".
Tuttavia, la misura del livello di tutela del mosaico di minoranze iracheno è data dall’affermazione dei loro diritti civili e politici. A tal riguardo il rapporto afferma che soltanto l’11% dei membri delle varie minoranze ritiene che questi siano rispettati, mentre il 49 e il 40% pensa che siano poco o per nulla tutelati.
"Anche quando si riesce a far eleggere un rappresentante della nostra comunità nell’Iraqi Council of Representatives – il Parlamento, ndr – o nei consigli locali, le nostre proposte devono sottostare alle decisioni dei grandi partiti. Di fatto, dunque, la nostra partecipazione serve veramente a poco".
E non sembra un caso che un altro rapporto dello scorso agosto collochi l’Iraq al quarto posto tra i paesi dove le minoranze sono a rischio sopravvivenza.