Negli ultimi anni i cristiani iracheni che non sono fuggiti all’estero si sono trasferiti in massa da Baghdad, Bassora e Mosul ai villaggi della Piana di Ninive o in Kurdistan, dove la sicurezza è garantita dai soldati curdi (formalmente una componente dell'esercito iracheno, di fatto al servizio del governo regionale del Kurdistan dominato da due partiti, Pdk e Puk).
Ora a ritmo più cadenzato anche quelli reinsediati nel nord attraversano il confine con la Turchia, e da lì nel giro di qualche anno emigrano in Europa o in America. Ma ci sono tanti che resistono e c’è anche chi percorre il cammino all’incontrario. Come abbiamo ricordato all'inizio in tutto l’Iraq restano circa 350 mila cristiani, e di questi nella sola capitale 150 mila; del tracollo di Mosul s’è detto. Invece sono lievitate le diocesi del Kurdistan e le cittadine della Piana di Ninive, che complessivamente hanno raddoppiato la popolazione cristiana da 40 mila a 80 mila unità, mentre la diocesi di Dohuk-Zakho è diventata la seconda del paese sfondando probabilmente quota 100 mila.
Anche Erbil, dove sono stati trasferiti il seminario interdiocesano e la facoltà teologica, ha visto un boom di immigrazione cristiana: il quartiere a maggioranza cristiana di Ankawa ha visto raddoppiare il numero delle famiglie da 2 mila a 4 mila. Nella piana di Ninive i cristiani hanno rafforzato le maggioranze, a volte schiaccianti, che avevano in tutte le cittadine con l’eccezione di Tel Qaif, la località di cui è nativo il patriarca Emmanuele Delly III: qui i cristiani da maggioritari che erano sono scesi al 30 per cento, e i loro sacerdoti sono emigrati tutti negli Usa tranne uno.
Ma è proprio qui che incontriamo Samira, un’anziana signora che è tornata dopo cinque anni trascorsi a Detroit per assistere le tre nipoti, rimaste orfane dopo la morte di sua figlia. Vive nella casa del genero, che non si è risposato: «Per me», dice, «qui o in America è la stessa cosa: non uscivo di casa là e non esco nemmeno qua».
«Vivere un solo giorno in Iraq vale più che vivere tutta la vita in America», sentenzia Yohannes, il genero rimasto vedovo. Un massiccio cinquantenne che sussulta di orgoglio. Lui non si è accodato alla colonna dei richiedenti asilo, né ha sfruttato la sua posizione di parente di una famiglia che era già stata accolta negli Usa. Avrà avuto le sue ragioni personali per farlo, ma non sottovalutate mai il senso dell'onore della gente di queste parti. Mostrarsi coraggiosi e comportarsi di conseguenza è fondamentale per essere rispettati dalla comunità in cui si vive. Ci si arrende agli abusi dei prepotenti solo se non è possibile fare diversamente, si va via solo se la sussistenza materiale diventa impossibile.
All'estremità settentrionale della Piana di Ninive, dove la pianura incontra i monti Bayhidhra, si distende Alqosh, che qualcuno soprannomina “il Vaticano dell'Iraq”.
Qui infatti sorge il monastero di Sant'Ormisda, dove a metà del Cinquecento la maggioranza dei cristiani assiri decise di ricongiungersi con la Chiesa di Roma, e sempre qui hanno avuto la loro sede sia patriarchi in comunione con Roma che patriarchi della Chiesa assira orientale, quella rimasta staccata dal cattolicesimo. Non lontano dal vecchio monastero, disabitato e in disuso, è sorta la sede del monastero antoniano di Nostra Signora delle Messi. Che dopo essersi quasi svuotato nella seconda metà del XX secolo, si è improvvisamente ripopolato nel 2007: si sono trasferiti qui per ragioni di sicurezza quasi tutti i monaci del monastero antoniano di Baghdad.
Ad Alqosh può capitare di incontrare persone come Yussef Dured, profugo dopo la prima guerra del Golfo, che ha vissuto 17 anni in Olanda facendo il pizzaiolo e il cuoco ma da tre mesi si è ristabilito in Iraq. Padre di tre figlie di due, cinque e sette anni, e marito di Sonia (anche lei una profuga cristiana irachena con la cittadinanza olandese), ha deciso con la moglie di tornare alla natìa Alqosh quando suo padre si è ammalato. «In Europa stavo bene, ma ho sempre portato nel cuore la terra dove sono nato. Qui nel nord la situazione è abbastanza tranquilla, e ho pensato che sarebbe stato bello riunificare le nostre famiglie: ho voluto che le mie figlie conoscessero i loro nonni e potessero trascorrere con loro una parte della loro vita. La situazione potrebbe peggiorare? Condivideremo il destino degli altri cristiani che vivono qui. Quello che succederà a loro succederà anche a noi».
In Olanda la famiglia frequentava le chiese cattoliche latine, ma quando si tocca l’argomento Dured si rabbuia un po’: «I cristiani iracheni sono migliori di quelli olandesi. In Olanda cedono le chiese ai musulmani che le trasformano in moschee, noi qua non faremmo mai una cosa del genere. In Olanda i musulmani chiedono e ottengono tutto nel nome dei diritti umani, e gli olandesi non capiscono che ai musulmani non interessa la realizzazione dei diritti umani, ma vogliono far trionfare la loro religione. Qui in Iraq chi rispetta i diritti umani dei cristiani?».
Qui infatti sorge il monastero di Sant'Ormisda, dove a metà del Cinquecento la maggioranza dei cristiani assiri decise di ricongiungersi con la Chiesa di Roma, e sempre qui hanno avuto la loro sede sia patriarchi in comunione con Roma che patriarchi della Chiesa assira orientale, quella rimasta staccata dal cattolicesimo. Non lontano dal vecchio monastero, disabitato e in disuso, è sorta la sede del monastero antoniano di Nostra Signora delle Messi. Che dopo essersi quasi svuotato nella seconda metà del XX secolo, si è improvvisamente ripopolato nel 2007: si sono trasferiti qui per ragioni di sicurezza quasi tutti i monaci del monastero antoniano di Baghdad.
Ad Alqosh può capitare di incontrare persone come Yussef Dured, profugo dopo la prima guerra del Golfo, che ha vissuto 17 anni in Olanda facendo il pizzaiolo e il cuoco ma da tre mesi si è ristabilito in Iraq. Padre di tre figlie di due, cinque e sette anni, e marito di Sonia (anche lei una profuga cristiana irachena con la cittadinanza olandese), ha deciso con la moglie di tornare alla natìa Alqosh quando suo padre si è ammalato. «In Europa stavo bene, ma ho sempre portato nel cuore la terra dove sono nato. Qui nel nord la situazione è abbastanza tranquilla, e ho pensato che sarebbe stato bello riunificare le nostre famiglie: ho voluto che le mie figlie conoscessero i loro nonni e potessero trascorrere con loro una parte della loro vita. La situazione potrebbe peggiorare? Condivideremo il destino degli altri cristiani che vivono qui. Quello che succederà a loro succederà anche a noi».
In Olanda la famiglia frequentava le chiese cattoliche latine, ma quando si tocca l’argomento Dured si rabbuia un po’: «I cristiani iracheni sono migliori di quelli olandesi. In Olanda cedono le chiese ai musulmani che le trasformano in moschee, noi qua non faremmo mai una cosa del genere. In Olanda i musulmani chiedono e ottengono tutto nel nome dei diritti umani, e gli olandesi non capiscono che ai musulmani non interessa la realizzazione dei diritti umani, ma vogliono far trionfare la loro religione. Qui in Iraq chi rispetta i diritti umani dei cristiani?».
Al monastero di Nostra Signora delle Messi spicca il saio grigio di un novizio.
È Hasim Harboli, 33 anni. Da due anni sta al monastero antoniano di Alqosh e presto andrà a studiare alla Facoltà teologica a Erbil. I precedenti dieci anni li ha vissuti all’estero con genitori e fratelli, gli ultimi cinque in Grecia. Lì ha sentito la chiamata alla vita religiosa. Nonostante ciò comportasse la rottura del suo fidanzamento con una ragazza irachena proveniente da un'altra famiglia rifugiata in Grecia, la famiglia di Hasim, imparentata con l'allora vescovo di Zakho mons. Petros Hanna Issa Al-Harboli (che è deceduto nel 2010), si è molto rallegrata della sua vocazione. Ma solo fino al momento in cui il figlio ha confessato loro che non avrebbe risposto alla chiamata entrando in qualche monastero greco o in un convento del Canada, dove la famiglia stava per trasferirsi, ma tornando in Iraq.
«L’amore per Cristo e il desiderio di donargli la mia vita mi è nato leggendo le vite dei santi e ammirando la dedizione con cui i sacerdoti assistevano la comunità dei profughi caldei iracheni in Grecia. Avrei preso i voti volentieri in Europa, ma poi è successo il fatto di mons. Rahho. Il suo sacrificio mi ha colpito profondamente. Ho meditato su di lui e sulle sofferenze del popolo iracheno a cui rimangono sempre meno sacerdoti. Ho preso contatto con padre Gabriel e sono venuto qui». I genitori si sono rassegnati senza gioia alla sua scelta, i fratelli gli sono apertamente ostili. Quando è partito per l'Iraq, la madre era a letto ammalata, consumata dal dispiacere. Ma lui non si è girato, perfetta incarnazione della parole tremende del Vangelo: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me”.
Non ha nessun dubbio sulla decisione che ha preso: «Voglio offrire la mia vita così come l’ha offerta Cristo». Parole di un ragazzo semplice, che è andato a lavorare come inserviente e come callista in una farmacia appena finite le scuole elementari, e che quando è arrivato ad Alqosh faceva fatica a leggere la liturgia in aramaico classico. Ma che possiede la tremenda fede dei semplici.
È Hasim Harboli, 33 anni. Da due anni sta al monastero antoniano di Alqosh e presto andrà a studiare alla Facoltà teologica a Erbil. I precedenti dieci anni li ha vissuti all’estero con genitori e fratelli, gli ultimi cinque in Grecia. Lì ha sentito la chiamata alla vita religiosa. Nonostante ciò comportasse la rottura del suo fidanzamento con una ragazza irachena proveniente da un'altra famiglia rifugiata in Grecia, la famiglia di Hasim, imparentata con l'allora vescovo di Zakho mons. Petros Hanna Issa Al-Harboli (che è deceduto nel 2010), si è molto rallegrata della sua vocazione. Ma solo fino al momento in cui il figlio ha confessato loro che non avrebbe risposto alla chiamata entrando in qualche monastero greco o in un convento del Canada, dove la famiglia stava per trasferirsi, ma tornando in Iraq.
«L’amore per Cristo e il desiderio di donargli la mia vita mi è nato leggendo le vite dei santi e ammirando la dedizione con cui i sacerdoti assistevano la comunità dei profughi caldei iracheni in Grecia. Avrei preso i voti volentieri in Europa, ma poi è successo il fatto di mons. Rahho. Il suo sacrificio mi ha colpito profondamente. Ho meditato su di lui e sulle sofferenze del popolo iracheno a cui rimangono sempre meno sacerdoti. Ho preso contatto con padre Gabriel e sono venuto qui». I genitori si sono rassegnati senza gioia alla sua scelta, i fratelli gli sono apertamente ostili. Quando è partito per l'Iraq, la madre era a letto ammalata, consumata dal dispiacere. Ma lui non si è girato, perfetta incarnazione della parole tremende del Vangelo: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me”.
Non ha nessun dubbio sulla decisione che ha preso: «Voglio offrire la mia vita così come l’ha offerta Cristo». Parole di un ragazzo semplice, che è andato a lavorare come inserviente e come callista in una farmacia appena finite le scuole elementari, e che quando è arrivato ad Alqosh faceva fatica a leggere la liturgia in aramaico classico. Ma che possiede la tremenda fede dei semplici.
* Per ogni approfondimento: “Tribolati ma non schiacciati – storie di persecuzione, fede e speranza” edito da Lindau