by Paolo martino
Amman è la capitale di un paese in bilico tra la fedeltà a una
monarchia filo occidentale e l'onda d'urto della Primavera araba. Una
comunità di tremila armeni, piccolo astro nel firmamento della diaspora,
vive e sopravvive alle contraddizioni del Medioriente. L'undicesima
puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"
“C'è un momento, poco prima del tramonto, in cui il cielo di Baghdad
diventa così rosso che devi guardarlo per forza. Ogni giorno la stessa
storia. Io ci sono nato e cresciuto, eppure non mi sono mai abituato a
quella luce”. Sevag sonnecchia col gomito appoggiato al ciclostilo meno
impolverato della sua tipografia. Una bandierina armena pende immobile
sulla sua testa, unta e stanca come lui. “Sono passati dieci anni da
quando sono scappato”. Per un istante lo sguardo del tipografo è
attraversato da un'energia vitale. “Tornerei laggiù solo per riempirmi
di nuovo gli occhi con uno di quei tramonti. Ma poi”, torna a
sonnecchiare, “andrei via di nuovo. Per noi armeni non c'è futuro in
Iraq”.
Giordania, un mese prima di Natale. I viottoli ripidi di Jabal
Ashrafieh, la “Collina del Panorama” sono punteggiati da ghirlande di
carta e luci colorate. Porta dei deserti arabici del sud, radice delle
dinastie beduine, Amman è la capitale di un paese in bilico tra la
fedeltà a una monarchia filo occidentale e l'onda d'urto della Primavera
araba. Una comunità di tremila armeni, piccolo astro nel firmamento
della diaspora, vive concentrata nei quartieri a maggioranza cristiana
della città, in alto, dove l'eco delle manifestazioni che ogni venerdì
riempiono le strade del centro arriva smorzato.
“Prima che arrivassero gli americani, l'Iraq era un paese
tranquillo”. La tipografia di Sevag è aperta, ma per entrare bisogna
chinarsi sotto la saracinesca arrugginita. “I bombardamenti delle prime
settimane furono un incubo. Noi armeni però siamo rimasti, non volevamo
abbandonare casa nostra”. Fino alla seconda guerra del Golfo, l'Iraq
ospitava una comunità di venticinquemila armeni, discendenti dei
sopravvissuti al genocidio. “La guerra civile però non ci ha lasciato
scampo. Autobombe, attentati, rapimenti. Arrivato in Giordania ho
continuato a fare l'unica cosa che so fare, il tipografo. Ma gli affari
non vanno, ormai spero solo nel visto per il Canada”. Tra i due milioni
di rifugiati iracheni arrivati in Siria e Giordania dopo il 2003, circa
cinquemila sono armeni. “E' sempre così,” Sevag si passa la mano sulla
barba ispida, “in guerra sono le minoranze a pagare il conto più
salato”.
L'intero reportage
Il blu del cielo è accecante. All'orizzonte, oltre la distesa
di case che aggredisce i sette colli di Amman, incombe come un
presentimento il deserto, l'universo ocra e limpido dove solo i beduini
sanno stare in piedi. Sulla sommità del Jabal Ashrafieh, all'ombra di un
muro che cinge l'intimità di una chiesa armena, un mercatino natalizio
richiama un viavai di persone. Hagop, ex presidente del Club armeno di
Amman, accoglie con rispetto la visita di un giornalista straniero.
“L'arrivo dei profughi armeni, quasi cento anni fa, fu una benedizione
per la monarchia giordana. I nostri padri portarono mestieri nuovi,
tecnologia, cultura. Ancora oggi la maggior parte degli orafi, dei
fotografi, degli artigiani di Amman sono armeni”. La fedeltà eterna dei
nuovi arrivati alla famiglia reale fu sigillata dall'assegnazione della
cittadinanza, che innalzò lo status di un gruppo di profughi a quello di
membri a pieno titolo della comunità.
“Nel tempo la comunità ha avuto alti e bassi. Negli anni '50 molti
attraversarono la Siria per stabilirsi in Libano, un paese che offriva
grandi opportunità. All'epoca lo chiamavano la Svizzera del Medio
Oriente”. Vent'anni dopo quelle stesse famiglie furono costrette dalla
guerra civile libanese a rientrare in Giordania, profughi per la seconda
volta in due generazioni.
“Lo ricordo come fosse ieri. Enormi macchine americane con la targa
di Beirut, piene di bagagli, da cui scendevano facce disorientate. Molti
ripartirono subito, per gli Stati Uniti, per l'Africa o per il sud
America”. Ancora una migrazione, ancora un tassello nella poliedrica
identità dei figli della diaspora armena.
Intanto il mercatino sta per chiudere. Davanti a un tè, mentre il
sole si prepara a cadere oltre il deserto, l'atmosfera nel cortile della
chiesa si fa più intima. “La Siria sarà una carneficina, credimi.
Peggio del Libano, peggio dell'Iraq. In ballo c'è qualcosa di ancora più
grande”. Come se quanto detto finora fosse stato solo una premessa, un
prologo di formalità, il discorso vira violentemente sull'argomento che
aleggia su questa terra e queste persone col peso di un macigno. “Gli
Stati Uniti stavolta hanno trovato un sistema geniale per destabilizzare
il Medio Oriente, non hanno dovuto sparare neanche un colpo. Hanno
armato direttamente i cittadini siriani contro il loro governo. E il
governo è costretto a rispondere al fuoco”.
La teoria che dietro alla Primavera siriana ci sia una ingerenza
esterna è comune, soprattutto tra chi percepisce il cambiamento come un
salto nel vuoto, chi si sente indifeso al di fuori degli equilibri
esistenti. “Ma ci sono in atto massacri di civili. I governi dovrebbero proteggere i loro cittadini.”
La reazione di Hagop alla mia frase è gelida. “Perché”, chiede senza neanche aspettare la risposta, “il governo ottomano nel 1915 difese i suoi cittadini armeni?”.
La reazione di Hagop alla mia frase è gelida. “Perché”, chiede senza neanche aspettare la risposta, “il governo ottomano nel 1915 difese i suoi cittadini armeni?”.